Guareschi, il libertario della Bassa
di Carlo Stagnaro
Un sacco di patate con i baffi può essere un banale sacco di
patate con i baffi, oppure Giovannino Guareschi. Che, morto di
crepacuore nel ’68, invero sopravvive. Lo fa attraverso le parole
che ha scolpito nei suoi racconti, le risate che ci ha strappato
con le memorabili gesta della Pasionaria e di Albertino, i
pensieri che ci ha sussurrato all’orecchio. Lo fa anche se non è
più qui in carne e ossa: lo fa il Giovannino fatto d’aria e di
sogni che ancora vaga sui resti del lager, sulle macerie del primo
di questi cinque ventenni, nelle stanze scure della prigione che
conobbe a causa dell’esimio signor De Gasperi Alcide. E, pur
ignorato dalla critica, snobbato dalla gente che piace,
accantonato frettolosamente come autore di second’ordine (destino
sempre riservato a quegli scrittori che il pubblico apprezza), ha
ancora molto da insegnarci.
Forse, in questi giorni così confusi, in cui l’uno riforma la
scuola e l’altro grida all’attentato, egli avrebbe puntato
l’indice contro quei genitori che non rincorrono l’idea d’affidare
alla collettività il futuro dei loro figli. Per l’autore di Don
Camillo la famiglia è il luogo privilegiato non solo degli
affetti, ma anche della crescita e dell’educazione. Come osserva
Paolo Gulisano, “La famiglia di Guareschi è fatta di ruoli, di
responsabilità, di amore, di regole che vengono infrante e
riscritte. E’ fatta di litigi, di baruffe, di riconciliazioni, di
musi lunghi, di tenerezze, di solidarietà e soprattutto di
fedeltà”. In una sola parola, si tratta di una famiglia
assolutamente normale: una famiglia che, per parafrasare il santo
Escrivà de Balaguer, non si vergogna della stranezza di non essere
strana. Eppure, è proprio questa piccola comunità che ha retto
sulle spalle millenni di storia del genere umano. Guareschi ne
parla con acume e brio. In primo luogo, egli si erge a difesa
dell’infanzia contro ogni tentativo di sopprimere
quell’indispensabile stadio della crescita di un uomo e di
precipitare il bambino in un’eterna, irresponsabile adolescenza.
Da ciò nasce la sua avversione per gli assurdi programmi di
“educazione sessuale” che, secondo alcuni “progressisti”,
andrebbero somministrati ai fanciulli fin dalla più tenera età.
“Troppa gente si è posta il problema dell’iniziazione sessuale: è
questa l’era dei riformatori e, tra le varie riforme, non poteva
mancare quella sessuale che incomincia con l’eliminazione del
pudore e finisce con la pianificazione del sesso e la formazione
del sesso di Stato”. Ce n’è anche per quegli psicologi che hanno
consacrato la propria vita alla distruzione dei modelli
tradizionali: “ludologia è lo studio e la scienza dei giochi. Il
ludologo è l’esperto che ti sa dire quale giocattolo va bene per
un determinato tipo di bambino […]. Un giocattolo sbagliato può
provocare gravi turbamenti psichici al bambino. E occorrerà anche
qui l’intervento dello Stato che pianifichi e, magari,
nazionalizzi la produzione di giocattoli fino a creare il
Giocattolo di Stato”.
Ma la difesa dell’infanzia è solo il primo passo in un cammino
intellettuale più lungo, che arriva a mettere in questione lo
Stato moderno e la sua “peculiare istituzione”, la scuola
pubblica. Vedendovi, non a torto, una macchina d’indottrinamento
più che di diffusione della conoscenza, e non sottovalutando i
problemi del monopolio statale, lo scrittore mette in evidenza che
l’obbligo scolastico equivale a un rapimento dei bambini e,
soprattutto, contribuisce a svuotare di senso l’istituzione
famigliare. L’analisi di Murray N. Rothbard, forse il maggior
studioso libertario del Novecento, può essere utile a capire
l’obiettivo polemico di Guareschi: “la scuola pubblica [è]
l’incarnazione del presunto diritto di ogni bambino
all’istruzione, e [viene] celebrata come crogiolo della
comprensione e dell’armonia fra uomini di diverse occupazioni e di
diversa estrazione sociale”. Ma, al contrario, essa costituisce
“un grande sistema di prigionia per i giovani” e l’obbligo
racchiude “nella struttura scolastica milioni di ragazzi scontenti
e recalcitranti”. “Se dobbiamo costringere tutta la popolazione di
giovani in grandi prigioni nel nome dell’ “istruzione” – si chiede
lo studioso americano – prigioni nelle quali insegnanti e
amministratori fungono da guardie e custodi, come possiamo non
aspettarci l’infelicità, lo scontento, l’alienazione e la
ribellione da parte dei giovani?”.
