Una testimonianza su Raymond Aron
di François Fejtö

Ho avuto la fortuna di incontrare il giovane Aron, più grande di me di cinque anni, già prima della guerra, all’inizio di quel mio soggiorno in Francia che all’epoca avevo considerato come provvisorio e che poi è diventato permanente. Ho fatto la sua conoscenza a casa di Clara Malraux, poco dopo la pubblicazione della sua tesi di dottorato, Introduction à la philosophie de l’histoire, da me letta con grande curiosità e meraviglia, tanto più che, in qualche modo, vi ero stato preparato dal pensiero di un filosofo ungherese, Karl Mannheim, al quale mi ero già interessato e che abbiamo poi scoperto essere nostro comune amico. Germanista, come Aron, e scrittore bilingue ben più noto in Germania che in Ungheria, Mannheim era diventato famoso grazie al suo libro intitolato Ideologia e utopia e collaborava alla rivista letteraria di cui sono stato condirettore a Budapest tra il 1935 ed il 1938. In quel periodo, ho consacrato un saggio al pensiero di Mannheim, imperniato, come quello di Aron, sul problema dell’obiettività, e dei suoi limiti, nella storiografia. Mannheim formulò il concetto di freischwebende Intelligenz, un termine difficile da tradurre. Si potrebbe parlare di una “intellighenzia libera da vincoli classisti”, che avrebbe il compito di comprendere ed interpretare, senza malanimo né partigianeria, la storia sempre più complessa e drammatica del nostro tempo nel modo più obiettivo possibile e senza rinunciare ai valori di libertà e dignità umana ereditati dall’Illuminismo. Raymond Aron, che in Germania aveva avuto come maestri Max Weber e Max Scheler e aveva frequentato Husserl e Heidegger, si è rivelato un interlocutore stupefacente, preparato ad affrontare una problematica del genere molto meglio di me, che ero di formazione letteraria più che socio-filosofica. Tra gli intellettuali francesi di sinistra che frequentavo in quel periodo nel salotto di Clara Malraux, nella redazione della giovane rivista Esprit e alle Edizioni Gallimard, a Rue Sébastien-Bottin n° 5, dove venni introdotto, ricorderò soltanto Georges Friedmann, Bernard Grœthuysen, Emmanuel Mounier, Georges Izard e Jacques Maritain, ma quello che meglio ha saputo comprendere il mio bagaglio ideologico è stato senz’altro Aron.

Di sinistra, di tendenze socialiste, profondamente segnato dal marxismo, Aron era perfettamente cosciente della minaccia di guerra che si profilava nei cieli della Germania nazista e, allo stesso tempo, dimostrava una rara lucidità di mente nel riconoscere l’essenza inquietante, e altrettanto totalitaristica, del comunismo sovietico. Mentre negli ambienti intellettuali e politici francesi, tanto di sinistra quanto di destra, ho potuto constatare una sorprendente cecità di fronte a questi due pericoli concomitanti, Aron ci ha visto chiaro, mostrando di non condividere le illusioni dei suoi ex amici pacifisti, che continuavano invece a credere al carattere limitato delle ambizioni di Hitler e riponevano le proprie speranze nell’efficacia di una politica distensiva. A proposito della visione del mondo prospettata da Aron nella sua Introduction à la philosophie de l’histoire, Baverez parla di una “scommessa pascaliana sulla ragione”. Purtroppo nella Francia di quel periodo ho conosciuto altri intellettuali, come Julien Benda che, nonostante una filosofia razionalista ben elaborata, avrebbero in seguito ceduto all’illusione di vedere nel “primo paese del socialismo” la terra promessa in cui il mondo avrebbe trovato la propria salvezza. A mio parere, oltre alla solida cultura filosofica e alla grande familiarità con Kant, ciò che ha permesso ad Aron, già alla fine degli anni ’30 ed anche in seguito, di rappresentare il prototipo di osservatore immune alle illusioni di moda è stata la sua naturale inclinazione a non giudicare mai senza essersi prima informato bene: l’intuito ispirava ogni suo ragionamento. 

