La società industriale e la guerra
di Raymond Aron

Vent’anni rappresentano poco nella storia, ma molto nella vita di una persona. Ho quindi riletto lo studio, scritto in occasione di una Auguste Comte Memorial Lecture, con distacco, come se fosse stato scritto da un altro. Non senza qualche imbarazzo qui e là, per una ragione evidente: il soggetto non è cambiato, gli eventi degli ultimi vent’anni non dovrebbero modificare le basi della nostra ricerca. La revisione non avrebbe quindi perduto il carattere di un’autocritica; ora, un’eventualità che rigettavo verso un lontano avvenire appartiene già al presente o a un avvenire vicinissimo. Ma terminiamo questo preambolo e, siccome i lettori non hanno tutti letto il saggio del 1958, ricordiamone il tema e le tesi. Auguste Comte impiegava il concetto di società industriale; un concetto che, al momento presente, è tornato comune per designare il tipo di organizzazione sociale che si sta imponendo all’avanguardia dell’umanità, che a sua volta si diffonderà poi nel resto del mondo. Il nuovo tipo di organizzazione risulta dall’oggetto al quale si applicherà l’attività degli uomini: o la natura, o gli altri uomini. O l’attività si esercita, pacifica, nel lavoro e nello sfruttamento delle risorse offerte dall’ambiente, oppure l’attività si esercita, guerriera, a spese dei nostri simili, in vista del bottino o della riduzione degli altri in schiavitù. Al termine della fase transitoria, il lavoro avrà respinto la guerra, perché questa avrà perduto ogni funzione.

Certo, durante la fase transitoria – e Auguste Comte non ne precisava la durata – l’industria e la guerra non si escludono: a volte l’industria era messa al servizio della guerra e viceversa. L’industria deve il suo primo sviluppo ai bisogni della guerra: le manifatture rispondevano alle esigenze dello strumento militare. In seguito, questo si mobilita in vista delle conquiste che favoriranno l’espansione del commercio e della produzione. Nella fase finale, la guerra sparirà, né fine né mezzo dell’industria: l’umanità consacrerà la sua attività al lavoro pacifico. L’idea centrale – l’industria comporta, a lungo termine, la pacificazione – si esprime, nel secolo scorso, in molte scuole di pensiero. I socialisti, innanzitutto i marxisti, mettono le guerre sul conto del capitalismo e prevedono contemporaneamente il socialismo della pace universale. Molti liberali fondano le loro speranze sulla Repubblica degli scambi. Le conquiste, la colonizzazione, non creano profitto, dal momento che solo il lavoro, illuminato dalla scienza, crea realmente ricchezza. L’originalità di Comte sta nel ridurre la portata storica dell’opposizione fra capitalismo e socialismo: la pace non verrà né dal libero scambio, né dal socialismo, ma dal carattere comune a tutte le economie del nostro tempo, dal lavoro industriale.

Oggi come vent’anni fa, rifiuto queste visioni ireniche. L’esperienza dei centocinquant’anni trascorsi dalla redazione del Corso di filosofia positiva ha respinto sia l’ottimismo liberale o socialista, sia l’ottimismo industrialista. I regimi socialisti hanno altrettanti motivi di conflitto con i regimi capitalisti che con i regimi che si rifanno al socialismo ma interpretano diversamente la dottrina comune. Secondo la formula di A. Comte, le guerre di principio – nel linguaggio odierno, le guerre politiche – appartengono alla fase transitoria. Per immaginare la pacificazione universale bisogna immaginarsi popoli e stati convertiti alla stessa verità, politica e religiosa. Non riprendo la discussione sulle teorie marxiste o leniniste: mi basta riferirmi all’attualità, alle relazioni fra la Cina popolare e l’Unione Sovietica, fra la Repubblica popolare del Vietnam e la Repubblica popolare di Cambogia. Qualunque sia la parte dell’ideologia (o dei principi) nella rivalità cino-russa, nessuno dubita che più che il revisionismo dell’Unione Sovietica sia la sua volontà di egemonia a provocare l’inquietudine e la reazione dei dirigenti cinesi. Le controversie storiche fra Vietnam e Cambogia affiorano oggi, nonostante l’affinità di principi proclamata dall’uno e dall’altro. L’ottimismo dei liberali e dei socialisti attingeva, mi sembra, alla stessa fonte: la società industriale, liberale o socialista, eliminerebbe necessariamente la classe guerriera. Perché una società governata da industriali o banchieri, da uomini di dialogo o di commercio, dovrebbe essere portata alla guerra? Esplicitamente o no, tutti gli ottimisti riprendono lo stesso argomento: è la combinazione fra i vecchi valori marziali, incarnati dalla classe guerriera, e i mezzi dell’industria a perpetuare le ostilità. J. Schumpeter e T. Veblen osservavano la stessa combinazione in Germania e in Giappone. Schumpeter credeva, almeno in gioventù, che la vittoria della borghesia sui Junkers e sui loro valori avrebbe segnato una tappa decisiva sulla strada della pace. I nobili dell’Ancien Régime non calcolavano il prezzo della guerra, servivano incondizionatamente il loro re e signore; il borghese calcola il prezzo. E il calcolo non spinge più alle avventure di conquista.

