Guareschi, il libertario della Bassa
di Carlo Stagnaro

Un sacco di patate con i baffi può essere un banale sacco di patate con i baffi, oppure Giovannino Guareschi. Che, morto di crepacuore nel ’68, invero sopravvive. Lo fa attraverso le parole che ha scolpito nei suoi racconti, le risate che ci ha strappato con le memorabili gesta della Pasionaria e di Albertino, i pensieri che ci ha sussurrato all’orecchio. Lo fa anche se non è più qui in carne e ossa: lo fa il Giovannino fatto d’aria e di sogni che ancora vaga sui resti del lager, sulle macerie del primo di questi cinque ventenni, nelle stanze scure della prigione che conobbe a causa dell’esimio signor De Gasperi Alcide. E, pur ignorato dalla critica, snobbato dalla gente che piace, accantonato frettolosamente come autore di second’ordine (destino sempre riservato a quegli scrittori che il pubblico apprezza), ha ancora molto da insegnarci.

Forse, in questi giorni così confusi, in cui l’uno riforma la scuola e l’altro grida all’attentato, egli avrebbe puntato l’indice contro quei genitori che non rincorrono l’idea d’affidare alla collettività il futuro dei loro figli. Per l’autore di Don Camillo la famiglia è il luogo privilegiato non solo degli affetti, ma anche della crescita e dell’educazione. Come osserva Paolo Gulisano, “La famiglia di Guareschi è fatta di ruoli, di responsabilità, di amore, di regole che vengono infrante e riscritte. E’ fatta di litigi, di baruffe, di riconciliazioni, di musi lunghi, di tenerezze, di solidarietà e soprattutto di fedeltà”. In una sola parola, si tratta di una famiglia assolutamente normale: una famiglia che, per parafrasare il santo Escrivà de Balaguer, non si vergogna della stranezza di non essere strana. Eppure, è proprio questa piccola comunità che ha retto sulle spalle millenni di storia del genere umano. Guareschi ne parla con acume e brio. In primo luogo, egli si erge a difesa dell’infanzia contro ogni tentativo di sopprimere quell’indispensabile stadio della crescita di un uomo e di precipitare il bambino in un’eterna, irresponsabile adolescenza.

Da ciò nasce la sua avversione per gli assurdi programmi di “educazione sessuale” che, secondo alcuni “progressisti”, andrebbero somministrati ai fanciulli fin dalla più tenera età. “Troppa gente si è posta il problema dell’iniziazione sessuale: è questa l’era dei riformatori e, tra le varie riforme, non poteva mancare quella sessuale che incomincia con l’eliminazione del pudore e finisce con la pianificazione del sesso e la formazione del sesso di Stato”. Ce n’è anche per quegli psicologi che hanno consacrato la propria vita alla distruzione dei modelli tradizionali: “ludologia è lo studio e la scienza dei giochi. Il ludologo è l’esperto che ti sa dire quale giocattolo va bene per un determinato tipo di bambino […]. Un giocattolo sbagliato può provocare gravi turbamenti psichici al bambino. E occorrerà anche qui l’intervento dello Stato che pianifichi e, magari, nazionalizzi la produzione di giocattoli fino a creare il Giocattolo di Stato”.

Ma la difesa dell’infanzia è solo il primo passo in un cammino intellettuale più lungo, che arriva a mettere in questione lo Stato moderno e la sua “peculiare istituzione”, la scuola pubblica. Vedendovi, non a torto, una macchina d’indottrinamento più che di diffusione della conoscenza, e non sottovalutando i problemi del monopolio statale, lo scrittore mette in evidenza che l’obbligo scolastico equivale a un rapimento dei bambini e, soprattutto, contribuisce a svuotare di senso l’istituzione famigliare. L’analisi di Murray N. Rothbard, forse il maggior studioso libertario del Novecento, può essere utile a capire l’obiettivo polemico di Guareschi: “la scuola pubblica [è] l’incarnazione del presunto diritto di ogni bambino all’istruzione, e [viene] celebrata come crogiolo della comprensione e dell’armonia fra uomini di diverse occupazioni e di diversa estrazione sociale”. Ma, al contrario, essa costituisce “un grande sistema di prigionia per i giovani” e l’obbligo racchiude “nella struttura scolastica milioni di ragazzi scontenti e recalcitranti”. “Se dobbiamo costringere tutta la popolazione di giovani in grandi prigioni nel nome dell’ “istruzione” – si chiede lo studioso americano – prigioni nelle quali insegnanti e amministratori fungono da guardie e custodi, come possiamo non aspettarci l’infelicità, lo scontento, l’alienazione e la ribellione da parte dei giovani?”.