Non mi ha stupito il fatto che si sia schierato dalla parte di de Gaulle nel 1940, né che a Londra abbia preso le distanze da alcune posizioni del generale. E’ stato con grande piacere che l’ho rivisto a Parigi nell’autunno del 1944, ancora una volta a casa di Clara Malraux, con cui avevo mantenuto i contatti durante tutto il periodo della Repubblica di Vichy e con la quale Aron era rimasto amico, nonostante la rottura verificatasi tra lei e lo scrittore de La condizione umana. Dal modesto posto che ho occupato presso l’Agence France-Presse dal novembre del 1944 ho seguito con interesse gli sforzi che Aron, prima insieme a Jean-Paul Sartre, con la creazione di Temps modernes, e poi con Albert Camus al quotidiano Combat nato dalla resistenza, ha compiuto in favore della nascita di un movimento di opinione di sinistra non comunista, di tendenza socialista e liberale, sebbene fossero sforzi destinati a fallire a causa della progressiva polarizzazione della vita intellettuale dovuta allo sviluppo di quella che è poi diventata la Guerra Fredda.

La separazione tra Aron ed il suo ex compagno della Scuola Normale Superiore ha assunto in Francia un significato simbolico. In molti hanno analizzato cause e conseguenze di tale rottura e pertanto non mi dilungherò troppo a riguardo. E’ stato un avvenimento che mi ha toccato da vicino, poiché conoscevo anche Sartre, di cui nel 1937 avevo tradotto il racconto Il muro4 per la nostra rivista ungherese, diventando così il suo primo traduttore in lingua straniera, e di cui, durante la guerra, avevo letto L’essere e il nulla5. Ammiravo Sartre come scrittore, un po’ meno come filosofo, ma nella disputa che mise fine alla sua collaborazione con Aron mi trovavo completamente d’accordo con quest’ultimo. Avevo mantenuto i contatti con gli amici socialisti che avevo in Ungheria e, ai miei occhi, la minaccia di una conquista sovietica del paese, dei paesi liberati-occupati dall’Armata Rossa, sembrava concretizzarsi sempre di più. Aron era sensibile a questa problematica, mentre per Sartre non esisteva nemmeno. Come lui, la stragrande maggioranza degli intellettuali francesi, anche non comunisti, non vedeva, o non voleva vedere, il pericolo che si profilava minaccioso ad Est e che disponeva di una testa di ponte all’interno della Francia stessa, nel potente apparato del partito che de Gaulle, dopo averne accettato per qualche tempo la partecipazione al governo, definì “le Parti de l’étranger” (“il partito estero”). Perché questa miopia, questa lunga cecità che ha permesso ai comunisti in Francia, e contemporaneamente anche in Italia, di esercitare per decenni, dopo la guerra, una specie di egemonia sulla vita culturale, sulle lettere, sull’arte, sul cinema, sull’università e che ha fatto di Aron, e di coloro che condividevano le sue opinioni, un fenomeno isolato, solitario, quasi messo al bando dall’intellighenzia del paese?

La scelta non-conformista 

Voglio soffermarmi un attimo su questo interrogativo che, da allora, mi è stato rivolto di frequente non soltanto dai miei amici dell’Europa centro-orientale, che hanno avuto un’esperienza più diretta delle diverse realtà comuniste, ma anche da molti giovani francesi che avevano raggiunto l’età della riflessione politica dopo la grande svolta degli anni ’70. Per tentare di spiegare ciò che anch’io consideravo un’anomalia nel paese di Cartesio, Montesquieu e Tocqueville, citerò la risposta che mi diede Sartre nel 1957 quando gli chiesi perché, dopo aver protestato l’anno prima contro la repressione dell’insurrezione ungherese da parte dell’esercito sovietico, fosse tornato, poco dopo, ad occupare il suo posto presso l’Associazione per lo sviluppo dei rapporti franco-sovietici ed avesse manifestato la propria solidarietà con i comunisti. “Cerchi di capire, mi disse. Per cambiare radicalmente il sistema capitalistico in Francia, per fare la rivoluzione, non è facile fare a meno dei comunisti, che costituiscono la maggior parte della classe operaia”. 

Sartre, al quale veniva rimproverato l’atteggiamento passivo assunto durante l’occupazione tedesca, si unì agli intellettuali della resistenza, che, profondamente traumatizzati dalla sconfitta del 1940, avevano ripudiato l’idea di una restaurazione del regime parlamentare decadente che aveva fallito di fronte al nazismo. Sebbene fossero lontani dal comunismo e tra loro si contassero numerosi cristiani, questi intellettuali avevano sognato un rinnovamento fondamentale del paese dopo la guerra, una rivoluzione politica e sociale. E’ esattamente ciò che mi spiegavano i miei amici della rivista Esprit, ed in particolare Emmanuel Mounier, fondatore del personalismo d’ispirazione cattolica, che era in concorrenza con l’esistenzialismo di Sartre: “Vediamo migliaia di giovani francesi intrisi dei valori della resistenza – scriveva Mounier – partigiani tornati dai campi di concentramento che si iscrivono sempre più numerosi all’unico partito in cui pensano di trovare disciplina virile, senso storico, grandezza ed efficacia”. Le sue parole riflettevano bene il fascino incredibile che il Partito comunista esercitava sugli intellettuali giovani e meno giovani a maggioranza borghese o piccolo-borghese, a proposito dei quali Jules Romains, già prima della guerra, aveva fatto notare come fossero alla ricerca di una nuova Chiesa, dopo aver perduto la fede in quella vecchia. I comunisti si proponevano come i campioni del rinascimento patriottico francese e l’opinione pubblica li riteneva sinceri.