Queste riflessioni sono tanto più vere nel nostro paese, dove
l’intervento statale ha sostanzialmente negato il ruolo,
storicamente importantissimo, della Chiesa cattolica
nell’educazione dei giovani. Anzi, v’è stato un periodo (quello
dell’ “Italia liberale” post-unitaria) in cui la più pressante
occupazione dei ministri dell’Istruzione fu chiudere istituti
d’ispirazione religiosa e sbattere i ragazzi nelle strutture
pubbliche. Non bisogna allora stupirsi del fatto che “le scuole
pubbliche sono diventate fogne di crimini, piccoli furti e
tossicodipendenza, e che non vi può essere una genuina istruzione
se è in atto una deviazione delle menti e delle anime dei
bambini”.
Il punto cruciale è, da un lato, l’esproprio di responsabilità da
parte dello Stato e, dall’altro, l’attribuzione d’un valore legale
al titolo di studio. In quest’ultimo caso, si costringono i
giovani a seguire lezioni lunghe, noiose e spesso mal congegnate
con l’unico scopo di ottenere “un inutile diploma attestante
l’inutile corso di studi frequentato con onore”. L’adorazione del
“pezzo di carta”, insomma, s’è imposta solo in virtù d’una legge
che ha creato un bisogno artificiale, non giustificato da
un’autentica domanda esistente sul mercato ma solo dall’esigenza
di rispettare alcune norme farraginose e confusionarie.
La famiglia, garanzia e riserva di libertà
Ancor più importante è notare che il sistema pubblico (composto
dagli istituti, certamente, ma ancor più fondato sull’obbligo
scolastico e l’imposizione di programmi ministeriali) ha dato
luogo alla diffusa percezione che l’educazione dei figli non
rientri più tra i compiti dei genitori perché – quale che sia il
loro atteggiamento in merito – è lo Stato a occuparsene e sta ad
esso stabilire quali valori debbano essere inculcati nelle giovani
menti. L’operazione è riuscita tanto bene che molti, non appena
s’accenni un minimo dissenso, saltano sulla voce esaltando
l’imprescindibile ruolo del governo. Da esso ci s’aspetta che
svolga il ruolo della chioccia che cura ed educa i bambini,
laddove i genitori lascerebbero i figli nell’ignoranza e così
spegnerebbero ogni grammo di speranza per il futuro nei loro
cuori. Al contrario, dice Guareschi, “l’educazione dei bambini è
di competenza dei genitori. Un genitore non può dire: “io lavoro e
non ho tempo per educare i miei figli”, perché pur essendo
oppresso dal lavoro, il tempo per mettere al mondo i figli lo ha
trovato. L’istruzione pubblica è una conquista del progresso, ma
l’educazione dei ragazzi è una faccenda che riguarda non il
progresso, bensì la civiltà e perciò è di carattere privato. Ogni
volta che lo Stato interviene nel campo morale, i genitori
rinunciano a un pezzetto dei loro figli”.
Quello di educare i figli, dunque, non è solo un diritto dei
genitori: è anche un dovere, il cui esercizio è necessario
affinché la società sia composta da individui responsabili e non
docili marmocchi. “La famiglia – ha scritto padre Robert Sirico –
è la chiave per la formazione di una cultura della vita. Ogni
persona umana è data al mondo per mezzo delle braccia amorevoli di
una famiglia. La famiglia salda i nostri rapporti con il resto
della comunità umana e ci ricorda in modo tangibile la nostra
natura sociale”. Proprio in virtù di ciò, allora, è importante
sottolineare quanto sia cruciale che ogni generazione trasmetta a
quella successiva valori positivi – a partire, si capisce, dal
necessario senso critico, senza però trascurare (anzi!)
l’appartenenza a una comunità e a una fede.