Queste riflessioni sono tanto più vere nel nostro paese, dove l’intervento statale ha sostanzialmente negato il ruolo, storicamente importantissimo, della Chiesa cattolica nell’educazione dei giovani. Anzi, v’è stato un periodo (quello dell’ “Italia liberale” post-unitaria) in cui la più pressante occupazione dei ministri dell’Istruzione fu chiudere istituti d’ispirazione religiosa e sbattere i ragazzi nelle strutture pubbliche. Non bisogna allora stupirsi del fatto che “le scuole pubbliche sono diventate fogne di crimini, piccoli furti e tossicodipendenza, e che non vi può essere una genuina istruzione se è in atto una deviazione delle menti e delle anime dei bambini”.

Il punto cruciale è, da un lato, l’esproprio di responsabilità da parte dello Stato e, dall’altro, l’attribuzione d’un valore legale al titolo di studio. In quest’ultimo caso, si costringono i giovani a seguire lezioni lunghe, noiose e spesso mal congegnate con l’unico scopo di ottenere “un inutile diploma attestante l’inutile corso di studi frequentato con onore”. L’adorazione del “pezzo di carta”, insomma, s’è imposta solo in virtù d’una legge che ha creato un bisogno artificiale, non giustificato da un’autentica domanda esistente sul mercato ma solo dall’esigenza di rispettare alcune norme farraginose e confusionarie.

La famiglia, garanzia e riserva di libertà

Ancor più importante è notare che il sistema pubblico (composto dagli istituti, certamente, ma ancor più fondato sull’obbligo scolastico e l’imposizione di programmi ministeriali) ha dato luogo alla diffusa percezione che l’educazione dei figli non rientri più tra i compiti dei genitori perché – quale che sia il loro atteggiamento in merito – è lo Stato a occuparsene e sta ad esso stabilire quali valori debbano essere inculcati nelle giovani menti. L’operazione è riuscita tanto bene che molti, non appena s’accenni un minimo dissenso, saltano sulla voce esaltando l’imprescindibile ruolo del governo. Da esso ci s’aspetta che svolga il ruolo della chioccia che cura ed educa i bambini, laddove i genitori lascerebbero i figli nell’ignoranza e così spegnerebbero ogni grammo di speranza per il futuro nei loro cuori. Al contrario, dice Guareschi, “l’educazione dei bambini è di competenza dei genitori. Un genitore non può dire: “io lavoro e non ho tempo per educare i miei figli”, perché pur essendo oppresso dal lavoro, il tempo per mettere al mondo i figli lo ha trovato. L’istruzione pubblica è una conquista del progresso, ma l’educazione dei ragazzi è una faccenda che riguarda non il progresso, bensì la civiltà e perciò è di carattere privato. Ogni volta che lo Stato interviene nel campo morale, i genitori rinunciano a un pezzetto dei loro figli”.

Quello di educare i figli, dunque, non è solo un diritto dei genitori: è anche un dovere, il cui esercizio è necessario affinché la società sia composta da individui responsabili e non docili marmocchi. “La famiglia – ha scritto padre Robert Sirico – è la chiave per la formazione di una cultura della vita. Ogni persona umana è data al mondo per mezzo delle braccia amorevoli di una famiglia. La famiglia salda i nostri rapporti con il resto della comunità umana e ci ricorda in modo tangibile la nostra natura sociale”. Proprio in virtù di ciò, allora, è importante sottolineare quanto sia cruciale che ogni generazione trasmetta a quella successiva valori positivi – a partire, si capisce, dal necessario senso critico, senza però trascurare (anzi!) l’appartenenza a una comunità e a una fede.