Eppure, e posso testimoniarlo di persona, la fiducia che questi patrioti riponevano nel pacifismo e nell’umanismo ostentati dal regime sovietico non era esente da dubbi. Gli intellettuali attivamente impegnati nel sostenere il Partito si chiedevano, a volte persino pubblicamente, se “il male totalitario non si fosse impossessato del comunismo”. Erano disgustati dall’atteggiamento perentorio, arrogante e dogmatico dei loro interlocutori, da quello che Mounier definiva il “clericalismo comunista”. Già nel 1946, e cioè molto prima del 1975 e dello choc provocato dalle rivelazioni di Solzenicyn, avevano udito molte “voci” che parlavano di deportazioni, campi di lavoro ed esecuzioni di massa in Urss. Ma quando chiedevano spiegazioni in merito ai loro amici comunisti, quando arrivavano persino a domandare “in che misura la Russia sovietica avesse risvegliato il vecchio imperialismo zarista” e si stupivano nel constatare “l’assoluta coincidenza delle decisioni del Partito comunista francese con la volontà dello Stato sovietico” (cito un articolo di Mounier apparso su Esprit nel 1946), si lasciavano docilmente ricondurre all’ovile dall’inconfutabile argomento dei comunisti: “Se volete davvero fare la rivoluzione, se volete che la Francia si liberi dal giogo americano, non avete scelta”. Nel momento in cui la presenza dell’Armata Rossa e l’atteggiamento passivo dell’Occidente permettevano ai comunisti di insediarsi al potere nell’Europa centro-orientale, la maggior parte degli intellettuali francesi si lasciava intimidire da questo tipo di ricatto, dalla chimera di una rivoluzione indispensabile che i comunisti agitavano davanti ai loro occhi.

Non Raymond Aron. Assolutamente lucido per quanto riguardava le responsabilità dell’espansionismo sovietico nella Guerra Fredda, seguendo la propria scienza e la propria coscienza, oltre ai consigli del suo amico Malraux, Aron, uomo di sinistra, filosofo, geloso della propria indipendenza intellettuale, entrò a far parte, come editorialista, della redazione del Figaro, che, paragonato al Monde di Beuve-Méry, tendenzialmente neutralista e di sinistra, veniva considerato il giornale rappresentativo della destra liberale anticomunista e fautrice del Patto atlantico. Per paradossale che possa sembrare in una Francia di democrazia pluralista, si trattava di un atto di grande coraggio intellettuale e grande perspicacia. Certo, il rischio che Aron aveva deciso di affrontare era di ben altra natura rispetto a quello che correvano e avrebbero corso gli intellettuali dissidenti dei paesi dell’Est, i quali, per il proprio anticonformismo, rischiavano rappresaglie da parte della polizia, ma egli dovette soffrire a lungo a causa della propria scelta: divenne il bersaglio di continue calunnie e venne isolato da gran parte dell’élite intellettuale alla quale avrebbe voluto far arrivare il suo messaggio di verità. Devo dire che io stesso e la maggior parte dei miei amici della sinistra non comunista, se non addirittura anticomunista, esitavamo ancora, almeno fino al 1948-49, a rinunciare alla nostra idea prediletta, quella che potesse esistere per l’Europa una terza via intermedia tra il collettivismo ed il capitalismo di tipo americano. Raymond Aron, invece, si impediva, come ha dichiarato lui stesso, di riflettere sull’auspicabile indipendentemente dal possibile. E’ stata la sua filosofia della storia a guidare la sua attività di giornalista, commentatore ed interprete degli avvenimenti, un’attività che si fondava su un’analisi dei fatti il più precisa possibile. Sempre prudente e moderato, la sua fermezza risultava ancor più irritante per i suoi avversari proprio perché serena e priva di fanatismo.

