La “guerra europea” delle lingue
di Lucio D’Arcangelo

Il 12 dicembre 2002, presso la “Dante Alighieri”, ha avuto luogo la presentazione del Comitato per la promozione del Consiglio superiore della Lingua italiana previsto nel disegno di legge n. 933 del 21 dicembre 2001, attualmente all’esame del Parlamento. Nel corso della presentazione si è affrontato il problema della tutela della lingua e sono state esposte le ragioni che rendono indifferibile la costituzione di un Consiglio superiore della Lingua italiana, già proposto nel 1983 da uno dei maggiori rappresentanti della linguistica del Novecento, Giacomo Devoto, e più volte auspicato dall’ex-presidente dell’Accademia della Crusca, Giovanni Nencioni. L’italiano è una delle otto lingue più studiate nel mondo, ma l’apprezzamento di cui gode all’estero deve essere sostenuto da una politica linguistica adeguata.

Oggi in Europa è in atto una vera e propria "guerra delle lingue", come l’ha definita Louis Jean Calvet in un suo fortunato libro – a cui sono seguiti La guerre des langues en Europe di Yvonne Bollman (Bartillat, Paris, 2001) e Words of the World di Abram de Swaan (Blackwell, Oxford, 2001) – che disegna in modo esauriente il sistema di riferimento delle lingue del mondo. Dalle graduatorie che l’Unesco fornisce anno per anno si evince che francese, tedesco e spagnolo competono egregiamente con l’inglese, a cui non hanno intenzione di cedere minimamente. Il francese mantiene le sue posizioni in Canada, per esempio, e in Africa, ed il tedesco, che domina nell’Europa orientale, è presente perfino nel continente africano (Namibia) – mentre, come si sa, l’italiano in Somalia è ormai marginalizzato. Non parliamo dello spagnolo che minaccia la supremazia dell’inglese perfino negli Stati Uniti. 

Anche lingue minori come il danese cercano il loro rilancio internazionale e si attrezzano per limitare i danni della globalizzazione linguistica. Solo l’italiano secondo alcuni dovrebbe rassegnarsi a scomparire dalla scena e diventare, forse, una lingua morta. Diventa perciò ineludibile rendere lo Stato corresponsabile delle sorti della lingua nazionale, che va tutelata prima di tutto all’interno nella consapevolezza che "apertamente o no, le decisioni sulla lingua e il suo uso sono prese ovunque, allo scopo di valorizzarle o svalutarle, per avvicinare gli individui o per allontanarli, per contribuire a una loro comprensione più profonda o a un loro distacco". Sarebbe difficile trovare oggi nel mondo un Paese che non abbia una politica linguistica, ed anche quei governi che hanno fatto finta di non averla, come in Italia il precedente governo di centro-sinistra, hanno preso decisioni sulla lingua. Se Kemal Atatürk non avesse riformato l’ortografia turca nel 1928, oggi i turchi seguiterebbero a scrivere con l’alfabeto arabo.

Trasformazioni socio-politiche e coscienza linguistica

In realtà proprio il caso dell’italiano rappresenta una clamorosa smentita a chi seguita a considerare lo Stato come una specie di spauracchio. Una lingua letteraria, che non era neppure una “lingua franca” (ancora Tommaseo la definiva nel suo dizionario "lingua scritta"), è diventata lingua parlata di uso nazionale dopo l’unificazione grazie allo Stato che ne ha curato la diffusione attraverso l’istruzione pubblica, l’amministrazione e la stessa stampa. Questo processo seguitò in modo coerente, anche se non sempre felice, sotto il fascismo, attraverso la radio, per esempio, e si interruppe bruscamente nel dopoguerra, quando, come si sa, l’italiano fu messo tra parentesi dalla nuova Costituzione. Una scuola ancora salda e dei media educati alla norma mitigarono in parte le conseguenze di questa decisione. Ma la situazione precipitò dopo il ’68, quando all’indifferenza ufficiale subentrò l’aggressività delle ideologie che vedevano nella nostra lingua uno strumento di egemonia, di oppressione sociale, finché, recentemente, come sappiamo, lo Stato ha sposato la causa delle cosiddette “minoranze linguistiche”, tutelate se non proprio contro certo in absentia della lingua nazionale. 