Vent’anni fa come oggi, l’argomento non mi convince. Senz’altro, le guerre somigliano alle società da cui emanano. Ma la storia non suggerisce che la guerra viene fatta solo dagli stati che contengono una classe guerriera. Tutti i cittadini di Atene partecipavano ai combattimenti. Solo in alcune società arcaiche esistevano caste di guerrieri; nella maggior parte di esse, tutti gli adulti partecipavano ai combattimenti. Nei tempi moderni, cittadinanza e coscrizione si sono sviluppate simultaneamente. A mano a mano che gli armamenti attingevano sempre più alla scienza, l’inquadramento esigeva più ufficiali con cultura scientifica. Lo spirito degli ingegneri si impone con le armi tecniche, le flotte e l’aviazione. Un’interpretazione assolutamente contraria a quella degli ottimisti, quella di Oswald Spengler per esempio, si sta diffondendo: la volontà faustiana di dominio non si limita allo sfruttamento della natura, ma si estende anche all’interno degli stati e nelle loro relazioni reciproche. La pace tramite il lavoro si fonda su un’illusione, un errore di base: l’industria violenta la natura, vuole addomesticarla, ne penetra i segreti. Signore e possessore della natura, l’uomo troverà la pace altrimenti che con l’impero universale? Gli stati rinunceranno a regolare le loro controversie con la violenza, incitati alla moderazione o al compromesso dal calcolo ragionevole del costo e del profitto?

Pessimismo?

Spingerei quindi oggi il pessimismo (e il rifiuto dell’ottimismo comtiano) più lontano che vent’anni fa. Infatti, dopo aver rigettato la tesi di Comte (e anche quella di Lenin), riprendevo, per un avvenire indeterminato, le prospettive di Comte o, perlomeno, sottoscrivevo certe sue tesi. La prima, molte volte sostenuta, si riassume nella formula: la guerra, la conquista non paga più. Si direbbe ancora: il possesso coloniale costa alla metropoli. Queste proposizioni sono ancora valide oggi? Definitivamente? Vent’anni fa scrivevo: «Fin quando gli stati si sospettano reciprocamente di piani ostili, sono pronti a garantire, fosse anche con la forza, il loro approvvigionamento in energia e metalli. Si concepisce anche che le guerre ridiventino (a lunga scadenza) giustificabili il giorno in cui le riserve di materie prime non dovessero più bastare ai bisogni di tutti». Aggiungevo: «Quest’ultima eventualità è a lungo termine. Le altre eventualità non scuotono la proposizione fondamentale: l’irrazionalità di ogni grande guerra all’epoca della civiltà industriale, purché l’intera umanità abbia avuto accesso al processo cumulativo di arricchimento». A che punto siamo oggi?

Auguste Comte considerava che le guerre nell’avvenire non avrebbero più assolto le funzioni del passato. Ai suoi occhi, la conquista rese possibile la formazione di vasti spazi di sovranità. Le nazioni possiedono oggi il loro dominio legittimo e le loro funzioni (pensava all’Europa). Comte prevedeva le guerre di colonizzazione, che condannava (con un’eccezione: l’impero britannico, che tollerava per motivi particolari, mentre denunciava la conquista francese in Algeria). Dovremmo chiederci se, in Africa per esempio, la formazione di autentiche nazioni non esigerà anch’essa delle guerre. Infine, a sostegno di un’ipotesi ottimista, consideravo l’esistenza delle armi nucleari. La capacità mostruosa di distruzione concentrata in queste armi non peserebbe sulla bilancia del destino? Immaginiamo gli uomini, nell’avvenire, simili a quelli di ieri: l’arma nucleare distoglierà gli uomini di stato da imprese nello stile di Napoleone e Hitler, e contemporaneamente li preserverà dalla rassegnazione al destino, tipica di molti protagonisti durante gli ultimi giorni di luglio 1914?

La guerra e le materie prime

Quando rileggo il mio testo del 1958, sono colpito dall’impatto che gli eventi che vivevo avevano sulla mia analisi e sul mio stato d’animo. 1958: la guerra d’Algeria, il ritorno al potere del generale de Gaulle. Avevo pubblicato, nel 1957, un opuscolo in cui difendevo il diritto dell’Algeria all’indipendenza. Fra gli argomenti principali, figurava il calcolo economico. Mi sforzavo di dimostrare che la metropoli non poteva più governare le colonie come nel secolo scorso, e che il costo degli investimenti necessari all’aumento del livello di vita di una popolazione il cui numero aumentava rapidamente rappresentava per la Francia un pesante fardello. In quel caso particolare, non ammettevo senza riserve o sfumature una proposizione generale. Ricordavo che la colonia ideale del Ventesimo secolo è un deserto, con un minimo di popolazione sul suolo e il massimo di petrolio nel sottosuolo. Oggi, i miei contraddittori di vent’anni fa insistono più che allora sul valore del petrolio del Sahara. Non penso che l’aumento del prezzo del petrolio dal 1973 giustifichi in retrospettiva i difensori dell’Algeria francese. Ma l’evento svela un aspetto del problema che non avevo ignorato ma sottostimato.