Bisogna opporre un deciso rifiuto, insomma, di fronte a ogni pretesa pedagogica da parte dello Stato: accettando l’intervento pubblico, una società rinuncia in buona sostanza ad ancorare i fanciulli a una visione forte della vita, per metterli in balia dei governi e per ciò stesso di quella divinità volubile e capricciosa che sono le maggioranze. Permettere che lo Stato gestisca monopolisticamente l’istruzione comporta anche l’introduzione di un concetto egualitario, per il quale ognuno deve ricevere la medesima educazione. Ma questo contraddice ogni buonsenso: poiché gli individui (e anche i bambini) sono diversi, essi vanno trattati con strumenti flessibili. L’educazione autentica, dunque, implica la differenza e la pluralità, non l’imposizione di modelli uniformi.

Alla base dell’egualitarismo sta un profondo irrealismo: sembra che i fautori dell’uguaglianza abbiano dimenticato a chi è destinata l’istruzione. La funzione delle scuole, e la ragione per cui riteniamo ragionevole e utile mandare i figli a scuola, non è di educare la “società”, o poter esibire grafici colorati e statistiche entusiasmanti sul livello medio di alfabetizzazione. Piuttosto, è desiderio d’ogni persona ragionevole formare individui sempre più consci della realtà che li circonda e pronti ad affrontarla, a risolvere i problemi. L’obiettivo della scuola, dunque, non è diffondere la mediocrità, ma valorizzare l’eccellenza. Perché ciò non resti parola sulla carta, però, occorre sviluppare un sistema decentralizzato, privo di regole fisse e immutabili, capace di stimolare ogni ragazzo sulla base dei suoi interessi e delle sue aspirazioni. In poche parole: occorre sottrarre l’educazione al monopolio statale e, per farlo, è necessario abolire tutte quelle leggi che oggi rendono la scuola privata poco più di una succursale di quella pubblica, sopprimendo ogni pluralismo. Le scuole devono smettere di sembrare caserme, e ritornare a essere scuole.

Lo stesso Guareschi, del resto, non esita a definire “rapimento” l’obbligo scolastico. Egli rintraccia nella scuola pubblica un’arma di indottrinamento di cui lo Stato dispone. “Dunque addio anche a te, Pasionaria: tu esci dalla mia vita ed entri nella vita dello Stato – scrive in occasione del primo giorno di scuola della figlioletta Carlotta –. Ti insegneranno l’ipocrisia statale e anche i tuoi pensieri non saranno più tuoi e vedrai le cose con gli occhi del Ministero. Adios, Pasionaria. Anche questa volta, come per Albertino, io dovrò accettare il sopruso, dovrò aggiogare anche te, con le mie mani, al barbaro, orrendo, smisurato carro dello Stato. Adios, Pasionaria! Io un tempo, quando sfogliavo le vecchissime Domeniche del Corriere, leggevo sorridendo la spiegazione de Le nostre pagine a colori e mi facevano pena le donnette dei lontani Paesi del Sud che si mettevano in rivoluzione per impedire che vaccinassero i loro bambini. Ma allora non capivo un accidente e pensavo alla greve ignoranza, e alle nebbie grasse della superstizione che inducevano le povere donnette a reputare i medici governativi emissari di chissà mai quale paurosa centrale di maleficio. E invece le donnette agivano per istinto e credevano di difendere le loro creature dal maleficio, mentre le difendevano dal sopruso dello Stato.

E’ un sopruso necessario ma la lancetta del medico che, per legge, inocula il vaccino nel braccio di vostro figlio, è una zanna del gran mostro, lo Stato, che uncina una nuova tenera vittima. Adios, Pasionaria: io adesso abbandonerò la tua mano tiepida e ti sacrificherò al dio crudele della gente che non crede in Dio perché, se vi credesse, potrebbe vivere felice all’ombra delle sue Eterne Leggi. Adios, Pasionaria: lo Stato fa le strade e fa camminare le ferrovie e illumina le città, di notte, ma ci toglie la libertà, e regola i nostri atti e anche i nostri pensieri, e sempre più ci trasforma in trascurabili ingranaggi di un’orrenda macchina che consuma sangue e serve solo a macinare aria. E io che mi indigno se il treno ritarda di cinque minuti, il treno dello Stato, io ora sono pieno di amarezza perché debbo permettere che lo Stato mi porti via la mia bambina per insegnarle l’abicì governativo. Quale tempesta nel tenero cranio di un povero borghese che cerca di difendere la propria personalità e quella dei suoi figlioli da quel mostro che egli stesso alimenta togliendosi il pane di bocca”.