Ho riallacciato i contatti con lui dopo il processo Rajk, che mi ha fatto uscire dall’apoliticità impostami dalle mie responsabilità di giornalista d’agenzia. In quel periodo Aron dirigeva una collezione di testi politici per le Edizioni Calmann-Lévy. Su consiglio di un comune amico, lo scrittore Manès Sperber, gli portai il progetto di un libro ancora da scrivere sulla bolscevizzazione dell’Ungheria. Aron mi ricevette con simpatia, lesse con attenzione il progetto e restituendomelo disse: “Non è male, ma l’Ungheria è un piccolo paese, uno dei piccoli paesi bolscevizzati del bacino danubiano. Quel che dovrebbe fare, quel che ci manca, è un saggio sulla sovietizzazione dell’insieme dei paesi satelliti”. Ho seguito il suo consiglio, nonostante il sentimento di timore che mi incuteva l’enormità del compito che mi attendeva e che mi sarebbe costato più di due anni e mezzo di lavoro portato avanti al di fuori delle mie funzioni di commentatore degli avvenimenti del mondo comunista presso l’Agence France-Presse oltre che autore di numerosi articoli per giornali francesi e stranieri. Alla fine è stato all’editore della rivista Esprit, e direttore delle Edizioni Seuil, Paul Flamand, che ho affidato la mia opera, da lui intitolata, un po’ ambiziosamente, Storia delle democrazie popolari6, che ha finito per ottenere un certo successo in Francia e in una decina di altri paesi. La scelta di questo editore è stata dettata da considerazioni di carattere ideologico più che economico. 

Esprit, la rivista di Emmuanel Mounier e Jean-Marie Domenach, si era mostrata solidale con me quando, nel 1949, avevo condotto una campagna di delucidazione sui processi e le purghe avvenuti nell’Europa centro-orientale, attirandomi le ire della stampa comunista e l’ostilità di molti intellettuali fedeli al Partito. Era al pubblico di questa rivista, a quello del settimanale di sinistra France Observateur, predecessore dell’attuale Nouvel Observateur, che avevo destinato in primo luogo il mio libro, nel quale, astenendomi da qualsiasi polemica, avevo detto tutto ciò che sapevo sulla realtà della vita politica, economia e culturale dei paesi dell’Europa centrale e balcanica. E credo di aver avuto ragione. Qualche anno più tardi, Raymond Aron mi disse: “Lei sa, probabilmente, che nelle mie lezioni all’Istituto di Studi politici, parlando dei paesi satelliti, mi sono basato molto sul suo libro”. Lo sapevo, ma il fatto che me l’avesse detto mi fece molto piacere. “L’ho scritto proprio nella speranza che potesse servire a questo scopo”, gli risposi. Poi, complimento per complimento, ma con grande sincerità, aggiunsi che scrivendo il mio libro, e quelli che l’avrebbero seguito, avevo imparato molto da lui, dal suo metodo di trattare gli avvenimenti analizzandone la specificità, sistemandoli nel loro contesto storico e tenendo sempre presente l’evoluzione del rapporto di forze internazionali, che spesso scuoteva le convinzioni moralistiche degli storici.

Da un lato gli eccessi del maccartismo negli Stati Uniti e, dall’altro, l’irrigidirsi dello stalinismo, con purghe e processi, e la violenza della campagna contro la Jugoslavia di Tito hanno reso sempre più difficile la situazione degli esponenti della sinistra europea che, pur avendo già abbandonato tutte le loro illusioni circa la natura repressiva ed espansionistica del regime sovietico, continuavano ad essere disgustati dall’anticomunismo eccessivo della propaganda americana. All’inizio degli anni ’50, la creazione del Movimento internazionale per la libertà della cultura, per iniziativa di un certo numero di liberali americani, ha contribuito a chiarire le diverse posizioni. Sulle pagine delle riviste sponsorizzate dal Movimento nei vari paesi europei (Preuves in Francia, Encounter in Gran Bretagna, Tempo presente in Italia, ecc.), esponenti liberali, come Raymond Aron, Albert Camus o Denis de Rougemont, ed ex comunisti convertiti alla democrazia, come Arthur Koestler, Stephen Spender, George Orwell o Ignazio Silone, potevano esprimersi in tutta libertà e assumere posizioni tipiche dell’opposizione, contro il colonialismo, smentendo l’impressione corrente secondo cui l’appoggio degli Stati Uniti andava quasi esclusivamente alla destra europea. Nel 1955, la pubblicazione dell’opera magistrale di Raymond Aron, L’oppio degli intellettuali, ha segnato una svolta nella storia intellettuale francese in un momento in cui i movimenti di democratizzazione in Polonia ed Ungheria, dopo un primo disgelo nella Russia post-staliniana, testimoniavano già una grave crisi ideologica all’interno del movimento comunista internazionale.

