Parlare italiano, sentirsi europei
di Luigi G. de Anna

Da qualche mese Ideazione ha aperto un interessante e stimolante dibattito sullo stato della nostra lingua. L’italiano sta infatti attraversando una fase di indubbia popolarità all’estero. Mentre, è un mio ricordo personale, ai congressi degli italianisti degli anni Settanta, si levava unanime il coro delle preoccupazioni sullo stato della nostra lingua fuori della madrepatria, già alla fine degli anni Ottanta potevamo constatare con soddisfazione che l’italiano non solo era sopravvissuto a quella crisi, ma stava bene, anzi, benissimo. In alcuni paesi, citerò il caso a me più familiare della Danimarca, si può addirittura parlare di boom dell’italiano, divenuto una delle lingue più studiate nelle scuole e nei corsi serali. Il caso della Danimarca è interessante, perché al congresso degli italianisti scandinavi tenutosi a Turku nel 1976 si era lamentata proprio la possibile scomparsa della nostra lingua dalla Danimarca.

Che cosa è successo dunque, che cosa ha fatto mutare una tendenza che sembrava inarrestabile nel campo dello studio delle lingue? Bisogna ringraziare l’Unione europea, e prima ancora di essa l’europeismo in generale. Questa può sembrare una contraddizione, perché una lingua nazionale ci potrebbe apparire come il polo opposto dell’europeismo linguistico, ma così non è. Sono sempre esistite lingue dominanti o, se preferiamo, veicolari. Lo è stato il latino per moltissimo tempo (in Finlandia alla metà del XIX secolo le tesi di laurea venivano ancora scritte in latino), lo è stato il francese, che ancora in alcuni settori conserva lo status di lingua privilegiata, e lo è l’inglese. In realtà il francese non ha mai rappresentato un pericolo per l’italiano. Al massimo, i linguisti si sono preoccupati, soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento e fino agli anni Trenta del secolo scorso, di arginare l’afflusso dei francesismi, antica diatriba che comunque interessava soprattutto gli accademici della Crusca e non il comune parlante. Il caso dell’inglese è invece diverso. La lingua inglese, ahimé non si tratta di quella, bellissima, di Shakespeare, ma di quella più rozza e semplificata degli Stati Uniti, si è diffusa a livello di massa dopo la seconda guerra mondiale. Lingua dei vincitori, diviene rapidamente la lingua di un’economia vincente, di una cultura di larga diffusione, che in molti paesi si afferma grazie al cinema (non da noi però, dove i film sono ancora doppiati, pratica che fa inorridire la maggioranza degli stranieri) e alla musica leggera. Lingua dei fenomeni sociali emergenti, ma anche della comunicazione planetaria, il cui uso semplifica il nostro viaggiare, agevola i contatti professionali, ci fa sentire meno provinciali e più aperti al mondo intorno a noi.

Tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento l’inglese diviene egemone. I linguisti cominciano, in vari paesi, a partire dalla Francia, a sentire un profondo disagio nei confronti di una lingua che sta cambiando il lessico del proprio idioma. Il franglais fa rizzare i capelli in testa ai post-gollisti e nella nostra Crusca si levano le voci preoccupate di coloro, primo tra tutti Arrigo Castellani, che segnalano l’invasione di quelli che una volta si chiamavano i barbarismi. In realtà il problema non stava soltanto qui. O meglio, diciamo che le pur giustificate preoccupazioni dei linguisti rientravano comunque in quella che da secoli, anzi da millenni, è la logica della dinamica delle lingue. Gli scambi lessicali tra un idioma e l’altro sono sempre avvenuti, i substrati e i superstrati sono sempre esistiti. Insomma, le lingue nascono, si sviluppano e possono anche morire. L’elenco in effetti di quanto stiamo perdendo al mondo non riguarda soltanto insetti e roditori, ma anche le lingue. Ma questo, dicevamo, fa parte della logica, seppur triste, della storia umana.