In questa situazione il Consiglio superiore della Lingua italiana è chiamato a svolgere fondamentalmente un’attività di studio, proposta ed orientamento per restituire agli italiani il senso ed il gusto della loro lingua, per formare quella coscienza linguistica di cui fanno sfoggio i francesi e che oggi avvertono acutamente anche gli inglesi in un’epoca in cui la loro lingua rischia di sfuggirgli di mano. La cosa più importante per la tutela di un bene così delicato come la lingua è la sensibilizzazione: sensibilizzazione di tutti quei settori che contribuiscono a formarla e ad orientarne l’uso: ciò che ormai ci viene richiesto da larga parte dell’opinione pubblica. Ma qual è lo stato della nostra lingua?

Secondo alcuni la nostra lingua non correrebbe alcun pericolo e le accuse che oggi le vengono rivolte sarebbero le medesime che uno stuolo di puristi rivolgeva alla lingua “gazzettiera” dell’Ottocento, solo che l’imputato della denunciata decadenza era, allora, il francese, anziché l’inglese. In realtà, le accuse non sono le stesse (credo, ad esempio, che nessuno oggi consideri gli adattamenti “pericolosi”) e la situazione non è la stessa, perché l’influenza del francese riguardava una società di letterati, nei confronti della quale la Crusca poteva esercitare ancora un freno, mentre oggi ci troviamo di fronte la società di massa ed un permissivismo senza precedenti. Se la situazione sembra la stessa è perché in ogni momento storico sussiste una tensione più o meno forte tra innovazione e conservazione. Se una conservazione spinta può irrigidire la lingua, allontanandola dall’uso, un’innovazione dello stesso segno può snaturarla e frammentarla.

"Il particolarismo, l’espressività – scriveva Giacomo Devoto – sono, fino a un certo momento, virtù naturali. Ma, senza l’accettazione di una comunità superiore, integratrice, normatrice, le lingue o rimangono dialetti o si riducono a balbettii. Vengono meno all’esigenza fondamentale di essere il cemento essenziale di una comunità nazionale". Il purismo non è "contro la lingua", come è stato frettolosamente affermato, ma ne recepisce la tendenza alla stabilità, non meno forte di quella che porta al cambiamento. Se l’italiano è oggi quello che è, lo si deve anche al purismo, come ha fatto notare più volte Giovanni Nencioni. Non dico niente di nuovo affermando che il carattere normativo è implicito nella nozione stessa di lingua nazionale. Grammatiche e dizionari sono stati da sempre gli strumenti attraverso i quali le lingue nazionali si sono formate e consolidate. Basta pensare al francese, al fiorire di grammatiche nel Cinquecento, che è l’epoca in cui si fissa la lingua letteraria. In epoche diverse e, soprattutto nel Ventesimo secolo, gli uomini sono intervenuti sulla struttura delle lingue, non soltanto per la standardizzazione o la promozione di una norma, ma anche per la pianificazione della grammatica: ne sono esempio i generi in olandese, le flessioni nominali e verbali in finnico, la collocazione delle enclitiche in ceco, le norme morfologiche in ebraico-israeliano. 

Questa azione concerne egualmente le strutture lessicali: modernizzazione del vocabolario, specialmente scientifico e specializzato, difesa legale nei confronti dell’invasione di termini stranieri (Francia e Québec), controllo del principale fattore esterno di modificazione della struttura delle lingue, l’imprestito. "In tutti questi casi – ha scritto Claude Hagège – le lingue di cui l’uomo prende in mano il destino sono concepite, per quanto limitata possa essere l’azione su dei processi naturali, come il campo di applicazione che può fare della linguistica, a condizione che essa tenga conto delle esigenze reali dei parlanti, qualcosa di diverso da una ricerca astratta ed estranea al mondo".

23 maggio 2003

(da Ideazione 2-2003, marzo-aprile)
stampa l'articolo