L’Unione Sovietica: russa o comunista?

Quanto a Raymond Aron, si interessava prima di tutto della natura e delle motivazioni che si trovavano alla base dell’azione internazionale dell’Unione Sovietica, di cui aveva sottolineato, già prima dell’inizio della Guerra Fredda, il carattere totalitario ed espansionistico. Ma non ha mai perso di vista il destino dei paesi a “sovranità limitata” dell’Europa centro-orientale. Sapeva che la sorte di questi era stata decisa se non proprio a Yalta, come generalmente si dice, per lo meno in quello stesso periodo. In effetti, l’autodeterminazione degli Stati, riaffermata verbalmente negli accordi tra i vincitori, è stata sacrificata nel momento in cui l’Unione Sovietica è entrata in guerra contro il Giappone. Ciò che è apparso scandaloso in questo negoziato è il fatto che, secondo il parere di esperti come Jean Laloy, ex ambasciatore francese in Urss che potevo annoverare tra i miei amici, ed il suo collega Jean-Marie Soutou, ex collaboratore della rivista Esprit, molto probabilmente l’Unione Sovietica sarebbe intervenuta in Estremo Oriente anche senza che le venisse fatta questa enorme concessione.

“Se permettiamo a questi paesi di organizzare delle elezioni libere, si doteranno di governi antisovietici”, avrebbe detto Stalin ad un diplomatico occidentale che gli aveva chiesto ingenuamente perché fosse tanto ostile alle elezioni libere. Fatto sta che nel 1948 tutti questi paesi vennero a trovarsi sotto la guida di un Partito comunista sostenuto dalla potenza sovietica e che Stati Uniti e Gran Bretagna si rassegnarono a vedere l’Europa divisa. Una volta ottenuto il potere, i Partiti comunisti dettero il via ad una rivoluzione dall’alto. Aron ci invitò a riflettere anche su questo: l’Urss non avrebbe potuto agire altrimenti, permettendo una libera competizione tra i partiti, rispettando l’indipendenza dei sindacati e così via? “Non era fisicamente o politicamente obbligata a sovietizzare l’Europa dell’Est,” disse. E’ l’Austria ad averne fornito la prova. Aron avrebbe anche potuto citare il caso finlandese. Paesi fortunati, questi, il cui destino aveva fatto invidia a cechi, ungheresi e polacchi: sono stati in grado di conservare (l’Austria nonostante la prolungata presenza dell’Armata Rossa) una struttura sociale e delle istituzioni politiche di tipo occidentale. 

Ciò di cui Aron si era reso conto era il fatto che l’Unione Sovietica non aveva soppresso formalmente la sovranità degli Stati dell’Europa orientale. Il mantenimento dell’esistenza giuridica degli Stati riservava, per il futuro, la possibilità di una crescente autonomia. Questo era ciò che egli prediceva. In effetti, si è potuto constatare, durante le crisi del 1956, del 1968 e del 1980, come vari elementi del pluralismo (quali Parlamenti, coalizioni politiche, sindacati e organizzazioni professionali, utilizzati dal Partito come “cinghie di trasmissione” verso la società civile) si siano trasformati come per magia in istituzioni indipendenti dal Partito. Aron si era anche reso conto di come fosse impossibile affidare agli Stati l’apparato amministrativo e giuridico della sovranità senza che i loro dirigenti non fossero tentati, un giorno o l’altro, di ottenere una certa autonomia, che avrebbe poi condotto molti di loro verso un tipo di comunismo nazionale. I limiti dell’autonomia concessa dalla potenza egemonica erano variabili. All’Ungheria di Kádár verrà permesso di evolvere verso un socialismo di mercato, ma le verrà sconsigliato, ad esempio, di intervenire in favore della minoranza ungherese della Transilvania, maltrattata dal governo di Bucarest. Secondo Aron, tuttavia, l’autonomia concessa alle élite comuniste, se pure limitata, era stata in grado di attenuare l’impopolarità dei regimi e di rinforzarne il carattere nazionale. L’evoluzione successiva al 1949 dimostrerà che i valori tradizionali delle società civili dei popoli dell’Est erano stati repressi, ma non soppressi.