Durante questo quarto di secolo di miracolo economico, siamo stati tutti portati a parlare il linguaggio degli economisti e a ignorare quello degli ecologisti. Per gli economisti, la produzione risulta dal capitale e dal lavoro, e si calcola la produttività di entrambi. Per gli ecologisti, la produzione industriale risulta dalla trasformazione delle materie prime grazie all’energia, di cui il lavoro degli uomini non costituisce che una debole parte. Finché si considerano illimitate le materie prime e l’energia, la mancanza di energia e di materie prime sopra o sotto un suolo si riduce a una questione di bilancia dei pagamenti. Il pagamento del petrolio del Sahara in franchi riduce il volume di valuta straniera che il Paese deve acquisire con le esportazioni. Bisogna però che il prezzo nazionale del petrolio, in ragione del costo di sfruttamento, non sia superiore al prezzo mondiale. Dal 1973, questo rischio è scomparso e la localizzazione dei giacimenti di petrolio e delle materie prime in generale acquisisce una nuova portata.

Nel contesto attuale, i paesi trasformatori di materie prime, cioè tutti i paesi europei e la Francia più degli altri, dipendono dall’arrivo regolare, a un prezzo prevedibile, delle importazioni indispensabili. Nessun Paese sviluppato ha pensato seriamente a un intervento militare quando il prezzo del petrolio venne quadruplicato. Gli stati industrializzati si sottomisero al cartello degli stati petroliferi, per motivi molteplici e convergenti. L’Arabia Saudita controlla in un certo modo il cartello. Gli Stati Uniti mantengono buone relazioni con la famiglia reale che, religiosa e conservatrice, paventa l’espansione comunista quanto il presidente americano. Una spedizione militare contro un aumento di prezzo, almeno parzialmente legittimo, avrebbe alienato all’Occidente tutti gli stati del Golfo. Una simile, azzardata spedizione avrebbe potuto, nell’immediato, aggravare la penuria di petrolio. Non commettiamo oggi lo stesso errore di vent’anni fa. Il cartello del petrolio, i cartelli delle altre materie prime, hanno modificato il tasso dei cambi, imposto una tassa alle economie sviluppate; i paesi petroliferi accumulano ogni anno decine di miliardi di dollari (una trentina nel 1978) che, investiti nel sistema bancario occidentale (soprattutto americano) vengono prestati agli stati debitori. Questo riciclaggio dei petrodollari non ha finora provocato una catastrofe. Non è nemmeno certo che il rallentamento dell’espansione degli stati occidentali sia imputabile essenzialmente al prezzo dell’energia. Fra paesi produttori e paesi consumatori, il conflitto economico – o gli interessi opposti – non è degenerato in guerra. Nemmeno i paesi consumatori hanno litigato fra loro. L’embargo nei confronti di alcuni di questi (Stati Uniti, Paesi Bassi) non ha comportato nessuna conseguenza.

Sarebbe così anche se l’offerta di energia diventasse inferiore alla domanda sul piano mondiale, se la fine delle risorse non rinnovabili, evocata dal primo rapporto del Club di Roma, si manifestasse effettivamente? Nessuno si arrischia a rispondere categoricamente. Per il momento, nessun governo occidentale agisce come se credesse ai rapporti degli esperti. Secondo questi, l’aumento della domanda di petrolio (calcolata in funzione di un calo del rapporto fra il tasso di crescita e il tasso di aumento del consumo di energia) porterà, in una data compresa fra il 1985 e il 1995, a un deficit irriducibile delle risorse di idrocarburi. Né l’energia nucleare, né le energie sostitutive, nel corso dei prossimi dieci-quindici anni porteranno un contributo sufficiente per colmare il deficit. Solo il carbone, da qui alla fine del secolo, permetterà il prosieguo della crescita dei paesi industrializzati e di quelli in via di sviluppo.

In questa congiuntura prevista e, ad ogni modo, prevedibile, la distinzione fra i paesi industrializzati trasformatori di materie importate e i paesi industrializzati detentori di energia e materie prime si acuirebbe nuovamente e ci riporterebbe in un’era di neomercantilismo. La dottrina liberoscambista si sviluppava nel mondo che gli economisti si rappresentavano. L’ossessione di mancare di metallo prezioso è svanita, così come lo sbarramento malthusiano all’aumento della popolazione sembrava essere stato abbattuto dall’immensità delle terre vergini dell’emisfero occidentale. Quando la Gran Bretagna accettò di dipendere, per la sua alimentazione, dall’importazione da paesi esteri e sovrani, la Royal Navy regnava sugli oceani e gli europei non si urtavano da nessuna parte a una grande potenza militare. L’economia mondiale si è formata senza impero mondiale ma, fino al 1974, il predominio americano esercitava una funzione paragonabile a quella della Gran Bretagna nel secolo precedente. Gli Stati Uniti mantengono il primo posto: uguaglianza militare con l’Unione Sovietica, uguaglianza economica o tecnica con il Giappone e l’Europa.