Lo Stato usa la scuola come strumento per legittimare se stesso agli occhi dei sudditi e indora la pillola con arditi ragionamenti sul “diritto all’istruzione” – ch’è invero un trucco semantico e risponde all’esigenza del governo di creare e mantenere il consenso. Ma, come già aveva rilevato Herbert Spencer, il vero scopo è quello di “formare buoni cittadini”. “E chi ha l’autorità per dire quali sono i buoni cittadini? Il governo: non c’è altro giudice. E chi ha l’autorità per dire come possono essere formati questi buoni cittadini? Il governo: non c’è altro giudice. Quindi, questa proposizione è convertibile in quest’altra: il governo trasforma i fanciulli in buoni cittadini, usando la sua propria discrezione per decidere che cos’è un buon cittadino, e in che modo un fanciullo può essere trasformato in un buon cittadino”. Non v’è nulla di incoraggiante in tutto ciò – semmai, c’è da restare con un palmo di naso di fronte all’arguzia retorica con cui i fatti vengono mascherati.

D’altro canto, la scuola nazionalizzata è solo un mezzo: non certo il fine. L’obiettivo è molto più ambizioso. I mandanti del terrorismo culturale esercitato negl’istituti scolastici pubblici sono i partiti politici – che si concepiscono come un fine in sé, e il cerchio è chiuso. Autentici depositari del potere, essi rappresentano tutto ciò che fa infuriare Guareschi: sono agenzie impersonali, sfruttano in maniera spregiudicata le passioni più nobili della gente e, non di rado, sono il mero involucro di autentiche centrali del malaffare. Non si può dire che Giovannino fosse un “qualunquista”; eppure, quella definizione può forse servire a meglio comprendere il suo atteggiamento. Una forte critica ai partiti, infatti, si salda in lui a una rivalutazione della monarchia e del senso comune, nella ferma convinzione che, al di sopra delle leggi degli uomini, esiste una Legge più grande, contro cui – per parafrasare Thomas Carlyle – quella emessa dal Parlamento gareggerebbe invano.

Bisogna in primo luogo osservare che lo scrittore emiliano non vedeva nella “partitocrazia” una differenza qualitativa rispetto al comunismo; semmai, una differenza di grado. Seguendo la strada della promulgazione di leggi ad hoc per ogni problema, secondo ogni ideologia (cioè attraverso la progressiva sottrazione dei problemi al dominio dell’azione umana), si arriverà speditamente al comunismo. La legge si renderà arma dei gruppi d’interesse e di quegl’individui che sono più spregiudicati e più abili nel piegarla al proprio volere, e il resto della popolazione si cullerà nella mera illusione di passare, un giorno, dalla massa degli sfruttati al gruppo degli sfruttatori.

E’ pure necessario inquadrare l’uomo nel suo tempo. Solo così si può capire l’animosità usata da Guareschi per contrastare il totalitarismo ideologico comunista e, ciò che potrebbe stupire, l’esplicito e importante appoggio dato alla Dc alle elezioni del ’48. Questo, tuttavia, non sposta di una virgola la situazione reale e il punto di vista dello scrittore: i partiti costituiscono, secondo lui, tante facce della medesima medaglia, e il comunismo n’è meramente la manifestazione più pericolosa e aggressiva. Quando è scoppiata la pace, lo scrittore si è trovato costretto a scegliere il male minore: che però è e resta un male. Se insomma il meglio è nemico del bene, non necessariamente bisogna assecondare il male scegliendo il peggio!

