L’italiano nella Grande Europa
di Francesco Sabatini

Con l’ultimo passo compiuto dal processo di unificazione europea, l’intero continente ha già cambiato fisionomia ai nostri occhi. Dopo la decisione, presa al chiudersi del 2002, di ammettere altri dieci membri (da Malta all’Estonia, passando per Cipro, l’Ungheria, la Slovenia, la Slovacchia, la Repubblica Ceca, la Polonia, la Lituania e la Lettonia) nell’Unione europea, questa non ci appare più come un blocco di paesi fortemente legati tra loro e appartati da tutti gli altri, ma come la quasi totalità del continente che si va componendo a unità, sia pure con qualche elemento ancora isolato e, s’intende, con le grandi distese dell’Ucraina e della Russia fuori dal quadro. Dall’annuncio di quella notizia, posando l’occhio sulla carta geografica avvertiamo che una nuova immagine dell’Europa viene decisamente a sostituire quella a cui ci avevano abituati fin dagli anni di scuola gli atlanti, con le loro aree dai colori nettamente differenziati e dai confini fortemente marcati. E sembrano invecchiare d’un colpo anche i nostri libri di storia, che ci hanno parlato a ogni pagina di scontri sanguinosissimi e di conflitti insanabili tra i popoli racchiusi in quelle aree. L’invasione nazista e sovietica della Polonia (1939), ad esempio, si allontana nel passato e va insieme piuttosto con la storia delle altre antiche, ormai irripetibili, spartizioni di quel paese. Gli inevitabili antagonismi tra tutti i paesi del continente si traferiranno ormai su un altro piano.

Credo che tutti i cittadini d’Europa, almeno quelli che dedicano qualche pensiero ai fatti collettivi, provino sensazioni del genere. Nella mente dei linguisti quell’annuncio ha prodotto, però, anche altri effetti. Chi conosce, anche solo a grandi linee, la storia linguistica europea coglie, nell’evento che stiamo commentando, i primi segni di un’avviata inversione di tendenza nel corso plurimillenario di quella storia. Il linguista non può sottrarsi, infatti, all’impressione che genera il vedere riunite per la prima volta in un’unica cornice – esile, per ora, ma pur sempre costituita da elementi concreti, come sono gli strumenti giuridico-politici ed economici – una gran parte della fin qui dispersa famiglia delle lingue indoeuropee. Molti dei rami che si sono staccati via via, in circa 4.000 anni, dall’originario tronco comune e da una patria comune (situata nell’Europa orientale) vengono ora a riconvergere e a intrecciarsi in modo nuovo. Perfino la presenza, in mezzo a questi popoli e nella loro rifondata famiglia, di quelli di ceppo linguistico del tutto diverso (maltesi, ungheresi, estoni tra i nuovi; finlandesi e baschi c’erano già) acquista un significato diverso: queste entità non sono più cunei insinuati ma tessere nuovamente identificate e collocate nello stesso mosaico.

Insistiamo sul fatto che, con l’accresciuto patrimonio di lingue da “gestire” non sarà più possibile navigare a vista o prendere decisioni alla svelta o in stanze riservate. A nessun comitato ristretto o altro organismo del genere deve esser data la facoltà di appiattire sotto il giogo di una, due o tre lingue egemoni un panorama così articolato, espressione viva e palpitante di tradizioni culturali che fanno tutt’uno con l’esistenza stessa di tanti popoli. Sarà dunque la volta che una materia così complessa e delicata non sia trattata in sedi puramente politiche. E' bene, a questo punto, che gli ambienti politici sappiano che le più rappresentative istituzioni linguistiche nazionali dei paesi dell’Unione (per l’Italia, l’Accademia della Crusca e l’Opera del Vocabolario italiano), dopo tre anni di consultazioni, nel giugno del 2002 si sono unite, a Bruxelles, in una Federazione europea delle istituzioni linguistiche nazionali e si sono dotate di un documento di base che prende il nome di “Raccomandazioni di Mannheim-Firenze” (dalle città dove si sono stretti gli accordi). Il documento enuncia, in dieci punti, i princìpi più appropriati per far affermare nell’Unione europea (ormai da considerare allargata) un plurilinguismo più libero e spontaneo. Il documento verrà via via presentato ai capi di Stato e di governo e sarà bene diffonderlo, da parte italiana, giusto in tempo prima del nostro turno di presidenza del Consiglio d’Europa (dal 1° luglio prossimo).

D’ora in poi anche la politica in “difesa” dell’italiano dovrà trovare una linea nuova e precisa. Ne parlo solo a conclusione di questo mio intervento proprio perché è sullo sfondo di questo nuovo orizzonte che anche noi dobbiamo impostare i termini di tale politica. Antepongo una questione che è propriamente di “politica interna”: di fronte al grande tema della salvaguardia del plurilinguismo europeo dovremmo finalmente prendere coscienza dell’importanza della nostra stessa lingua. Il tema richiederebbe una trattazione specifica, perché è ormai tempo di riconoscere che siamo tra i popoli più trascurati nell’uso della nostra lingua e più affetti da sfiducia nel suo valore. Ci sono ragioni nient’affatto nazionalistiche ma concretamente funzionali per ritenere di dover operare per modificare (non con leggi, non con “grammatiche di Stato”) il costume linguistico di tanta parte del nostro ceto elevato (quello che trascina con sé gli altri). Dico in breve: rendere più efficace l’azione della scuola e rendere più preparato e responsabile ogni operatore dei grandi mezzi di comunicazione.

Tornando alla prospettiva estera, credo che ci sia da creare di sana pianta una nostra squadra di esperti capace di seguire le complesse e continue evoluzioni del “mercato delle lingue”. Vorrei farmi perdonare l’uso di questa metafora mercantilistica richiamando ancora una volta il pensiero di un grande linguista del nostro tempo, il tedesco Harald Weinrich: "L’Europa è il continente che più degli altri del nostro pianeta è stato fatto dal logos", ossia dal pensiero elaborato nelle diverse lingue e diffuso dalle diverse lingue.

23 maggio 2003

(da Ideazione 2-2003, marzo-aprile)
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