L’anglicizzazione non è internazionalizzazione

Il problema dell’inglese non stava dunque nel suo lento insinuarsi nei nostri lessici, nel crescere di anno in anno nello Zingarelli dei neologismi derivati dall’inglese, o di neoformazioni che avremmo potuto benissimo coniare sulla base dell’italiano o del latino. Il problema consisteva, invece, in quanto il pensiero linguistico egemonico poteva rappresentare. E mi spiego subito. Prima dell’Unione europea ovviamente avevamo già una comunicazione internazionale, un libero mercato, chiamiamolo così, della domanda e dell’offerta linguistica. Non esistevano leggi né norme. Il darwinismo applicato alla linguistica condizionava il destino delle lingue europee. Il sistema scolastico allo stesso tempo nutriva e subiva questa tendenza. Nelle scuole italiane per molto tempo, troppo, si è studiata una sola lingua straniera. A poco a poco l’inglese è diventato prevalente e là dove francese, tedesco o spagnolo resistevano, riuscivano a farlo grazie alle riserve naturalistiche create intorno a loro per non offendere i nostri vicini geografici e soprattutto per non provocare la reciprocità di francesi, tedeschi e spagnoli, pure desiderosi di cancellare una lingua minore, come appariva essere l’italiano, dalle proprie scuole. Inesorabilmente l’inglese si avviava a monopolizzare l’insegnamento scolastico delle lingue straniere. Per molto tempo abbiamo cioè identificato la nostra internazionalizzazione, un processo logico, irreversibile ed estremamente utile, con l’anglicizzazione. Certo, non perfetta, anzi piuttosto lacunosa (e non penso soltanto all’inglese approssimativo dell’Americano a Roma di albertoniana memoria), ma comunque accettata ed auspicata.

Poi, dicevo, è venuta l’Unione europea. Punto fermo della sua politica linguistica è stato che ogni paese gode di uguale dignità e lo stesso diritto all’uguaglianza è attribuito alla sua lingua. In ambito comunitario non esistono cioè lingue maggiori e minori. I documenti ufficiali vanno tradotti in tutte le lingue dell’Unione e ogni deputato al Parlamento europeo ha il diritto di esprimersi nella propria lingua. Sarà poi compito del traduttore o dell’interprete in simultanea o in consecutiva rendere comprensibile agli altri ciò che dice. Questo ha naturalmente complicato il lavoro dell’Unione europea, tanto che per alcuni settori e situazioni si accetta il ricorso alle lingue di lavoro, che sono le principali lingue di comunicazione in uso in Europa. Si badi bene: le principali lingue, non una lingua. In sostanza, anche là dove, per ragioni pratiche, si deve procedere ad una semplificazione, essa non può arrivare all’estremo di privilegiarne una sola, che sarebbe ovviamente l’inglese. Dobbiamo ringraziare la Francia per aver tenuto fermo questo principio, ma anche la Germania e la Spagna si sono battute adeguatamente.

