Un’alternativa al monolinguismo
di Giorgio Pagano

Sulla questione linguistica in Europa si giocano principalmente due destini: 1) la salvezza, anzitutto nel senso della non dialettizzazione, delle nostre lingue nazionali; 2) lo sviluppo economico, sociale e politico dell’Unione. Cominciamo con l’instradare il ragionamento sul primo punto: che il patrimonio linguistico-culturale dell’umanità si sia già abbondantemente assottigliato e che sia destinato a farlo tragicamente ben oltre è nelle statistiche e stime di tutti gli esperti (studiosi ed enti preposti) del mondo. Manca un accordo sulla percentuale, si parla comunque della scomparsa di circa il 90 per cento delle lingue del mondo entro questo secolo. Tutte le associazioni ambientaliste ci informano, allarmandoci regolarmente, che la pianta X o l’animale Y è in via d’estinzione ma del fatto che ogni settimana un paio di lingue scompaiano dalla faccia del pianeta difficilmente trova anime pronte e pie che se ne occupino. Gli stessi linguisti che vedono assottigliarsi settimanalmente la materia del loro studio appaiono inebetiti, quasi pietrificati di fronte a tale immane perdita. Ognuno comprende come ogni lingua del mondo che scompare porta via con sé non solo un modo e un modello di vita, ma anche un patrimonio di conoscenze.

Un pezzo della cultura, della storia e della diversità del mondo muoiono con essa. Altrettanto chiaro è ormai il fatto che il responsabile principale di questo genocidio linguistico-culturale è, e lo sarà in sempre maggior misura per un macabro effetto domino, la lingua inglese, nel senso di americano. Il fatto è di tale macroscopica evidenza e rilevanza che persino un prudentissimo Unesco, nella sua risoluzione sul plurilinguismo nell’educazione adottata dalla trentesima Conferenza generale, ha messo in guardia contro il "pericolo che oggi minaccia la diversità linguistica a causa della mondializzazione della comunicazione e delle tendenze ad usare una lingua unica, con i rischi di emarginazione delle altre grandi lingue del mondo e addirittura di estinzione delle altre lingue di minore diffusione, a cominciare dalle lingue regionali". Ma al di là dell’"inglese assassino" o linguicida come lo definisce The Independent del 20 marzo scorso, ritengo si possa fare una sintesi del ruolo che gioca questa lingua in un quadro di dominio globale attraverso il punto di vista del più prestigioso settimanale economico del mondo: l’Economist. Tale punto di vista è stato sviluppato in un lungo articolo del 20 dicembre 2001, dal titolo “Il trionfo dell’inglese. Un impero mondiale con altri mezzi” e possiamo riassumerlo sostanzialmente in cinque punti. 

1. L’inglese è difficile – L’Economist spiega come l’inglese sia divenuta la lingua globale "di sicuro non perché l’inglese sia facile". Questa difficoltà, peraltro, l’ha riconosciuta implicitamente anche il governo portando lo studio dell’inglese alle elementari, anticipandolo di ulteriori due anni. Malgrado ciò, questa lingua si è comunque affermata mondialmente e di ciò "la vera ragione è il trionfo degli anglofoni Usa come potenza mondiale".

2. L’inglese è la lingua imperiale Usa – L’Economist, afferma inoltre che "il trionfo dell’inglese" nel mondo ha come effetto pratico quello della costruzione di un impero mondiale degli Stati Uniti d’America. È importante il fatto che ad affermare che, come dire, la madre di tutte le multinazionali americane è la lingua inglese non lo dice un rappresentante dei no-global.

3. L’inglese distrugge il “mercato” linguistico – "Le lingue non sono solo dei mezzi di comunicazione, che consento a una nazione di dialogare con un’altra nazione. Sono anche dei depositi di culture e di identità. Ed in molti Paesi l’avanzata onnivora dell’inglese minaccia di danneggiare o distruggere una buona parte della cultura locale. Di ciò ci si lamenta spesso persino nella stessa Inghilterra: per quanto la lingua che oggi fa piazza pulita nel mondo si chiami inglese, la cultura che da essa viene trasportata è quella americana". Ma The Independent, rispetto a quella che potremmo definire “guerra delle lingue” ci va ancor più pesante: "Non è un genere ancor più sinistro del colonialismo che noi praticavamo cento anni fa? Non troppo tempo fa noi prendevamo le loro materie prime. Ora invadiamo le loro menti, cambiando lo strumento primario col quale essi pensano: la “loro” lingua".