Bisogna opporre un deciso rifiuto, insomma, di fronte a ogni
pretesa pedagogica da parte dello Stato: accettando l’intervento
pubblico, una società rinuncia in buona sostanza ad ancorare i
fanciulli a una visione forte della vita, per metterli in balia
dei governi e per ciò stesso di quella divinità volubile e
capricciosa che sono le maggioranze. Permettere che lo Stato
gestisca monopolisticamente l’istruzione comporta anche
l’introduzione di un concetto egualitario, per il quale ognuno
deve ricevere la medesima educazione. Ma questo contraddice ogni
buonsenso: poiché gli individui (e anche i bambini) sono diversi,
essi vanno trattati con strumenti flessibili. L’educazione
autentica, dunque, implica la differenza e la pluralità, non
l’imposizione di modelli uniformi.
Alla base dell’egualitarismo sta un profondo irrealismo: sembra
che i fautori dell’uguaglianza abbiano dimenticato a chi è
destinata l’istruzione. La funzione delle scuole, e la ragione per
cui riteniamo ragionevole e utile mandare i figli a scuola, non è
di educare la “società”, o poter esibire grafici colorati e
statistiche entusiasmanti sul livello medio di alfabetizzazione.
Piuttosto, è desiderio d’ogni persona ragionevole formare
individui sempre più consci della realtà che li circonda e pronti
ad affrontarla, a risolvere i problemi. L’obiettivo della scuola,
dunque, non è diffondere la mediocrità, ma valorizzare
l’eccellenza. Perché ciò non resti parola sulla carta, però,
occorre sviluppare un sistema decentralizzato, privo di regole
fisse e immutabili, capace di stimolare ogni ragazzo sulla base
dei suoi interessi e delle sue aspirazioni. In poche parole:
occorre sottrarre l’educazione al monopolio statale e, per farlo,
è necessario abolire tutte quelle leggi che oggi rendono la scuola
privata poco più di una succursale di quella pubblica, sopprimendo
ogni pluralismo. Le scuole devono smettere di sembrare caserme, e
ritornare a essere scuole.
Lo stesso Guareschi, del resto, non esita a definire “rapimento”
l’obbligo scolastico. Egli rintraccia nella scuola pubblica
un’arma di indottrinamento di cui lo Stato dispone. “Dunque addio
anche a te, Pasionaria: tu esci dalla mia vita ed entri nella vita
dello Stato – scrive in occasione del primo giorno di scuola della
figlioletta Carlotta –. Ti insegneranno l’ipocrisia statale e
anche i tuoi pensieri non saranno più tuoi e vedrai le cose con
gli occhi del Ministero. Adios, Pasionaria. Anche questa volta,
come per Albertino, io dovrò accettare il sopruso, dovrò aggiogare
anche te, con le mie mani, al barbaro, orrendo, smisurato carro
dello Stato. Adios, Pasionaria! Io un tempo, quando sfogliavo le
vecchissime Domeniche del Corriere, leggevo sorridendo la
spiegazione de Le nostre pagine a colori e mi facevano pena le
donnette dei lontani Paesi del Sud che si mettevano in rivoluzione
per impedire che vaccinassero i loro bambini. Ma allora non capivo
un accidente e pensavo alla greve ignoranza, e alle nebbie grasse
della superstizione che inducevano le povere donnette a reputare i
medici governativi emissari di chissà mai quale paurosa centrale
di maleficio. E invece le donnette agivano per istinto e credevano
di difendere le loro creature dal maleficio, mentre le difendevano
dal sopruso dello Stato.
E’ un sopruso necessario ma la lancetta del medico che, per legge,
inocula il vaccino nel braccio di vostro figlio, è una zanna del
gran mostro, lo Stato, che uncina una nuova tenera vittima. Adios,
Pasionaria: io adesso abbandonerò la tua mano tiepida e ti
sacrificherò al dio crudele della gente che non crede in Dio
perché, se vi credesse, potrebbe vivere felice all’ombra delle sue
Eterne Leggi. Adios, Pasionaria: lo Stato fa le strade e fa
camminare le ferrovie e illumina le città, di notte, ma ci toglie
la libertà, e regola i nostri atti e anche i nostri pensieri, e
sempre più ci trasforma in trascurabili ingranaggi di un’orrenda
macchina che consuma sangue e serve solo a macinare aria. E io che
mi indigno se il treno ritarda di cinque minuti, il treno dello
Stato, io ora sono pieno di amarezza perché debbo permettere che
lo Stato mi porti via la mia bambina per insegnarle l’abicì
governativo. Quale tempesta nel tenero cranio di un povero
borghese che cerca di difendere la propria personalità e quella
dei suoi figlioli da quel mostro che egli stesso alimenta
togliendosi il pane di bocca”.