In una lettera ad Angelo Rizzoli a proposito della realizzazione d’un film sulle avventure di don Camillo, egli sottolinea che “la tesi dei racconti di Mondo piccolo è di far risaltare la differenza sostanziale che esiste tra la “massa comunista“ e l’ “apparato comunista”. Indurre cioè l’uomo della massa a ragionare col suo cervello e con la sua coscienza: fargli cioè capire che le direttive possono essere seguite soltanto fino a quando esse non vanno a ledere quelli che sono universalmente conosciuti come sani e onesti princìpi. Indurre la massa fondamentalmente onesta (Peppone) a ritirare i cervelli versati all’ammasso del Partito Comunista. Trasformare cioè l’obbedienza cieca, pronta e assoluta in obbedienza ragionata. Le mie rubriche a disegni “Il compagno padre” e “Obbedienza cieca, pronta e assoluta” tengono anch’esse a raggiungere questa finalità. Esse non sono state fatte per divertire i borghesi alle spalle dei comunisti, ma per provocare nei comunisti quella reazione salutare di cui si parlava. Per dimostrare insomma alla massa comunista che ad essa non si chiede la restituzione della tessera al Pci e l’iscrizione all’Associazione delle Figlie di Maria, ma si chiede soltanto un po’ di ragionamento. Si chiede quindi che essi componenti della massa, prima di obbedire a un ordine del Partito, obbediscano agli imperativi della loro coscienza. In definitiva lo scopo di Mondo piccolo (e delle rubriche) è quello di cavar fuori dalla massa irragionevole e anonima l’individuo, che – se ha un fondamento buono, come ha in realtà la gente del nostro popolo – è sempre ragionevole”. I timori di Guareschi erano fondati. Molti hanno voluto vedere in don Camillo l’anticipazione del “compromesso storico”. Semmai è il contrario: don Camillo parla coi comunisti per convincerli della bestialità delle loro idee. La sua sola bandiera, che non è né rossa né bianca, sta appesa alla Croce e s’è sacrificata per il bene degli uomini.

Lo scrittore emiliano concepisce la propria attività come una sorta di “missione” – un obbligo morale. Non intende svolgere il facile compito di chi “predica ai convertiti”, ma vuole avventurarsi in locis infidelium, su un terreno ostile e apparentemente avverso. Tuttavia, è chiaro che ha grande stima degli uomini e delle donne “qualunque”, e per mostrare loro le oscenità che si celano dietro il viso paffuto di Palmiro Togliatti fa appello alla loro intelligenza non meno che alla propria ironia. Del resto, tutte le vicende di Mondo Piccolo si giocano sull’irruenza sanguigna di don Camillo e sulle buone intenzioni di Peppone; sulla fede ferrea del prete e sull’onestà del sindaco comunista. La strategia di Guareschi è di tollerare, sempre e comunque, le persone, mantenendo però un atteggiamento d’indisponibile intolleranza verso le idee: se con un avversario si può andare a cena e coltivare un’amicizia intensa, mai e poi mai è ammissibile scendere a patti col suo pensiero. “Il signor parroco e il signor sindaco sono disposti a qualunque sortita – nota Giorgio Torelli – pur di aumentare il punteggio nella contesa a rate fra parrocchia e partito, fra popolo di Dio e popolo tesserato, fra aspersorio e falce oppure tra turibolo e martello. In realtà, sotto sotto, ciascuno dei due, con la più esuberante dotazione di difetti, di trovate, colpi di mano, pistolotti e rivalse, svela e rappresenta un modo intimo e personale d’essere cattolico: il prete perché è prete, e dunque è fuori discussione come credente e praticante; e il compagno Peppone perché ritiene drasticamente che la sua voglia di trionfo dei lavoratori sulla “bieca reazione in agguato” sia di etichetta rigorosamente marxista (mai letto Marx, povero Bottazzi). In realtà, si rivela insopprimibile e chiarissima la spinta cristiana della sua stessa coscienza (lui non lo sa) verso il trionfo – ai punti, se non per kappaò – del Bene sul Male”.