Il giorno della penuria energetica, i due stati continente, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, si ritroverebbero, una volta di più, in una situazione privilegiata. Anche se i due grandi non trovano nel loro sottosuolo tutti gli idrocarburi che consumano (gli Stati Uniti importano oggi il 50 per cento del petrolio che consumano, l’Unione Sovietica è ancora esportatrice, ma potrebbe diventare importatrice da qui a una decina d’anni), sono sempre loro a detenere i giacimenti carboniferi più importanti. Ora, il carbone segnerà probabilmente la transizione fra gli idrocarburi e le altre forme di energia suscettibili di rimpiazzare il petrolio. Il possesso del suolo e del sottosuolo, sminuito dalla visione liberoscambista, riprenderà il valore che gli uomini gli attribuivano nel passato. Bisogna temere il ritorno di guerre che avrebbero per posta il sottosuolo di entità politicamente sovrane? In circa venticinque anni, fra l’indipendenza dell’India e il dissolvimento dell’ultimo impero europeo, quello portoghese, un centinaio di stati sono stati accolti alle Nazioni Unite. La Francia ha combattuto due guerre, ciascuna per otto anni, in Indocina e in Algeria, nella vana speranza di fermare il corso della decolonizzazione. In ultima analisi, è l’incarnazione del nazionalismo francese, il generale de Gaulle, che ruppe questa resistenza condannata e cambiò il senso dell’abbandono, battezzato da un colpo vittorioso su se stesso.

Né la colonizzazione, né la decolonizzazione francesi in Africa si spiegano facilmente con motivi propriamente economici. Lo sbarco francese ad Algeri, alla vigilia della caduta della dinastia legittimista, non era dettato, nello spirito di Carlo X o dei suoi consiglieri, da prospettive economiche o demografiche a lungo termine. Allo stesso modo, la spartizione dell’Africa nell’ultimo quarto del XIX secolo non era determinata né dalle contraddizioni del capitalismo, né dalle ambizioni dei dirigenti d’impresa, né dai bisogni stimati da questi. La colonizzazione della fine del XIX secolo rappresentava, per così dire, l’ultima fase dell’espansione europea. Il riflusso fu ancora più rapido di quanto non fosse stato il flusso. Il riflusso fu determinato dalla grande guerra del 1939-‘45, dalla perdita di rango delle metropoli europee, dall’ascesa degli Stati Uniti, che professavano un anticolonialismo radicale, dal risveglio dei popoli un tempo sottomessi, dalla diffusione dei principi per i quali gli alleati avevano combattuto e che loro stessi violavano. Quando il governo Attlee decise l’indipendenza dell’India e del Pakistan per il 1948, il vecchio argomento dei liberali, “le colonie non pagano”, non pesava sulla decisione del Gabinetto. La Gran Bretagna in guerra aveva promesso l’indipendenza all’India; non poteva né voleva rimangiarsi la parola data. L’indipendenza dell’India comportò quella delle altre colonie asiatiche. Senza l’Armata delle Indie, le posizioni britanniche nel vicino oriente crollarono. La spedizione di Suez non fu che un incidente irrazionale che accelerò il movimento che doveva bloccare.

La decolonizzazione fu, per certo, favorita dalla prosperità occidentale. I Paesi Bassi non furono arricchiti dalla perdita del loro impero in Indonesia, ma dimostrarono magnificamente la tesi liberale secondo cui la ricchezza della metropoli non dipendeva né dallo sfruttamento dei possessi d’oltremare, né, comunque, dal mantenimento della sovranità imperiale. Alcuni dicono, o direbbero, che il neocolonialismo lascia alle metropoli i vantaggi economici senza gli oneri politici delle colonie. Le relazioni fra i paesi industrializzati e gli altri paesi, la visione liberoscambista, la crescita della zona industrializzata rendevano senz’altro più accettabile la liquidazione degli imperi – liquidazione alla quale W. Churchill non voleva presiedere. Ma, al di fuori da questo inevitabile contesto economico, le democrazie occidentali non credevano più alla loro missione civilizzatrice, ne avevano perduto la forza e la volontà, mentre tutti i popoli d’Asia e d’Africa avevano acquisito la forza e la volontà di rendere la gloria di regnare costosa, al punto che le società mercantili ne avrebbero rigettato il fardello. La penuria di petrolio può certo sconvolgere il bilancio dei costi e dei profitti. Ma dovrebbe forse restaurare, in Europa e negli Stati Uniti, il senso imperiale? Gli europei sono sprovvisti dei mezzi necessari a grandi spedizioni contro l’uno o l’altro dei maggiori paesi petroliferi. La risposta non è così certa per quanto concerne gli Stati Uniti. Supponiamo che ufficiali progressisti, simpatizzanti del campo sovietico, eliminino la famiglia reale saudita e prendano il potere; supponiamo che il nuovo regime crei, dall’oggi al domani, una penuria sul mercato mondiale del petrolio, riducendo di metà la produzione saudita. Cosa farebbe il presidente americano? Senza prevedere niente, poniamo la domanda: per i prossimi dieci anni, lo stato del mercato petrolifero dipende dai governanti di Riyad, nel senso che questi possono far salire i prezzi o stabilizzarli. Al di là, possono creare, o lasciare che si crei, una crisi sia dei prezzi che della quantità. Gli Stati Uniti replicherebbero con le armi o no?