Lo Stato usa la scuola come strumento per legittimare se stesso
agli occhi dei sudditi e indora la pillola con arditi ragionamenti
sul “diritto all’istruzione” – ch’è invero un trucco semantico e
risponde all’esigenza del governo di creare e mantenere il
consenso. Ma, come già aveva rilevato Herbert Spencer, il vero
scopo è quello di “formare buoni cittadini”. “E chi ha l’autorità
per dire quali sono i buoni cittadini? Il governo: non c’è altro
giudice. E chi ha l’autorità per dire come possono essere formati
questi buoni cittadini? Il governo: non c’è altro giudice. Quindi,
questa proposizione è convertibile in quest’altra: il governo
trasforma i fanciulli in buoni cittadini, usando la sua propria
discrezione per decidere che cos’è un buon cittadino, e in che
modo un fanciullo può essere trasformato in un buon cittadino”.
Non v’è nulla di incoraggiante in tutto ciò – semmai, c’è da
restare con un palmo di naso di fronte all’arguzia retorica con
cui i fatti vengono mascherati.
D’altro canto, la scuola nazionalizzata è solo un mezzo: non certo
il fine. L’obiettivo è molto più ambizioso. I mandanti del
terrorismo culturale esercitato negl’istituti scolastici pubblici
sono i partiti politici – che si concepiscono come un fine in sé,
e il cerchio è chiuso. Autentici depositari del potere, essi
rappresentano tutto ciò che fa infuriare Guareschi: sono agenzie
impersonali, sfruttano in maniera spregiudicata le passioni più
nobili della gente e, non di rado, sono il mero involucro di
autentiche centrali del malaffare. Non si può dire che Giovannino
fosse un “qualunquista”; eppure, quella definizione può forse
servire a meglio comprendere il suo atteggiamento. Una forte
critica ai partiti, infatti, si salda in lui a una rivalutazione
della monarchia e del senso comune, nella ferma convinzione che,
al di sopra delle leggi degli uomini, esiste una Legge più grande,
contro cui – per parafrasare Thomas Carlyle – quella emessa dal
Parlamento gareggerebbe invano.
Bisogna in primo luogo osservare che lo scrittore emiliano non
vedeva nella “partitocrazia” una differenza qualitativa rispetto
al comunismo; semmai, una differenza di grado. Seguendo la strada
della promulgazione di leggi ad hoc per ogni problema, secondo
ogni ideologia (cioè attraverso la progressiva sottrazione dei
problemi al dominio dell’azione umana), si arriverà speditamente
al comunismo. La legge si renderà arma dei gruppi d’interesse e di
quegl’individui che sono più spregiudicati e più abili nel
piegarla al proprio volere, e il resto della popolazione si
cullerà nella mera illusione di passare, un giorno, dalla massa
degli sfruttati al gruppo degli sfruttatori.
E’ pure necessario inquadrare l’uomo nel suo tempo. Solo così si
può capire l’animosità usata da Guareschi per contrastare il
totalitarismo ideologico comunista e, ciò che potrebbe stupire,
l’esplicito e importante appoggio dato alla Dc alle elezioni del
’48. Questo, tuttavia, non sposta di una virgola la situazione
reale e il punto di vista dello scrittore: i partiti
costituiscono, secondo lui, tante facce della medesima medaglia, e
il comunismo n’è meramente la manifestazione più pericolosa e
aggressiva. Quando è scoppiata la pace, lo scrittore si è trovato
costretto a scegliere il male minore: che però è e resta un male.
Se insomma il meglio è nemico del bene, non necessariamente
bisogna assecondare il male scegliendo il peggio!