Il realismo politico contro le ideologie

Insomma: il rispetto reciproco permette ai due di scavalcare gl’immaginari steccati che li dividono per incontrarsi sul terreno della concretezza. In fin dei conti, “con tutti i suoi limiti di uomo – osserva Giovanni Lugaresi – con le malizie e le… scorrettezze che il grosso parroco della Bassa pone nella lotta politica contro l’antagonista Peppone, va tuttavia osservato che alla fedeltà del suo ministero, al suo essere prete, alla “sostanza” del suo essere prete, egli non viene mai meno. Costi quel che può costare”. Don Camillo vive il proprio incarico con la massima serietà: tendendo alla perfezione, nonostante sia uomo, e quindi imperfetto, come chiunque altro. In politica la malvagità è una dolorosa necessità perché in politica non si tratta con uomini ma coi partiti. E i partiti non sono creature del buon Dio”, chiosa Guareschi. E addirittura, quando don Camillo, amareggiato dal vecchio Maguggia che non si vuole confessare in punto di morte per “non dare soddisfazione a un prete”, cerca consolazione, il Cristo gli risponde: “tutto è possibile quando c’entra la politica. In guerra l’uomo può perdonare al nemico che poco prima tentava di ucciderlo e può dividere con lui il suo pane, ma, nella lotta politica, l’uomo odia il suo avversario, e il figlio può uccidere il padre e il padre può uccidere il figlio per una parola”.

Quando Peppone viene eletto senatore avviene in lui un’autentica metamorfosi, che gli fa assumere un aspetto caricaturale. L’ex sindaco comunista “ritornava al paesello piuttosto di frequente e non era più il Peppone d’un tempo, ma un personaggio gonfio di sussiego fino agli occhi, che viaggiava con una gran borsa piena di importantissimi documenti e con l’aria preoccupata di chi ha sulle spalle il peso di enormi responsabilità […]. Indossava abiti scuri, a doppio petto, portava cappelli da borghese d’alto rango e non si mostrava mai senza cravatta”. Il cambiamento, però, non è solo esteriore; l’uomo conduce anche una vita triste, è costretto ad attenersi a un protocollo stretto quanto assurdo, deve conformarsi alla rigida etichetta del partito, non gode più del sacro diritto a pensare con la propria testa ma deve ripetere pappagallescamente ciò che i “gerarchi rossi” gli comandano. E, sebbene tenti in ogni modo di non ammettere la propria misera condizione di fronte a se stesso, gli capita continuamente d’incocciare in un tizio che lo guarda con malcelato disprezzo: è “il Peppone sbracalato e felice del passato che, all’inizio d’ogni giornata, veniva a cantare al Peppone ben vestito e infelice del presente, la canzone tentatrice: “Torna al tuo paesello ch’è tanto bello…””.

“La politica – scriverà l’autore di Don Camillo dal carcere, dove era rinchiuso a causa della polemica con il leader democristiano Alcide De Gasperi – mi fa sempre più nausea e leggo i giornali con crescente disgusto. E ogni giorno di più mi accorgo come sia vana, inutile cosa lottare da galantuomini contro la canaglia organizzata. Siccome la democrazia mi toglie il diritto di votare, io non ho più il dovere di occuparmi di politica. L’anticomunismo perde un buon soldato? Non lo acquista né lo acquisterà mai il comunismo. Il comunismo avanza? Non sarò io che lo potrò fermare! E poi: la “libertà” che mi darebbe il comunismo è forse peggiore di questa che mi ha dato la democrazia? Le galere sono tutte uguali perché esse tolgono all’uomo la stessa cosa: la libertà. Alla fine, morire di sete stando seduti su uno sgabello democratico o stando seduti su una letamaia totalitaria è la identica cosa”.

Ma neppure questo rende bene l’idea della profondità del disprezzo che Guareschi nutre per chi crede nella politica. Egli, infatti, non si limita a condannare i singoli uomini di Stato o le loro idee; piuttosto, si rende conto che il marcio sta nel sistema stesso, che non è in alcun modo recuperabile o redimibile. Quando il consiglio comunale deve discutere la richiesta della signora Cristina (che, prima di morire, aveva espresso il desiderio d’essere sepolta con la bandiera monarchica), gli esponenti dei diversi partiti (dagli azionisti ai liberali, dai democristiani ai repubblicani) si oppongono con argomentazioni più o meno sofistiche – quelle tipiche dell’armamentario dialettico di quanti, imbevuti d’ideologia, hanno perso ogni traccia della propria umanità. Ma ecco che Peppone prende la situazione in pugno: “In qualità di sindaco vi ringrazio per la vostra collaborazione, e come sindaco approvo il vostro parere di evitare la bandiera richiesta dalla defunta. Però, siccome in questo paese non comanda il sindaco ma comandano i comunisti, come capo dei comunisti vi dico che me ne infischio del vostro parere, e domani la signora Cristina andrà al cimitero con la bandiera che vuole lei perché io rispetto più lei morta che voi tutti vivi, e se qualcuno ha qualcosa da obiettare lo faccio volare giù dalla finestra!”.