Aron pose anche un altro interrogativo che preoccupò molto le élite dei paesi dell’Est: la politica estera dell’Unione Sovietica era russa o comunista? Ungheresi e polacchi vi si sono interessati in modo particolare. I primi non hanno dimenticato che è stato l’intervento della Russia zarista a permettere la repressione dell’insurrezione del 1848-49 contro gli Asburgo. Quanto alla Polonia, la sua storia è costellata di scontri con la Russia. L’ideologia marxista-leninista ha fornito una nuova legittimazione ed obiettivi più ampi all’espansionismo russo, ma non l’ha certo inventato. La subordinazione a Mosca dei paesi dell’Europa orientale “rispondeva ad una tradizionale ambizione del panslavismo”, disse Aron in Pace e guerra tra le nazioni. Tuttavia, numerose azioni del Cremlino al tempo di Stalin, come la campagna contro la Jugoslavia lanciata nel 1948, sono state viste come illustrazioni del primato delle considerazioni ideologiche su quelle diplomatiche. “Lo scontro russo-jugoslavo avrebbe avuto luogo se i due Stati non si fossero fatti forte di una stessa ideologia?” si chiese Aron. La risposta corretta a tale domanda era che i sovietici stavano giocando sia la carta della diplomazia classica, presupponendo che l’Urss fosse uno Stato come gli altri, preoccupato della propria sicurezza e del proprio prestigio, sia quella dell’ideologia, che poneva l’Unione Sovietica come base per la distruzione del capitalismo e la realizzazione di un’egemonia mondiale del comunismo. L’Urss era quindi sia russa che comunista. 

Nel 1956, in occasione dell’insurrezione ungherese, sono entrate in gioco entrambe queste componenti. Sono stati lo Stato sovietico, rappresentato dal suo esercito, ed il Partito sovietico, responsabile del movimento comunista mondiale, a decidere di intervenire per dimostrare che “i paesi satelliti saranno, se necessario, richiamati all’ordine con la forza”. Aron ha giudicato con severità il comportamento dell’Occidente di fronte agli avvenimenti del 1956. Secondo lui, il non intervento occidentale nell’ottobre-novembre del 1956 e la spietata repressione sovietica hanno tragicamente confermato la capacità e la ferma volontà sovietica di salvaguardare, a dispetto di tutto e di tutti, l’autorità di Mosca nell’Europa orientale. L’Urss non era pronta a tollerare in Ungheria né l’instaurazione di un regime pluripartitico né la proclamazione di una neutralità di tipo austriaco. Allo stesso tempo, la dominazione russa in Europa orientale apparve per quello che realmente era, e cioè fondata sulla nuda forza. 

Negli anni Cinquanta, la diplomazia del blocco atlantico abbracciava una politica aggressiva, rifiutandosi teoricamente di accettare la sovietizzazione dell’Europa orientale ed incoraggiando alla rivolta le popolazioni sottomesse. Ma, contemporaneamente, adottava una strategia essenzialmente difensiva: gli Stati Uniti manifestavano la propria intenzione di rispettare la suddivisione del mondo in zone di influenza. Poi ci fu la crisi di Suez, che Aron fu uno dei primi osservatori europei a definire pubblicamente inopportuna. Mettendo a profitto le contraddizioni occidentali ed il “razzismo incosciente” degli asiatici, i sovietici riuscirono a distogliere l’attenzione del mondo dall’Ungheria. Gli Stati Uniti mobilitarono la loro clientela all’Onu contro francesi e britannici, ma non contro i sovietici. “L’Unione Sovietica ha il diritto di impiegare la forza contro l’Ungheria; la Francia e la Gran Bretagna non hanno lo stesso diritto nei confronti dell’Egitto”, constatò malinconicamente Aron. Poi aggiunse: “Il peggio è che, dal punto di vista politico, questa mostruosità morale non è priva di giustificazioni”. A dispetto della simpatia che nutrivano nei confronti dei “combattenti ungheresi per la libertà”, gli Stati Uniti, confusamente, rimproveravano loro di averli costretti a scegliere tra un’astensione poco onorevole ed un intervento poco prudente. In realtà, gli americani continuavano a sognare uno stato di distensione duraturo nel rispetto dello status quo. Il loro obiettivo era quello di contenere, e non di respingere, l’Unione Sovietica.