In una lettera ad Angelo Rizzoli a proposito della realizzazione
d’un film sulle avventure di don Camillo, egli sottolinea che “la
tesi dei racconti di Mondo piccolo è di far risaltare la
differenza sostanziale che esiste tra la “massa comunista“ e l’
“apparato comunista”. Indurre cioè l’uomo della massa a ragionare
col suo cervello e con la sua coscienza: fargli cioè capire che le
direttive possono essere seguite soltanto fino a quando esse non
vanno a ledere quelli che sono universalmente conosciuti come sani
e onesti princìpi. Indurre la massa fondamentalmente onesta
(Peppone) a ritirare i cervelli versati all’ammasso del Partito
Comunista. Trasformare cioè l’obbedienza cieca, pronta e assoluta
in obbedienza ragionata. Le mie rubriche a disegni “Il compagno
padre” e “Obbedienza cieca, pronta e assoluta” tengono anch’esse a
raggiungere questa finalità. Esse non sono state fatte per
divertire i borghesi alle spalle dei comunisti, ma per provocare
nei comunisti quella reazione salutare di cui si parlava. Per
dimostrare insomma alla massa comunista che ad essa non si chiede
la restituzione della tessera al Pci e l’iscrizione
all’Associazione delle Figlie di Maria, ma si chiede soltanto un
po’ di ragionamento. Si chiede quindi che essi componenti della
massa, prima di obbedire a un ordine del Partito, obbediscano agli
imperativi della loro coscienza. In definitiva lo scopo di Mondo
piccolo (e delle rubriche) è quello di cavar fuori dalla massa
irragionevole e anonima l’individuo, che – se ha un fondamento
buono, come ha in realtà la gente del nostro popolo – è sempre
ragionevole”. I timori di Guareschi erano fondati. Molti hanno
voluto vedere in don Camillo l’anticipazione del “compromesso
storico”. Semmai è il contrario: don Camillo parla coi comunisti
per convincerli della bestialità delle loro idee. La sua sola
bandiera, che non è né rossa né bianca, sta appesa alla Croce e
s’è sacrificata per il bene degli uomini.
Lo scrittore emiliano concepisce la propria attività come una
sorta di “missione” – un obbligo morale. Non intende svolgere il
facile compito di chi “predica ai convertiti”, ma vuole
avventurarsi in locis infidelium, su un terreno ostile e
apparentemente avverso. Tuttavia, è chiaro che ha grande stima
degli uomini e delle donne “qualunque”, e per mostrare loro le
oscenità che si celano dietro il viso paffuto di Palmiro Togliatti
fa appello alla loro intelligenza non meno che alla propria
ironia. Del resto, tutte le vicende di Mondo Piccolo si giocano
sull’irruenza sanguigna di don Camillo e sulle buone intenzioni di
Peppone; sulla fede ferrea del prete e sull’onestà del sindaco
comunista. La strategia di Guareschi è di tollerare, sempre e
comunque, le persone, mantenendo però un atteggiamento
d’indisponibile intolleranza verso le idee: se con un avversario
si può andare a cena e coltivare un’amicizia intensa, mai e poi
mai è ammissibile scendere a patti col suo pensiero. “Il signor
parroco e il signor sindaco sono disposti a qualunque sortita –
nota Giorgio Torelli – pur di aumentare il punteggio nella contesa
a rate fra parrocchia e partito, fra popolo di Dio e popolo
tesserato, fra aspersorio e falce oppure tra turibolo e martello.
In realtà, sotto sotto, ciascuno dei due, con la più esuberante
dotazione di difetti, di trovate, colpi di mano, pistolotti e
rivalse, svela e rappresenta un modo intimo e personale d’essere
cattolico: il prete perché è prete, e dunque è fuori discussione
come credente e praticante; e il compagno Peppone perché ritiene
drasticamente che la sua voglia di trionfo dei lavoratori sulla
“bieca reazione in agguato” sia di etichetta rigorosamente
marxista (mai letto Marx, povero Bottazzi). In realtà, si rivela
insopprimibile e chiarissima la spinta cristiana della sua stessa
coscienza (lui non lo sa) verso il trionfo – ai punti, se non per
kappaò – del Bene sul Male”.