4. Verso l’anglofonia monolinguista – "Gli anglofoni di lingua madre stanno diventando sempre meno competenti in altre lingue: solo nove studenti si sono laureati in lingua araba nelle università degli Stati Uniti l’anno scorso, ed i britannici sono i più monoglotti tra i popoli dell’Unione europea. Per cui il trionfo dell’inglese non solo distrugge le lingue degli altri, ma isola anche gli anglofoni di madre lingua dalla letteratura, dalla storia e dalle idee degli altri popoli. Si tratta, in poche parole, di una vittoria di Pirro". Rammento a questo proposito un articolo di Passarini su La Stampa del 12 febbraio 2002 dal titolo “Inghilterra monoglotta d’Europa” dove si dava conto di un appello degli ambasciatori d’Italia, Germania, Spagna e Francia al governo britannico affinché s’impegnasse a migliorare l’insegnamento delle lingue nelle scuole statali del Regno Unito poiché le scuole europee continentali avevano (ed hanno) lunghe code di richieste per scambi didattici, ma non riescono a organizzarli per la mancanza di corsi di lingue straniere nelle scuole inglesi. Insomma, come fare scambi culturali con i ragazzi inglesi se costoro non imparano nessun’altra lingua? Passarini riportava anche le parole di Estelle Morris, segretario di Stato per l’educazione, il quale riconosceva candidamente che "la Gran Bretagna è la sola nazione europea che non insegna le lingue straniere nelle medie superiori". Il fatto tragicomico è che mentre allora il nostro ambasciatore Amaduzzi pietiva agli inglesi: "Vi prego, imparate altre lingue, siate aperti all’utilità di questo. Avviene ovunque in Europa, ma non in Gran Bretagna", oggi, in Italia, abbiamo anticipato l’insegnamento dell’inglese dalla prima elementare. Fatto che, da destra a sinistra, sembra non scandalizzare nessuno.

5. Il protezionismo linguistico è inutile – L’Economist a questo proposito cita tutta una serie di iniziative legislative e non: francesi, spagnole, polacche, tedesche e persino quella promossa dai canadesi anglofoni contro "il violento assalto editoriale dagli Stati Uniti", giustificato dal fatto che le industrie culturali canadesi sarebbero a rischio. Episodio a ulteriore testimonianza di come attraverso il predominio linguistico passi quello economico e là dove il primo è acquisito arriva subito il secondo. Tutte, comunque, tali misure sono state incapaci di arrestare la penetrazione dell’anglo-americano in tutti i paesi del mondo. Oggi l’Europa dell’allargamento, con sullo sfondo quasi venti lingue ufficiali, deve assolutamente trovare ed affermare la via democratica alla comunicazione internazionale. Anzitutto separando i concetti che sovrintendono alla comunicazione transnazionale dalle esigenze culturali dell’apprendimento di una lingua straniera secondo non la necessità, ma il piacere e la voglia di apprenderla. a) Dietro il concetto di lingua internazionale deve esserci l’idea di una lingua che serve a tutelare tutti nella comunicazione transnazionale senza discriminazione alcuna. Per tutti intendo davvero tutti: una lingua semplice che possa essere appresa pienamente nell’arco della scuola dell’obbligo ma, anche, da chi la scuola dell’obbligo l’ha finita da un pezzo, una sorta di lingua pubblica (così come c’è una scuola o una sanità pubblica, nel senso di tutti), di lingua di comunicazione sociale che, appunto, in quanto pubblica e sociale non appartenga ad alcun sistema linguistico “privato” (nel senso di etnico, nel senso quindi di francese, inglese, giapponese…) né privilegi un ceto più ricco piuttosto che un popolo più potente. b) Il concetto di lingua straniera deve tornare ad essere quello sano ed umanistico di studio per la conoscenza di culture e popoli: non – com’è oggi – devo studiare l’inglese per trovare lavoro ma, ad esempio, voglio studiare l’arabo perché mi incuriosisce questa cultura così diversa dalla mia. Liberando finalmente il mercato delle lingue da ogni pastoia monopolista e monopolizzatrice soffocatrice e assassina delle diversità.

Con queste linee concettuali e operative tratteggiate, la soluzione alla comunicazione internazionale/salvezza delle lingue ha un solo nome quello di, per l’appunto, Lingua internazionale, Internacia Lingvo o, come è stata soprannominata, Esperanto: io preferisco il suo nome originario, e non quello dello pseudonimo del suo creatore (dottor L. L. Zamenhof detto “Esperanto”, colui che spera) con la quale è stata successivamente etichettata, poiché esso ne trasmette pienamente il ruolo politico e democratico. Ma dettagliamo ulteriormente. Perché la Lingua internazionale può dispiegare tutto il suo potere salvifico in questa che ho chiamato lotta biologica alla distruzione precoce delle lingue?

– Anzitutto per la sua semplicità e quindi facilità di apprendimento. Il rapporto con l’inglese è di 1 a 20, ossia, se gli esperti indicano in 10.000 ore il tempo medio d’apprendimento dell’inglese per l’Internazionale ce ne vogliono 500 per saperlo da super esperti. Questo ne consente un pieno apprendimento nella scuola dell’obbligo lasciando tutto il posto per uno studio libero e liberato delle lingue straniere.