L’idea che vorrei suggerire è, in ultima analisi, banale. Nel corso degli ultimi trent’anni, la forza militare non sembra aver conservato la sua efficacia diplomatica. In Vietnam, gli americani hanno perso la guerra senza aver impiegato tutti i mezzi di violenza. Gli stati più potenti ostentano rispetto verso la sovranità dei più piccoli. Anche l’Unione Sovietica camuffò il suo intervento militare in Cecoslovacchia con la partecipazione di distaccamenti di altri paesi socialisti. Formalmente, gli alleati del Patto di Varsavia – la comunità socialista – decisero di combattere insieme la controrivoluzione del partito comunista ceco. Nulla permette di prolungare verso l’avvenire questo rispetto apparente, talvolta ostentato, della sovranità dei piccoli da parte dei grandi. Rispetto forse più apparente che reale, se i grandi influiscono sulla politica dei piccoli tramite i rispettivi clienti, con l’aperta propaganda e con l’azione clandestina. Ma i grandi esitano a utilizzare l’ultima ratio; la diplomazia delle cannoniere è passata di moda e i metodi più sottili si rivelano vani. Se dei paesi industrializzati fossero minacciati di catastrofe economica da un cartello di paesi produttori di materie prime, forse non esiterebbero a ricorrere ai metodi spicci del passato. Forse la rivalità fra i compratori provocherebbe altrettanti rischi di guerra dello shock fra venditori e acquirenti. Nel 1973, i compratori hanno fatto blocco e le grandi compagnie hanno diviso il petrolio in modo conforme agli imperativi dei paesi produttori e in modo equo per tutti gli acquirenti, compresi quelli colpiti dall’embargo arabo. Non si può dunque affermare, ma nemmeno escludere, che in caso di penuria i paesi compratori si accorderebbero su un’equa ripartizione.

L’accesso politico alle materie prime

Malgrado tutto, va da sé che il vecchio problema - l’accesso alle materie prime - tante volte discusso negli anni Trenta, torni d’attualità. La Carta Atlantica menzionava già il principio del libero accesso alle materie prime, come se questa libertà non fosse acquisita per tutti. Ora, negli anni Trenta, l’accesso alle materie prime non costituiva un vero problema, a meno che non si intenda con ciò la difficoltà di alcuni paesi di guadagnare con le loro esportazioni la valuta necessaria per gli acquisti di materie prime. Non esisteva, in quegli anni, il rifiuto di vendita da parte degli stati produttori, né l’embargo diretto contro determinati paesi. Tutto si riconduceva alla questione dei prezzi e delle bilance dei pagamenti. In alcuni casi, dei cartelli hanno mantenuto il prezzo delle materie prime al di sopra dei prezzi di mercato. Ma, nell’eventualità di penuria di certe materie prime o di costituzione di cartelli dei paesi produttori, i paesi industrializzati si preoccupavano dell’accesso alle materie prime in due sensi: evitare la ripartizione arbitraria della penuria da parte dei produttori, limitare gli aumenti di prezzo manipolati dai cartelli dei produttori. In questo modo, i paesi detentori di materie prime rappresenterebbero, nella rivalità fra i grandi, obiettivi sempre più importanti. Certo, un Paese africano il cui presidente e il suo partito parlano un linguaggio marxista-leninista non per questo rifiuta di vendere le sue materie prime a uno stato capitalista. La battaglia per l’Africa, che si svolge ormai da qualche anno, interessa ora i due grandi per due motivi: le riserve di materie prime e le vie marittime dalle quali passano i cargo e, in particolare, le petroliere.

La localizzazione delle materie prime, per gli Stati Uniti, presenta un significato solo in una visione non liberale dell’economia mondiale o nell’eventualità della guerra. Allo stesso modo, il controllo delle rotte marittime crea un pericolo solo nell’ipotesi della guerra. Qualunque sia il termine con il quale si qualificano i rapporti fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, nessuna delle due flotte interrompe il traffico civile o militare dell’altra. È nell’ipotesi di una guerra aperta che la flotta sovietica potrebbe, con ogni evidenza, bloccare il flusso del petrolio del Golfo persico verso l’Europa occidentale. Se si immagina una guerra prolungata, queste basi darebbero al campo sovietico dei vantaggi strategici, ma si può dubitare che una guerra in Europa occidentale possa durare a lungo. Sarà decisa in poche settimane, o in pochi giorni. Anche se iniziata con armi classiche, richiederà presto l’impiego di armi nucleari. Il giorno in cui scoppierà una guerra fra le due coalizioni europee, l’enormità degli armamenti disponibili dalle due parti, la potenza distruttrice delle armi nucleari, non impedisce di immaginare un conflitto prolungato.