Il realismo politico contro le ideologie
Insomma: il rispetto reciproco permette ai due di scavalcare
gl’immaginari steccati che li dividono per incontrarsi sul terreno
della concretezza. In fin dei conti, “con tutti i suoi limiti di
uomo – osserva Giovanni Lugaresi – con le malizie e le…
scorrettezze che il grosso parroco della Bassa pone nella lotta
politica contro l’antagonista Peppone, va tuttavia osservato che
alla fedeltà del suo ministero, al suo essere prete, alla
“sostanza” del suo essere prete, egli non viene mai meno. Costi
quel che può costare”. Don Camillo vive il proprio incarico con la
massima serietà: tendendo alla perfezione, nonostante sia uomo, e
quindi imperfetto, come chiunque altro. In politica la malvagità è
una dolorosa necessità perché in politica non si tratta con uomini
ma coi partiti. E i partiti non sono creature del buon Dio”,
chiosa Guareschi. E addirittura, quando don Camillo, amareggiato
dal vecchio Maguggia che non si vuole confessare in punto di morte
per “non dare soddisfazione a un prete”, cerca consolazione, il
Cristo gli risponde: “tutto è possibile quando c’entra la
politica. In guerra l’uomo può perdonare al nemico che poco prima
tentava di ucciderlo e può dividere con lui il suo pane, ma, nella
lotta politica, l’uomo odia il suo avversario, e il figlio può
uccidere il padre e il padre può uccidere il figlio per una
parola”.
Quando Peppone viene eletto senatore avviene in lui un’autentica
metamorfosi, che gli fa assumere un aspetto caricaturale. L’ex
sindaco comunista “ritornava al paesello piuttosto di frequente e
non era più il Peppone d’un tempo, ma un personaggio gonfio di
sussiego fino agli occhi, che viaggiava con una gran borsa piena
di importantissimi documenti e con l’aria preoccupata di chi ha
sulle spalle il peso di enormi responsabilità […]. Indossava abiti
scuri, a doppio petto, portava cappelli da borghese d’alto rango e
non si mostrava mai senza cravatta”. Il cambiamento, però, non è
solo esteriore; l’uomo conduce anche una vita triste, è costretto
ad attenersi a un protocollo stretto quanto assurdo, deve
conformarsi alla rigida etichetta del partito, non gode più del
sacro diritto a pensare con la propria testa ma deve ripetere
pappagallescamente ciò che i “gerarchi rossi” gli comandano. E,
sebbene tenti in ogni modo di non ammettere la propria misera
condizione di fronte a se stesso, gli capita continuamente
d’incocciare in un tizio che lo guarda con malcelato disprezzo: è
“il Peppone sbracalato e felice del passato che, all’inizio d’ogni
giornata, veniva a cantare al Peppone ben vestito e infelice del
presente, la canzone tentatrice: “Torna al tuo paesello ch’è tanto
bello…””.
“La politica – scriverà l’autore di Don Camillo dal carcere, dove
era rinchiuso a causa della polemica con il leader democristiano
Alcide De Gasperi – mi fa sempre più nausea e leggo i giornali con
crescente disgusto. E ogni giorno di più mi accorgo come sia vana,
inutile cosa lottare da galantuomini contro la canaglia
organizzata. Siccome la democrazia mi toglie il diritto di votare,
io non ho più il dovere di occuparmi di politica. L’anticomunismo
perde un buon soldato? Non lo acquista né lo acquisterà mai il
comunismo. Il comunismo avanza? Non sarò io che lo potrò fermare!
E poi: la “libertà” che mi darebbe il comunismo è forse peggiore
di questa che mi ha dato la democrazia? Le galere sono tutte
uguali perché esse tolgono all’uomo la stessa cosa: la libertà.
Alla fine, morire di sete stando seduti su uno sgabello
democratico o stando seduti su una letamaia totalitaria è la
identica cosa”.
Ma neppure questo rende bene l’idea della profondità del disprezzo
che Guareschi nutre per chi crede nella politica. Egli, infatti,
non si limita a condannare i singoli uomini di Stato o le loro
idee; piuttosto, si rende conto che il marcio sta nel sistema
stesso, che non è in alcun modo recuperabile o redimibile. Quando
il consiglio comunale deve discutere la richiesta della signora
Cristina (che, prima di morire, aveva espresso il desiderio
d’essere sepolta con la bandiera monarchica), gli esponenti dei
diversi partiti (dagli azionisti ai liberali, dai democristiani ai
repubblicani) si oppongono con argomentazioni più o meno
sofistiche – quelle tipiche dell’armamentario dialettico di
quanti, imbevuti d’ideologia, hanno perso ogni traccia della
propria umanità. Ma ecco che Peppone prende la situazione in
pugno: “In qualità di sindaco vi ringrazio per la vostra
collaborazione, e come sindaco approvo il vostro parere di evitare
la bandiera richiesta dalla defunta. Però, siccome in questo paese
non comanda il sindaco ma comandano i comunisti, come capo dei
comunisti vi dico che me ne infischio del vostro parere, e domani
la signora Cristina andrà al cimitero con la bandiera che vuole
lei perché io rispetto più lei morta che voi tutti vivi, e se
qualcuno ha qualcosa da obiettare lo faccio volare giù dalla
finestra!”.