– Secondariamente, il fatto di non essere lingua materna di alcuna etnìa, in tal senso frutto di artificio o di fatto ad arte.
È proprio questo fattore che consente la messa al sicuro di tutte le lingue – nazionali e minori – da qualsiasi colonialismo linguistico-culturale e/o glottofagia. Come dire non si è nel mondo in un incontro/scontro tra popoli più potenti o più poveri, bensì ci si ritrova tutti in una sorta di “organizzazione mondiale della democrazia linguistica”. Se passiamo ora dal contesto mondiale a quello del nostro continente e alla necessità dell’Unione di consolidare e sviluppare l’integrazione dell’Europa, lo scenario acquista contorni davvero preoccupanti. Con la direzione del premio Nobel per l’economia R. Selten, nel libro di vari autori I costi della non comunicazione linguistica europea ho prospettato quali siano già ora, prima dell’allargamento, i costi che i cittadini pagano per la loro non comunicazione linguistica. Lo denunciavamo per un’Unione con undici lingue, potete immaginare cosa può esserlo per un’Europa che viaggia verso le venti lingue per arrivare a contare quasi il doppio degli abitanti degli Stati Uniti. Rimando per ciò direttamente a quel saggio che ciascuno può acquistare comodamente da casa collegandosi al sito linguainternazionale.it, quello che va ora considerato per l’Unione è che senza una lingua comune ufficiale la mobilità, l’economia, il lavoro di centinaia di milioni di eurocittadini è bloccato. Il sistema Europa può solo girare al minimo. 

Dopo l’introduzione dell’euro, se si vuole costruire un’Europa che non sia un perenne nano politico va data massima priorità all’introduzione della Lingua internazionale, una lingua pubblica europea, comune per tutti (non inglesi a parte!) e che da tutti possa essere sentita come propria preservando, nel contempo, le lingue materne di ciascuno. Il grave errore politico del Movimento federalista europeo, e dei federalisti europei in genere, è stato proprio questo: non aver compreso che senza una “lingua federale” la federazione europea non avrebbe potuto (e non può) nascere per il semplice motivo che centinaia di milioni di persone, pur potendo aderirvi idealmente, di fatto ne sono tenuti fuori. Anche su questo, perdonatemi, non possiamo non prendere atto del fallimento politico di coloro che in chiave linguistica europea avevano puntato sull’anglofonia. è dal dopoguerra che l’inglese è divenuta la principale lingua di studio degli italiani (e non solo) certamente lo è dagli anni Cinquanta. 

Ebbene, qual è la percentuale degli italiani in grado di comunicare correntemente in inglese? Vogliamo azzardare un eccesso? Al massimo un 10 per cento della popolazione! Questo malgrado la stagione d’oro dell’underground, del rock, dei ricatti del "devi studiare l’inglese se vuoi trovare lavoro più facilmente", dei film di Hollywood e così via. Avendo illustrato, seppure in grandi linee, i contorni della necessità della Lingua internazionale, mi pare importante ora porsi il problema di come attuare tale necessità. Cominciamo col dire che non si tratta d’imporre la Lingua internazionale, bensì di cominciare a porla, riconoscendo in ciò un interesse pubblico nazionale, europeo, globale, un interesse che riguarda tutto il mondo non anglofono. Di fronte a denunce come questa dell’Independent non vedo possibile alcuna ragionevole opposizione: il re è chiaramente più che nudo, è scarnificato.
E allora, per cominciare e limitandomi a ciò che già a livello nazionale dovremmo fare.

1) Subito informazione, anzitutto nella tv pubblica, poi nella convegnistica di settore e non, e nei Parlamenti (interrogazioni parlamentari e audizioni nelle competenti commissioni parlamentari) proprio partendo da quanto denunciato dalla stampa anglofona. 2) Presentazione di leggi che non creino un binario privilegiato per la Lingua internazionale, ma che si limitino ad equipararla a una delle lingue straniere oggi inserite nel sistema scolastico mettendo semplicemente in concorrenza la lingua pubblica internazionale con quelle private nazionali (egemoni o no). Come ho già spiegato, non si tratta di imporla ma di porla, dando la possibilità a chi lo voglia di sceglierla. Questo significa anche che, per quanto concerne tutti i concorsi, là ove ci sia la clausola "conoscenza di almeno una o più lingue straniere" la lingua di comunicazione sociale transnazionale sia ammessa tra esse. So che già un parlamentare di Forza Italia ha pronta una legge del genere con un buon titolo “Difesa della lingua italiana nell’Unione europea tramite l’accesso allo studio della lingua internazionale Esperanto”, sarebbe il caso di cominciare quanto prima a studiarne un iter veloce e vincente sapendo, peraltro, che l’attuale capogruppo alla Camera di Forza Italia, Elio Vito, probabilmente è uno dei migliori conoscitori della problematica oggi presenti in Parlamento. A lui si deve l’interrogazione parlamentare che portò il ministero della Pubblica istruzione italiano prima a creare una Commissione di studio ad hoc e poi a diramarne i risultati nella circolare 126 del 1995. Questo, però, non significa che altri, più consapevoli dell’urgenza, non possano fare prima e meglio: i Verdi, ad esempio, al loro Congresso europeo di Berlino hanno approvato una mozione di sensibilità all’argomento. Certamente, come tutte le grandi battaglie di civiltà, anche questa è trasversale a tutte le forze politiche. 