Quale conclusione si può trarre da queste analisi, o piuttosto da queste ipotesi? Meno il liberoscambismo sembra assicurato, più l’accesso politico alle riserve di materie prime diventa problematico; allo stesso tempo, l’orientamento diplomatico o ideologico dei paesi produttori guadagna in significato strategico e diventa una posta fra i grandi. In astratto, si potrebbe dire che il domani riprodurrebbe ieri o l’altro ieri; gli incitamenti alla guerra suscitati dalla concorrenza commerciale in un mondo di penuria, dove il guadagno dell’uno eguagliava la perdita dell’altro, potrebbero ripresentarsi nell’avvenire, nella misura in cui le previsioni del Club di Roma dovessero realizzarsi, sia pur parzialmente. La fase transitoria, secondo l’espressione di A. Comte, rischia dunque di prolungarsi al di là degli anni o dei secoli necessari all’estensione alla specie umana del regime positivista o industriale.

E l’impero terrestre dei russi?

Nelle pagine precedenti, non ho rifiutato l’argomento corrente durante il periodo di decolonizzazione: l’impero non paga. Argomento vero per le democrazie occidentali, non necessariamente sempre e ovunque. Era, è ancora valido nel caso della Russia, per un impero terrestre non frazionato? Salta agli occhi che, spogliato dai popoli allogeni, l’impero russo sarebbe irrimediabilmente indebolito. Con i paesi baltici e l’Ucraina indipendenti, con i turchi dell’Asia centrale staccati da Mosca, forse i Grandi russi manterrebbero o eleverebbero il loro livello di vita: perderebbero però il loro status fra le nazioni, la loro capacità di azione all’esterno. La ragione economica dei liberali sembrerebbe loro irrisoria. Certo, la Gran Bretagna, spogliata del suo impero, in primo luogo dell’India, è caduta al rango di media potenza, dipendente da chi controlla l’aria e i mari. Rimane la distinzione essenziale tra impero terrestre e impero marittimo. Persino una Gran Bretagna governata secondo pratiche autoritarie paragonabili a quelle di Mosca non avrebbe probabilmente mantenuto i suoi possedimenti d’oltremare. I governanti di Mosca eliminano di tanto in tanto le velleità di nazionalismo borghese nelle repubbliche allogene; aprono la carriera, sia in queste repubbliche autonome che a Mosca, ai non russi. 

Nulla di simile era concepibile nell’impero britannico o in quello francese. Non vi si concepiva l’equivalente del dualismo, plurinazionalità e cittadinanza sovietici. Ciò che ho aggiunto all’analisi di vent’anni fa è lo sviluppo di un’osservazione fatta quando la corsa al tasso di sviluppo era scatenata: cosa succederebbe se l’energia e le materie prime venissero a mancare o diventassero rare o costose? Certo, in alcuni casi, il costo del mantenimento dell’ordine continuerebbe ad essere maggiore del vantaggio di comprare una materia prima con la propria moneta nazionale. Ma nell’eventualità prevista di un’offerta di energia o, perlomeno, di idrocarburi insufficiente per soddisfare la domanda, i paesi produttori beneficerebbero di un vantaggio immenso. Un obiettivo economico di guerra ridiventerebbe plausibile. Anche se le grandi guerre, nella nostra epoca, non sono state causate dalla ricerca di mercati o di risorse, una delle ragioni d’ottimismo che proponevo vent’anni fa cade da sola: la visione liberale del libero scambio e la vanità delle conquiste territoriali non rappresentano necessariamente la verità dell’avvenire.

La pace tramite l’atomo?

Cosa ne è stato del secondo argomento che rafforzava il primo, e cioè le distruzioni mostruose che provocherebbero le armi moderne, in particolare le armi nucleari? La formula di Lord Russell “i mali che si vuole prevenire con la guerra sono minori dei mali della guerra”, che ho sempre contestato, diventa vera nell’era nucleare? Come proposizione generale, non è più vera oggi di quanto non lo fosse ieri: se la conquista precede il genocidio, i mali della guerra non possono sorpassare quelli della disfatta o della sottomissione. Gli anni vissuti dalla fine della guerra hanno suggerito alcune proposizioni plausibili: i due stati possessori delle armi nucleari si sono ingegnati a ridurre i rischi di un confronto diretto e armato. Fintanto che nessuno dei due può sperare di disarmare il suo rivale, la rappresentazione semplificata dei due lottatori, che cercano di abbattersi l’un l’altro, non corrisponde alla realtà. Siccome gli Stati Uniti, anche quando disponevano di una superiorità incontestabile sull’Unione Sovietica nel campo delle armi nucleari, non hanno mai minacciato offensivamente il grande rivale né i suoi alleati, si è concluso che le armi sarebbero utilizzate solo come ultimo ricorso e difensivamente. Anche qui, le estrapolazioni mi sembrano più incerte.