Nel suo Delle libertà, pubblicato nel 1965, Aron tornò a parlare dell’insurrezione ungherese, “l’unica rivoluzione antitotalitaria del secolo”. “Assomiglia molto – disse – a quella che sognava Marx nel 1843, nessuna rivoluzione più di quella ungherese del 1956 si è mai avvicinata tanto, per obiettivi ed aspirazioni, alla rivoluzione del 1848”. La Rivoluzione ungherese era, prima di tutto, una rivoluzione a carattere nazionale. Tuttavia, le “libertà formali, tanto disprezzate dai marxisti, costituiscono ormai l’obiettivo dei movimenti popolari”. Contro lo Stato totalitario, le libertà formali, simili a quelle che rivendicavano le rivoluzioni borghesi, tornavano a rappresentare il grosso delle aspirazioni popolari. Pertanto, per Aron gli avvenimenti del 1956 assumevano un valore dimostrativo maggiore di quello che potevano avere tutte le teorie sociologiche di moda in quel periodo. Ungheresi e polacchi erano insorti tanto contro il basso tenore di vita o i privilegi della “nuova classe” quanto contro la menzogna organizzata e la tirannia dello Stato.

Dopo il 1956, Aron sarà uno dei primi filosofi-sociologi occidentali a teorizzare ciò che il nostro comune amico Miklós Molnár chiamò “vittoria di una sconfitta”. Aveva intuito che, a qualche anno dalla repressione, l’uomo di fiducia del Cremlino in Ungheria, János Kádár, avrebbe intrapreso una strategia di riconciliazione con la nazione. La nuova politica economica ungherese permise il progressivo aumento del tenore di vita, ma non risolse i problemi fondamentali. Nel 1968, la Primavera di Praga confermò, secondo Aron, la lezione del 1956 ungherese. L’aspirazione alla liberalizzazione si espresse inizialmente all’interno del Partito stesso. Ma l’esperienza dubcekiana, se pure molto moderata, divenne presto inaccettabile agli occhi dei sovietici: vedevano un pericolo mortale nella libertà di stampa, che permetteva di dire di tutto e di chiamare le cose con il loro nome. In poche parole, Aron colse l’essenza del tragico destino della Primavera di Praga. 

Raymond Aron e la “colpa” di “aver avuto ragione”

Un’altra osservazione formulata da Aron riguardava l’evoluzione ideologica. Constatò che il blocco sovietico aveva perso la battaglia delle idee. Nessuno metteva più in dubbio che, se si fossero tenute delle elezioni libere con più partiti, tutti i paesi dell’Europa orientale avrebbero optato per un regime democratico. E Aron, piuttosto pessimista, aggiungeva: “In entrambi gli schieramenti, tutti sanno anche che passerà molto tempo prima che si possano tenere elezioni di questo tipo”. Eppure, come si è visto in Jugoslavia, Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia, sovietizzazione e russificazione hanno fallito. Sul piano culturale, i popoli dell’Est hanno fatto grandi progressi nel recupero della propria identità storica nazionale. Sentivano la solidarietà dell’Occidente. Alla morte di Aron, gli intellettuali dell’ “altra Europa” sapevano di aver perso con lui un grande occidentale che aveva seguito le loro battaglie con simpatia fraterna. Per tornare alle previsioni sull’evoluzione del mondo sovietico, Raymond Aron condivideva la conclusione che, nel secondo tomo della mia Storia delle democrazie popolari, pubblicato nel 1969, ho tratto dagli eventi accaduti in Cecoslovacchia: non ci si sarebbe potuti aspettare un vero cambiamento nella situazione delle democrazie popolari finché un legislatore del tipo di Imre Nagy o Alexander Dubcek non fosse apparso al centro del sistema stesso, al Cremlino. Sono dovuti passare una ventina d’anni prima che una tale mutazione si verificasse e l’Unione Sovietica, sotto la guida di Gorbaciov, rinunciasse alla propria egemonia sui paesi dell’Europa centro-orientale. 

In questi vent’anni, Raymond Aron intensificò la propria attività fino a raddoppiarla, pubblicando diverse delle sue grandi opere universali, raggiungendo l’acme della sua influenza sul mondo intellettuale francese. E’ stato riconosciuto vincitore di quella lotta ideologica che, per un quarto di secolo, aveva portato avanti con tanta tenacia ed altrettanto stoicismo. Ho avuto la possibilità di assaporare con lui i frutti di questa sua vittoria. Al fine di sostituire la rivista Preuves, che aveva cessato la propria attività, e di fornirgli un organo di stampa, alcuni dei suoi giovani discepoli crearono prima la rivista Contrepoint nel 1970 e poi, nel 1978, la rivista Commentaire. Mi hanno fatto l’onore di richiedere la mia collaborazione, domandandomi di entrare a far parte del comitato promotore e direttivo. Poi, nel 1973, le stesse persone, unendosi ai miei studenti dell’Istituto di Studi politici, mi hanno fatto gran festa quando ho sostenuto l’esame per l’abilitazione alla libera docenza, occasione in cui Raymond Aron, che presiedeva la commissione esaminatrice, ha espresso la sua simpatia nei miei confronti in un modo che andava contro la sua abituale riservatezza. In seguito, quando ho accettato, dopo essermi ritirato dall’Agence France-Presse, di dirigere provvisoriamente la sede parigina del quotidiano liberale milanese il Giornale, creato dal nostro comune amico Indro Montanelli, Raymond Aron, come Jean-Claude Casanova, come Eugène Ionesco ed Émile Cioran, i miei due amici rumeni, e come Jean-François Revel, ha sostenuto in modo energico gli sforzi che ho compiuto per garantire ai suoi articoli e alle sue interviste un posto di rilievo sulle pagine di tale quotidiano.