Il rude meccanico salva la situazione e, per dirla con Mario
Palmaro, “con un irresistibile colpo di teatro ristabilisce il
giusto ordine”. Con la consueta semplicità e tenerezza Guareschi
mostra che certi valori, certe verità, non sono soggetti a
votazioni: come lo sguardo docile di don Camillo sanziona e
santifica l’eccezionale decisione di Peppone, così il rispetto per
i morti e per le loro ultime volontà travalica e sconfigge la
legalità formale. Scavando ancora più a fondo nella realtà delle
nostre istituzioni politiche, e puntando dritto al cuore del
problema, don Camillo pone al Cristo e, per suo mezzo, a tutti noi
l’annosa questione: possono i mezzi essere subordinati ai fini?
Può un fine “buono” giustificare l’uso di mezzi “malvagi”? Oppure
è vero il contrario – i mezzi sono il fine, e un obiettivo buono
richiede mezzi giusti? Esiste il male a fin di bene? “No. –
risponde deciso Gesù – Dal male può scaturire il bene, ma tu non
puoi usare coscientemente il male per ottenere il bene. Perché tu
devi agire sempre secondo le leggi di Dio e le leggi di Dio ti
vietano di compiere il male”. Il prete fa notare che “la stricnina
è un veleno terribile, ma il farmacista dosandola giustamente può
trarne una salutare medicina”. Ed ecco la fulminante, e
conclusiva, risposta: “la morale cristiana non è stata fatta in
farmacia”. Né, tanto meno, in Parlamento: l’uomo retto deve
obbedire alla propria coscienza prima che alle leggi e, semmai,
negare la propria fedeltà a queste ultime nel caso impongano
comportamenti non in linea con l’insegnamento delle Sacre
Scritture.
In fin dei conti, la stessa storia della Chiesa cattolica, cui lo
scrittore apparteneva fieramente, si colloca largamente al di
fuori dello Stato, se non contro di esso, come mostrano
chiaramente le vicende dei santi martiri. Anzi, “qualsiasi forma
di coercizione dell’uomo sull’uomo – sostiene Guglielmo Piombini –
è in contrasto con l’insegnamento evangelico, e anche l’aiuto ai
più bisognosi, così enfatizzato dai cristiani, soggiace a questa
regola, perché mai il Messia ha auspicato forme di assistenza che,
invece di sgorgare dallo spontaneo sentimento di carità delle
persone, si fondassero sull’uso della forza legale o
extra-legale”. In epoca moderna lo scontro si è spostato dal piano
fisico a quello, per così dire, dottrinario; eppure non è meno
violento o importante: “Questi due dati centrali della fede
cristiana – la vita eterna e il giudizio – sono oggi cancellati
dalla cultura dominante o, meglio sarebbe dire, dal “potere””,
sottolinea Michele Brambilla24. Né manca, nella tradizione
cristiana, l’incitamento a opporsi alle leggi, quando esse ledano
princìpi fondamentali. Per usare le parole di Thomas Eliot, “è ora
di abbandonare l’opinione che il cristiano debba considerarsi
soddisfatto solo perché gode della libertà di culto e non è
soggetto ad alcuna discriminazione a causa della sua fede. Per
quanto settario io possa sembrare, dirò che non vi è null’altro
che possa soddisfare il cristiano se non una organizzazione
cristiana della società”. In fondo, l’opera narrativa di Guareschi
mira a far emergere i contrasti, la conflittualità fra doveri
“legali” (l’obbedienza allo Stato o al partito) e la voce della
coscienza.
Naturalmente, non bisogna credere che il mite Giovannino fosse
fautore di progetti rivoluzionari o utopie distruttive. Anzi, era
un autentico combattente nel segno di quella tradizione che aveva
reso grande l’Europa e che si riassume nel simbolo della Croce.