Gli strateghi americani hanno preso come punto di partenza la funzione dissuasiva delle armi nucleari. Non hanno mai, o quasi, riflettuto sull’impiego offensivo (nel senso politico del termine) di queste armi. Siccome l’ipotetica aggressione viene dall’Est, la domanda era di sapere con quale minaccia si sarebbe pervenuti a dissuadere l’altro. Inoltre, si cercava di capire come impedire l’“ascesa agli estremi” se, per incidente o all’occasione di un conflitto, dovessero scoppiare le ostilità. Beninteso, gli strateghi speculavano anche sui mezzi per non perdere la partita, ma la loro attenzione si fissava più sui mezzi per evitare l’uso delle armi nucleari che sui mezzi per raggiungere i propri obiettivi. La riflessione strategica si riferiva, con uno slittamento forse inevitabile, alla situazione che, con qualche sfumatura, è rimasta la stessa. I due grandi si oppongono l’uno all’altro in funzione delle loro ideologie rispettive, in funzione del posto che ognuno di loro occupa nel sistema. Al tempo stesso, nessuna passione nazionale innalza i popoli l’uno contro l’altro; senza frontiera comune – tranne, a rigore, al Polo Nord – si scontrano in mezzo all’Europa e in altri continenti dove le loro truppe non sono presenti. 

Era plausibile, e lo è ancora, che i due grandi desiderino evitare lo shock che sicuramente costerebbe loro caro, all’uno come all’altro. Da qui le due domande che l’attuale letteratura specialistica americana implicitamente considera centrali: come dissuadere o, in caso di bisogno, respingere senza ascesa agli estremi un attacco dall’Est contro l’Europa occidentale? Come condurre la rivalità con l’Unione Sovietica nel resto del mondo senza perdere pedine e senza impiegare le armi nucleari? Finora, i dirigenti dell’Unione Sovietica hanno accettato queste regole non scritte. Le comunicazioni dirette fra le due capitali, gli accordi sulla limitazione degli esperimenti nucleari e degli armamenti strategici risultarono da iniziative americane. Allo stesso modo, gli sforzi per evitare l’allargamento del club atomico vennero dagli Stati Uniti ben più che dall’Unione Sovietica. Questa aiutò, all’inizio, i lavori degli scienziati cinesi. Si sa che l’accordo di cooperazione cino-sovietico, concluso nel 1957, fu denunciato da Mosca nel 1959, dopo la crisi di Quemoy e Matsu del 1958. Se il governo sovietico si è comportato, nell’insieme, secondo uno stile paragonabile a quello degli Stati Uniti, non bisogna però dimenticare che la letteratura militare sovietica non ha mai seguìto la stessa via di quella americana. Gli autori sovietici non mettono l’arma nucleare, per così dire, fuori legge. Non scrivono che la guerra nucleare sarebbe fine del mondo o cesserebbe di essere, secondo la formula clausewitziana-leninista, la continuazione della guerra con altri mezzi. 

Per ristabilire l’equilibrio fra la grandezza degli obiettivi e l’intensità delle ostilità, suppongono che la guerra nucleare avrebbe luogo il giorno in cui la lotta fra i due campi, capitalista e socialista, sarebbe decisa definitivamente. Al di là di queste considerazioni politico-filosofiche, gli scrittori militari sovietici studiano le modalità di un attacco contro l’Europa occidentale ? Come condurre la rivalità con l’Unione Sovietica nel resto del mondo senza perdere pedine e senza impiegare le armi nucleari? Finora, i dirigenti dell’Unione Sovietica hanno accettato queste regole non scritte. Le comunicazioni dirette fra le due capitali, gli accordi sulla limitazione degli esperimenti nucleari e degli armamenti strategici risultarono da iniziative americane. Allo stesso modo, gli sforzi per evitare l’allargamento del club atomico vennero dagli Stati Uniti ben più che dall’Unione Sovietica. Questa aiutò, all’inizio, i lavori degli scienziati cinesi. Si sa che l’accordo di cooperazione cino-sovietico, concluso nel 1957, fu denunciato da Mosca nel 1959, dopo la crisi di Quemoy e Matsu del 1958. Se il governo sovietico si è comportato, nell’insieme, secondo uno stile paragonabile a quello degli Stati Uniti, non bisogna però dimenticare che la letteratura militare sovietica non ha mai seguìto la stessa via di quella americana. Gli autori sovietici non mettono l’arma nucleare, per così dire, fuori legge. Non scrivono che la guerra nucleare sarebbe fine del mondo o cesserebbe di essere, secondo la formula clausewitziana-leninista, la continuazione della guerra con altri mezzi. 

Per ristabilire l’equilibrio fra la grandezza degli obiettivi e l’intensità delle ostilità, suppongono che la guerra nucleare avrebbe luogo il giorno in cui la lotta fra i due campi, capitalista e socialista, sarebbe decisa definitivamente. Al di là di queste considerazioni politico-filosofiche, gli scrittori militari sovietici studiano le modalità di un attacco contro l’Europa occidentale. Ora, mentre gli americani moltiplicano le distinzioni fra le armi per poter prevenire l’ascesa agli estremi, i sovietici considerano l’impiego immediato e simultaneo delle armi per assicurare il successo dell’offensiva. Quali sono le reali intenzioni dei dirigenti sovietici? Quegli scritti esprimono il pensiero di qualche autore o i concetti del grande stato maggiore? Il secondo termine dell’alternativa mi sembra più probabile del primo. Supponendo che i sovietici vogliano correre un giorno il rischio di un attacco contro l’Europa occidentale, dubito che si asterrebbero dall’impiego di armi nucleari tattiche – a condizione, beninteso, che queste armi diano un contributo sostanziale al successo. Le analisi americane pongono l’accento sulla separazione fra armi classiche e armi nucleari. Separazione intelligibile nell’ipotesi di ostilità scoppiate incidentalmente, senza intenzione, da una parte o dall’altra. Ma lo scenario favorito dai sovietici è ben diverso: se la guerra scoppia, le truppe del Patto di Varsavia scateneranno simultaneamente tutti i loro mezzi per distruggere i centri di comunicazione e controllo e paralizzare la risposta delle armi nucleari tattiche. 