“E’ forse colpa mia se ho sempre avuto ragione?” ha chiesto un giorno Raymond Aron, a metà tra il serio e lo scherzoso, ad un giornalista che lo interrogava sul lungo periodo durante il quale la sua influenza era stata eclissata da quella di Jean-Paul Sartre, idolatrato dalla gioventù intellettuale nonostante si fosse sistematicamente sbagliato non appena si avventurava al di fuori della letteratura, campo in cui era un vero maestro, per inoltrarsi sul terreno ideologico e politico. Ed è vero che nel comprendere gli avvenimenti del Ventesimo secolo, nei grandi dibattiti cui aveva partecipato, Aron si è sbagliato raramente e, nel caso in cui le sue analisi e previsioni si siano poi rivelate errate, non ha mai mancato di fare la propria autocritica. Non si può dire lo stesso di Sartre. Nel corso degli ultimi anni della sua vita, in seguito alla pubblicazione delle sue Memorie e del suo libro-intervista L’etica della libertà, nessuno ha più contestato ad Aron la posizione di guida intellettuale pressoché infallibile. In un secolo dominato da scontri ideologici, è riuscito a pensare la storia e la politica restando fedele ai propri ideali e mantenendosi contemporaneamente realista. Nel ruolo di studioso e storiografo, con la grande passione di capire e far capire, fece dell’imparzialità l’imperativo più assoluto. L’obiettività, di cui teorizzava i limiti e che rappresentava la sua più grande preoccupazione, non gli ha impedito di militare per le cause che riteneva giuste, partecipando, ad esempio, ai movimenti per la difesa dei diritti dell’uomo, come il Comitato di sostegno a Solidarnosc, o all’Internazionale della resistenza democratica, creata dal dissidente russo Bukovsky, o al Comitato “Una barca per il Vietnam”. 

“Nella misura in cui è liberale, ha detto, la nostra civiltà è anche una civiltà di cittadini e non soltanto di consumatori e produttori”. A mio avviso, questa sera ho l’onore di inaugurare un seminario che dimostrerà chiaramente come l’opera di Aron, che ha anche toccato la problematica dell’era post-comunista di fine secolo, rimanga tuttora di grande attualità. A questo proposito, vorrei citare alcune frasi esemplificative tratte da un articolo scritto da Aron nel 1962 a proposito del dibattito euro-americano, che conserva tutto il suo interesse anche all’inizio del nuovo secolo: “L’Europa occidentale non può rassegnarsi ad uno status permanente di paese protetto. Ma possiede i mezzi per assicurare la propria difesa? L’Europa dovrà accettare il monopolio dell’egemonia americana? La prima domanda a cui è necessario rispondere riguarda le relazioni che esisterebbero tra una possibile forza europea e quella americana. Non bisogna escludere la possibilità di un accordo, realizzabile a partire dal momento in cui gli Stati Uniti ammetteranno che hanno lo stesso interesse a trattare con un’Europa unita e forte tanto in materia di sicurezza quanto in ambito economico. Quel giorno starà agli europei creare un’unità politico-militare capace tanto di intrattenere dei rapporti di solidarietà totale con gli Stati Uniti quanto di restituire all’Europa un proprio ruolo sulla scena mondiale”. Queste righe avrebbero potuto essere pubblicate in data di oggi, senza cambiare una sola parola, sulla rivista aroniana Commentaire, sul numero autunnale del 2000 che ho qui tra le mani e nel quale il politologo polacco-americano Zbigniew Brzezinski tenta di chiarire i malintesi che turbano le relazioni tra gli Stati Uniti, accusati di velleità egemoniche, e questa Europa sul punto di allargarsi, che cerca di affermare una propria autonomia per la quale ci si continua a chiedere se sia pronta. 

(traduzione dall’inglese di Sarah Del Meglio)

25 aprile 2003

(da Ideazione 2-2003, marzo-aprile)


stampa l'articolo