Unione europea e minoranze linguistiche

La situazione negli anni Ottanta si era dunque capovolta: l’inglese, che tutti i linguisti davano per vincente, anzi, stravincente, in realtà era rimasto imprigionato, in questa sua corsa al dominio linguistico mondiale, proprio nelle pieghe burocratiche dell’Unione europea, che promuoveva l’uso, su un piano più generale, di tutte le lingue comunitarie, e su quello più particolare di alcune, comunque sempre nel rispetto del concetto di pluralità. Aggiungo che l’Unione europea dispone anche di un ufficio che si occupa delle minoranze linguistiche e cioè di quelle lingue che non hanno lo status di lingua nazionale. E qui comprendiamo meglio il vero significato della politica linguistica comunitaria. Essa non è stata ispirata ad una ovviamente immotivata anglofobia (o americanofobia), né a giudizi o pregiudizi politici. Il cambiamento di tendenza dal monolinguismo come L2 (la lingua straniera che apprendiamo) al plurilinguismo di varie L2 è dovuto allo spirito dell’Unione europea, che è quello appunto di unire l’Europa, ma salvaguardandone le specificità nazionali. In altre parole, come nessun paese che diventi membro dell’Ue deve perdere la propria identità politica ed economica, ma deve armonizzarsi a quella sovrannazionale della Comunità, così nessuna lingua deve essere considerata minore rispetto ad altre. Dal danese al greco, dal francese all’inglese, dall’italiano al finlandese, tutte le lingue godono di pari dignità. In questo contesto non è più ammissibile il predominio di una lingua sulle altre. Naturalmente restano nell’uso comune le lingue di più generale comunicazione, questo è logico ed auspicabile, ma l’importante è stabilire ed applicare il principio che come esistono culture singole, così esistono le lingue in cui esse si esprimono. Le lingue forti non devono opprimere, schiacciare quelle più deboli, il cui uso va anzi promosso a livello locale. In realtà, l’ideale sarebbe di giungere ad una forma di sussidiarietà linguistica che abbia come primo livello addirittura il dialetto, ricchezza e patrimonio culturale che nell’Europa comunitaria è assolutamente necessario difendere.

C’era un tempo in cui in Italia era vietato, in atti pubblici, usare lingue altre dall’italiano. Questo limitava il dialetto al ruolo di parente povero di cui dovevamo vergognarci. Oggi per fortuna queste lingue tagliate, per riprendere il titolo di un famoso saggio, sono tornate ad essere considerate come una ricchezza comune. Se potessimo applicare in toto la sussidiarietà (uso questo termine, per evitare, ovviamemnte, l’orrendo devolution) dovremmo dunque accettare l’uso del dialetto al livello più basso (inteso in senso della prima lingua parlata). Ad esempio non sarebbe affatto strano se in una riunione di consiglio comunale si parlasse il dialetto del paese, mentre al Parlamento regionale si potrebbe usare l’italiano regionale, che è la somma dei vari dialetti locali, e in quello nazionale ovviamente si farà ricorso all’italiano. Al tempo stesso dovremmo ulteriormente proteggere ed aiutare a diffondersi nelle scuole le alloglossie, di cui l’Italia in particolare è molto ricca. Le querelles tra italofoni e germanofoni o francofoni o slovenofoni dovrebbero cessare e per farle cessare basta ribadire che non esiste una sola lingua predominante (il bilinguismo è per fortuna sancito per legge in molte, ma non in tutte le zone alloglotte), aggiungerei politicamente e culturalmente predominante, ma che il cittadino può, con uguale dignità, esprimersi in più lingue.

In realtà il problema politico si era legato alla lingua già col Romanticismo. L’identificazione tra lingua e nazione era essenziale per determinare l’identità di un popolo. Si è italiani perché si parla l’italiano, o spagnoli perché si parla il castigliano e questo appunto escludeva l’uso di altre lingue, proprio perché esse non contribuivano alla creazione dell’identità nazionale che nell’Ottocento si oppone al concetto si supernazione, ancora incarnato negli imperi, soprattutto in quello austro-ungarico con le sue otto lingue ufficiali. Non sarà inopportuno ricordare che nel tardo Ottocento in ambito regio-imperiale esisteva l’obbligo di far approvare una legge che riguardava la situazione culturale o linguistica in una parte del paese non dalla maggioranza etnico-linguistica del paese medesimo, ma dalla sua minoranza, e questo per salvaguardare proprio le minoranze e proteggerle dal colonialismo culturale e linguistico del centro. D’altronde la politica linguistica in quanto tale è sconosciuta all’impero romano come è sconosciuta al medioevo, mentre si afferma in conseguenza della Rivoluzione francese.