Il rude meccanico salva la situazione e, per dirla con Mario Palmaro, “con un irresistibile colpo di teatro ristabilisce il giusto ordine”. Con la consueta semplicità e tenerezza Guareschi mostra che certi valori, certe verità, non sono soggetti a votazioni: come lo sguardo docile di don Camillo sanziona e santifica l’eccezionale decisione di Peppone, così il rispetto per i morti e per le loro ultime volontà travalica e sconfigge la legalità formale. Scavando ancora più a fondo nella realtà delle nostre istituzioni politiche, e puntando dritto al cuore del problema, don Camillo pone al Cristo e, per suo mezzo, a tutti noi l’annosa questione: possono i mezzi essere subordinati ai fini? Può un fine “buono” giustificare l’uso di mezzi “malvagi”? Oppure è vero il contrario – i mezzi sono il fine, e un obiettivo buono richiede mezzi giusti? Esiste il male a fin di bene? “No. – risponde deciso Gesù – Dal male può scaturire il bene, ma tu non puoi usare coscientemente il male per ottenere il bene. Perché tu devi agire sempre secondo le leggi di Dio e le leggi di Dio ti vietano di compiere il male”. Il prete fa notare che “la stricnina è un veleno terribile, ma il farmacista dosandola giustamente può trarne una salutare medicina”. Ed ecco la fulminante, e conclusiva, risposta: “la morale cristiana non è stata fatta in farmacia”. Né, tanto meno, in Parlamento: l’uomo retto deve obbedire alla propria coscienza prima che alle leggi e, semmai, negare la propria fedeltà a queste ultime nel caso impongano comportamenti non in linea con l’insegnamento delle Sacre Scritture.

In fin dei conti, la stessa storia della Chiesa cattolica, cui lo scrittore apparteneva fieramente, si colloca largamente al di fuori dello Stato, se non contro di esso, come mostrano chiaramente le vicende dei santi martiri. Anzi, “qualsiasi forma di coercizione dell’uomo sull’uomo – sostiene Guglielmo Piombini – è in contrasto con l’insegnamento evangelico, e anche l’aiuto ai più bisognosi, così enfatizzato dai cristiani, soggiace a questa regola, perché mai il Messia ha auspicato forme di assistenza che, invece di sgorgare dallo spontaneo sentimento di carità delle persone, si fondassero sull’uso della forza legale o extra-legale”. In epoca moderna lo scontro si è spostato dal piano fisico a quello, per così dire, dottrinario; eppure non è meno violento o importante: “Questi due dati centrali della fede cristiana – la vita eterna e il giudizio – sono oggi cancellati dalla cultura dominante o, meglio sarebbe dire, dal “potere””, sottolinea Michele Brambilla24. Né manca, nella tradizione cristiana, l’incitamento a opporsi alle leggi, quando esse ledano princìpi fondamentali. Per usare le parole di Thomas Eliot, “è ora di abbandonare l’opinione che il cristiano debba considerarsi soddisfatto solo perché gode della libertà di culto e non è soggetto ad alcuna discriminazione a causa della sua fede. Per quanto settario io possa sembrare, dirò che non vi è null’altro che possa soddisfare il cristiano se non una organizzazione cristiana della società”. In fondo, l’opera narrativa di Guareschi mira a far emergere i contrasti, la conflittualità fra doveri “legali” (l’obbedienza allo Stato o al partito) e la voce della coscienza.