3) Proprio i contenuti della sopraindicata circolare di ben 44 pagine consentono subito al ministro della Pubblica istruzione di:
– dar vita a progetti europei mirati, anche con i Paesi candidati all’allargamento (in Ungheria e Lituania, ad esempio, da tempo l’Esperanto è tra le lingue insegnabili/apprendibili nelle scuole);
– segnalare tra i corsi degni di “credito” per gli alunni delle superiori quelli d’Esperanto. Su Internet ce ne sono molti (su linguainternazionale.it, ad esempio, ce n’è uno molto bello);
– avviare corsi di formazione per insegnanti. A cominciare da quelli delle elementari, qui i programmi vigenti riguardo all’insegnamento della lingua straniera recitano testualmente "Per le finalità che la scuola elementare persegue, la scelta di questa o quella lingua non è determinante". Aggiungiamo, ancora, che l’Istituto di pedagogia cibernetica dell’Università di Berlino e Paderborn ha da tempo sperimentato come due anni di Lingua internazionale propedeutici all’insegnamento delle lingue straniere etniche facilitino molto l’apprendimento di queste ultime. Tant’è vero che classi che partivano con due anni d’Esperanto propedeutici ai successivi due anni d’inglese, si dimostravano sempre ampiamente più preparate di quelle che per tutti i quattro anni avevano fatto solo inglese.

4) Per darne poi visibilità nelle nostre città, anche un solo partito con una discreta presenza nei governi delle città potrebbe varare l’adozione della Lingua internazionale negli avvisi dei mezzi pubblici cittadini.

5) Il prossimo è il semestre di presidenza italiana dell’Unione. Bisogna porre all’attenzione dei Paesi membri la questione olocausto linguistico/eurolingua super partes nella costruzione e consolidamento dell’Europa in vista dell’allargamento e dopo l’euro. 
Tre i ministri più facilitati nell’operazione: quello dell’Istruzione e della ricerca scientifica per i motivi e la documentazione già ufficializzata (in quel contesto potrebbero pensarsi i termini di università europee on line); quello dell’Economia: la chiave è quella del rilancio del sistema Europa con l’utilizzo della mobilità del lavoro di tutti i centinaia di milioni di cittadini europei come delle micro e piccole imprese europee – qui va anche ripensato il sistema dei brevetti europei, anche alla luce del fatto che l’americano Us Patent Office li concede anche su ciò che è vivente – ; quello della Difesa: qui relativamente all’avvio della creazione entro il 2003 di una forza di intervento rapido europea.

Faccio presente che l’Esperanto era utilizzato dall’esercito degli Stati Uniti all’inizio degli anni Sessanta per le sue esercitazioni. I militari statunitensi che dovevano fare la parte del nemico dovevano apprenderlo ed utilizzarlo durante l’esercitazione. La cosa non durò molto perché gli esperantisti americani protestarono duramente: il titolo dato al manuale militare era “Esperanto, the aggressor language”. Decisamente troppo per una lingua nata per aiutare il mondo nella costruzione della pace internazionale. E' anche vero, però, che questo episodio dimostra come, eventualmente, la questione non sia quella di pensare in americano, bensì di pensare americano. Proprio in questi giorni la Commissione europea sta promuovendo una “Consultazione sull’apprendimento delle lingue e sulla diversità linguistica”

Scaricatevi il documento di consultazione proposto, andate a pagina 6, penultimo capoverso, ultime due righe e leggerete: "Per quanto riguarda le differenze geografiche, solo il 13 per cento dei danesi, svedesi e degli olandesi conosce una lingua sola, contro il 66 per cento degli abitanti del Regno Unito". Mentre la Commissione consulta l’Europa per far sì che in tutti gli Stati membri si apprendano obbligatoriamente due lingue straniere, essa stessa ci dice che i britannici non ne vogliono sapere alcuna, se non la loro. Chissà quando la Commissione prevedrà di promuovere iniziative per far sì che anche i ragazzi del Regno Unito debbano, obbligatoriamente, studiare delle lingue straniere.

23 maggio 2003

(da Ideazione 2-2003, marzo-aprile)
stampa l'articolo