“L’ortodossia di Guareschi – nota il cardinale Biffi – è
ineccepibile […]. E’ il cattolicesimo che egli attinge con
naturalezza dalla storia e dalla cultura antica del nostro popolo,
dal quale è sempre stato ben attento a non estraniarsi”. Egli
pertanto rifiuta ogni vittimismo, non si piega – come molti
contemporanei, che quasi si vergognano del proprio credo – a
chiedere scusa per i presunti errori della Chiesa. Di conseguenza,
guarda allo Stato con sospetto, come colui che – costretto,
ovviamente, a farvi i conti – lo tollera ma non gli accorda la
propria fiducia, men che meno il proprio cuore. Per dirla con
Vittorio Messori: “Rispetto i carabinieri, perché so di averne
bisogno; ma non mi si chieda di amarli! Penso che il moloch
statuale sia la Bestia dell’Apocalisse. In una prospettiva di
fede, lo Stato nato dalla fine dell’ancien régime mi fa orrore”.
Alla coercizione dello Stato, infatti, Giovannino contrappone la
forza della fede e la libertà dei figli di Dio.
Un lamento disperato contro la deriva burocratica
Estremamente toccante è, a questo proposito, il suo lamento
disperato contro quei burocrati che avevano impiegato mesi a
recapitare un diploma di benemerenza a sua madre, la “vecchia
maestra” (il vero “modello” per la signora Cristina di Mondo
piccolo). Purtroppo, quel documento arrivò troppo tardi. La donna
era già morta. “Io ho bisogno di vedermi davanti agli occhi quella
data – scrive l’uomo coi baffi rivolgendosi alla vecchia ormai
passata a miglior vita – vederla ogni giorno perché il mio cuore è
pieno di veleno e ho bisogno di odiare i piccoli ignoti uomini e
la ignavia statale che ti privarono della gioia che forse avrebbe
dato al tuo cuore stanco la forza di battere un giorno, un’ora o
un minuto di più. Non ti agitare nella tomba, non turbare il tuo
eterno gelo: lo so, signora maestra: per te tutto quel che è
statale è sacro e intoccabile, e quel che io ti dico è una orrenda
bestemmia, per te. Ma io non parlo per te sola: io trasudo veleno
per me e per tutti coloro cui la triste ignavia statale, cui la
sordida indifferenza burocratica avvelenano gli ultimi giorni di
una faticatissima vita spesa nell’onesto lavoro a beneficio della
comunità. Anche voi, mezze maniche ministeriali che impiegate mesi
per far arrivare un diploma di benemerenza da Roma a Milano, un
giorno vi troverete vecchi e miserabili e lo Stato vi caccerà via
a pedate: allora comprenderete il valore di un foglio come quello
che m’è arrivato oggi. Allora forse il mio odio non vi inseguirà
più. Ma fino a quel giorno io vi odierò tenacemente. Anche se
avete rubato un solo secondo della vita di mia madre; anche se,
semplicemente, le avete tolto un sorriso. Sono uno solo, ma il mio
odio è immenso come l’amore che ho per mia madre. Scaldatevi pure
al sole di Roma non curandovi dell’omuncolo che trasuda veleno tra
le nebbie del Nord: un giorno il sole di Roma non riuscirà più a
scaldare le vostre ossa ormai vecchie e scassate e allora anche
l’odio dell’omuncolo vi peserà sulle spalle come un sacco di
sabbia. Vi pagano poco? Anche mia madre era pagata poco e non si
stancava mai di lavorare. Stai tranquilla, signora maestra: non ti
preoccupare per me: non mi possono fare niente. Il mio odio è più
forte di tutti i ministri messi assieme. Piuttosto, se puoi,
rispondimi, nel sogno. Ma, per carità, non venire per spiegarmi
che è indegno di un animo nobile quello che ho detto. Il mio odio
non cerca forme di vendetta, ma è e sempre sarà soltanto un
pensiero racchiuso nel mio cervello. Non venirmi a insegnare che
debbo amare il prossimo mio come me stesso: me l’hai già insegnato
e lo so. Io amo me stesso soltanto quando so di aver fatto ciò
che, alla luce dei tuoi insegnamenti e del tuo esempio, ritengo
sia il mio dovere. Quando so di non averlo fatto mi detesto”.
6 giugno 2003
(da Ideazione 3-2003, maggio-giugno)
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