Naturalmente, non bisogna credere che il mite Giovannino fosse fautore di progetti rivoluzionari o utopie distruttive. Anzi, era un autentico combattente nel segno di quella tradizione che aveva reso grande l’Europa e che si riassume nel simbolo della Croce. “L’ortodossia di Guareschi – nota il cardinale Biffi – è ineccepibile […]. E’ il cattolicesimo che egli attinge con naturalezza dalla storia e dalla cultura antica del nostro popolo, dal quale è sempre stato ben attento a non estraniarsi”. Egli pertanto rifiuta ogni vittimismo, non si piega – come molti contemporanei, che quasi si vergognano del proprio credo – a chiedere scusa per i presunti errori della Chiesa. Di conseguenza, guarda allo Stato con sospetto, come colui che – costretto, ovviamente, a farvi i conti – lo tollera ma non gli accorda la propria fiducia, men che meno il proprio cuore. Per dirla con Vittorio Messori: “Rispetto i carabinieri, perché so di averne bisogno; ma non mi si chieda di amarli! Penso che il moloch statuale sia la Bestia dell’Apocalisse. In una prospettiva di fede, lo Stato nato dalla fine dell’ancien régime mi fa orrore”. Alla coercizione dello Stato, infatti, Giovannino contrappone la forza della fede e la libertà dei figli di Dio.

Un lamento disperato contro la deriva burocratica

Estremamente toccante è, a questo proposito, il suo lamento disperato contro quei burocrati che avevano impiegato mesi a recapitare un diploma di benemerenza a sua madre, la “vecchia maestra” (il vero “modello” per la signora Cristina di Mondo piccolo). Purtroppo, quel documento arrivò troppo tardi. La donna era già morta. “Io ho bisogno di vedermi davanti agli occhi quella data – scrive l’uomo coi baffi rivolgendosi alla vecchia ormai passata a miglior vita – vederla ogni giorno perché il mio cuore è pieno di veleno e ho bisogno di odiare i piccoli ignoti uomini e la ignavia statale che ti privarono della gioia che forse avrebbe dato al tuo cuore stanco la forza di battere un giorno, un’ora o un minuto di più. Non ti agitare nella tomba, non turbare il tuo eterno gelo: lo so, signora maestra: per te tutto quel che è statale è sacro e intoccabile, e quel che io ti dico è una orrenda bestemmia, per te. Ma io non parlo per te sola: io trasudo veleno per me e per tutti coloro cui la triste ignavia statale, cui la sordida indifferenza burocratica avvelenano gli ultimi giorni di una faticatissima vita spesa nell’onesto lavoro a beneficio della comunità. Anche voi, mezze maniche ministeriali che impiegate mesi per far arrivare un diploma di benemerenza da Roma a Milano, un giorno vi troverete vecchi e miserabili e lo Stato vi caccerà via a pedate: allora comprenderete il valore di un foglio come quello che m’è arrivato oggi. Allora forse il mio odio non vi inseguirà più. Ma fino a quel giorno io vi odierò tenacemente. Anche se avete rubato un solo secondo della vita di mia madre; anche se, semplicemente, le avete tolto un sorriso. Sono uno solo, ma il mio odio è immenso come l’amore che ho per mia madre. Scaldatevi pure al sole di Roma non curandovi dell’omuncolo che trasuda veleno tra le nebbie del Nord: un giorno il sole di Roma non riuscirà più a scaldare le vostre ossa ormai vecchie e scassate e allora anche l’odio dell’omuncolo vi peserà sulle spalle come un sacco di sabbia. Vi pagano poco? Anche mia madre era pagata poco e non si stancava mai di lavorare. Stai tranquilla, signora maestra: non ti preoccupare per me: non mi possono fare niente. Il mio odio è più forte di tutti i ministri messi assieme. Piuttosto, se puoi, rispondimi, nel sogno. Ma, per carità, non venire per spiegarmi che è indegno di un animo nobile quello che ho detto. Il mio odio non cerca forme di vendetta, ma è e sempre sarà soltanto un pensiero racchiuso nel mio cervello. Non venirmi a insegnare che debbo amare il prossimo mio come me stesso: me l’hai già insegnato e lo so. Io amo me stesso soltanto quando so di aver fatto ciò che, alla luce dei tuoi insegnamenti e del tuo esempio, ritengo sia il mio dovere. Quando so di non averlo fatto mi detesto”.

6 giugno 2003

(da Ideazione 3-2003, maggio-giugno)
stampa l'articolo