Naturalmente il plurilinguismo richiede non solo un diverso atteggiamento mentale da parte di cittadini e governanti, ma anche un sistema scolastico ed educazionale che lo corrobori. E qui torniamo al pessimo esempio italiano, con la sua scuola ridicolmente povera di lingue straniere, per di più spesso male insegnate. Nel paese dove vivo, la Finlandia, le lingue straniere si cominciano a studiare alle elementari. Mio figlio, che frequenta il liceo, studia finlandese, svedese, inglese, tedesco, spagnolo ed italiano. Cioè sei lingue, di cui una materna. Per quelle cosiddette brevi, la scelta è piuttosto ampia, dato che avrebbe potuto prendere anche il francese o il russo o il latino. Naturalmente non parla queste sei lingue con uguale competenza, ma in ogni caso sarà in grado di leggerle, capirle e, per alcune di esse, di tenere una normale conversazione. Vediamo quali sono le conseguenze di questo allargamento a un numero di lingue straniere superiore alle due (o una) che si studiano in Italia. Innanzitutto ogni lingua rappresenta la chiave per l’apprendimento di altre dello stesso ceppo. Sarà molto più facile imparare il portoghese sapendo un po’ di spagnolo, come lo svedese apre la porta delle altre lingue scandinave. Il tedesco agevola la conoscenza del neerlandese, il finlandese quella dell’estone, e così via. L’esperienza scolastica finlandese, ma è la stessa negli altri paesi nordici, ci insegna che è possibile moltiplicare la diffusione delle lingue straniere nella popolazione scolastica. Basta adeguare la scuola alle nuove esigenze. Ma ciò che è più importante è che chi studia varie lingue è portato a crearsi una forma mentis plurilingue e non monolingue. L’accettazione della pluralità delle lingue straniere è al tempo stesso l’accettazione di un sistema politico pluralistico, sempre, beninteso, in ambito europeo. Rispettando la molteplicità delle lingue rispetteremo la molteplicità delle identità nazionali.

La politica linguistica dell’Unione europea non cancella l’uso delle lingue maggiori, questo è ovvio, ma aiuta a diffondere quelle minori. In realtà la divisione tra maggiori e minori è arbitraria e impropria, infatti ad esempio l’italiano per un nordico può essere considerato lingua di minore importanza, ma nell’area mediterranea essa è una delle tre principali, insieme a francese e spagnolo. Bisogna quindi concepire la politica linguistica tenendo presente la loro arealità. L’italiano diviene così lingua di primaria importanza in Slovenia, Croazia, Albania, Grecia, certe parti della Francia, della Svizzera, a Malta e perfino in Germania e Belgio grazie alla presenza di una consistente comunità italofona. Ma lo stesso potremmo dire di ogni altra lingua, la cui importanza areale fa sì che essa debba essere studiata in quella zona perché di fondamentale importanza per il commercio, i contatti sociali e, diremmo, proprio per poter rafforzare il nostro sentirci europei.

Biognerebbe insomma divenire linguisticamente veramente europei. Studiando ed imparando più lingue capiremo meglio i nostri connazionali europei e saremo da loro meglio capiti. Ecco perché è di vitale importanza aiutare la diffusione dell’insegnamento dell’italiano in ambito comunitario. L’italiano oggi viene diffuso all’estero in contrasto, oserei dire, con le altre lingue, quasi che si dovesse trattare di una lotta per la sopravvivenza. Lo spazio dell’italiano, secondo questa antiquata concezione, va conquistato a spese di un’altra lingua straniera. Ma così non è. L’italiano, come qualsiasi altra lingua, può coesistere con molte altre lingue nell’ordinamento scolastico e universitario. Non si tratta di scegliere, escludendo, tra le lingue, ma di armonizzarle tra loro. In questo senso l’europeizzazione dei nostri istituti di cultura sarebbe un processo caldamente auspicabile. L’offerta della cultura italiana non dovrebbe essere intesa come alternativa rispetto ad altre culture, ma come complementare rispetto ad esse, specialmente se europee. Del resto i collegamenti tra le nostre culture sono il riflesso dei collegamenti tra le nostre lingue. Giacomo Leopardi aveva parlato, riferendosi alle parole di origine straniera entrate nell’italiano, di europeismi. Caro, saggio, poeta.

(da Ideazione 3-2003, maggio-giugno)

6 giugno 2003


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