Ciò che dissuaderà gli Stati Uniti dal rispondere con bombardamenti sulle città sovietiche è la prevedibile risposta di bombardamenti sovietici sulle città americane. Gli attacchi reciproci sui missili dell’avversario, qualunque ne sia il risultato, lasceranno a entrambi i contendenti i mezzi per passare allo stadio supremo: la distruzione delle città. Queste osservazioni non riguardano i progetti sovietici. Portano solamente a un giudizio più pessimista riguardo alle conseguenze delle armi nucleari sulla frequenza delle guerre. Dal 1945, è vero, nessuna arma nucleare è stata impiegata sul campo, né utilizzata per una minaccia esplicita. Tutt’al più, la dissuasione si definiva con la minaccia condizionata di usare queste armi – condizione che dipendeva dagli altri per non essere realizzata. Gli accordi russo-americani si limitano agli armamenti strategici. Si basano su un’eguaglianza o un’equivalenza approssimativa. Suggeriscono così una sorta di neutralizzazione reciproca. Più che mai, le ostilità possono svolgersi al di sotto della forma di guerra mortale per i belligeranti.

Pacificazione o pericoli accresciuti?

Certo, delle ostilità fra paesi industrializzati, anche in assenza di bombardamenti di città, comporterebbero distruzioni e perdite di vite umane enormi. Nel contesto attuale, l’aggressione totale contro l’Europa occidentale richiederebbe dei rischi che gli uomini esiterebbero a prendere. Ma per giudicare la probabilità o l’improbabilità, bisogna riferirsi meno ai dati tecnici che agli obiettivi politici e alla psicologia dei dirigenti. Non è più vero oggi di ieri che “la guerra non paga”. Se il III Reich avesse vinto la guerra, la Germania, signora dell’Europa, avrebbe guadagnato, anche sul piano economico, più di quanto non avrebbe speso. I tedeschi, quasi tutti, avrebbero incassato materialmente, e non soltanto politicamente, i vantaggi dello status di popolo imperiale. Non è dimostrato che l’Unione Sovietica pagherebbe un prezzo eccessivo per l’unificazione sotto la sua legge dell’Europa dagli Urali all’Atlantico. 

In altri termini, riduco ancora maggiormente la portata dell’argomento che proponevo, con esitazione, trent’anni fa. Grandi guerre fra paesi industrializzati rischiano di essere costose oltre ogni misura; i paesi industrializzati sul punto di soccombere potranno, se dispongono di armi nucleari, impiegarle contro le città nemiche – anche se commetterebbero, così facendo, una sorta di suicidio. Infine, l’aumento del numero di stati detentori di armi nucleari apre un’altra prospettiva. Quindi, dobbiamo parlare di pacificazione o di pericoli accresciuti? Siamo già usciti dalla congiuntura del duopolio puro: le forze inglesi e francesi non modificano fondamentalmente il faccia a faccia delle due Europe. Per il momento, il governo francese non ha l’intenzione di mettere la capacità di dissuasione nucleare al servizio di un interesse esterno al territorio nazionale. L’esistenza della forza francese costituisce un fattore d’incertezza per l’eventuale aggressore, specialmente per il Patto di Varsavia. I sovietici agirebbero per primi, bombardando le basi dei sottomarini lanciamissili o l’altopiano di Albion? Lasciamo da parte queste speculazioni. Diciamo che queste due medie forze, entrambe capaci di un secondo colpo, non sconvolgono il gioco portato avanti da un quarto di secolo dai due grandi. 

La prossima fase, già iniziata, verrebbe caratterizzata da una gerarchia di potenze nucleari: grandi (Stati Uniti, Unione Sovietica), medie (Francia, Gran Bretagna, Cina), piccole (India, forse Israele e domani Pakistan, Corea del Sud, Brasile). Su questo tema, due opinioni estreme si oppongono: una, minoritaria, sostiene che la proliferazione nucleare contribuirebbe alla pacificazione, per l’altra, massicciamente maggioritaria, la moltiplicazione di forze nucleari vulnerabili, senza il controllo di squadre tecniche di alta qualità, creerebbe dei punti caldi, dei focolai permanenti di angoscia. Se si considera il solo breve termine, la tesi pessimistica convince maggiormente. Non che si debba scartare l’argomento banale: qualunque uomo di stato che possieda l’arma nucleare, e ne comprenda la forza distruttrice, non può non esitare prima di prendere decisioni suscettibili di scatenare il fulmine. Non bisogna nemmeno dimenticare che Moltke il giovane scriveva al suo sovrano, alla fine di luglio 1914, che la civiltà non avrebbe resistito alla guerra, e la considerava allo stesso tempo inevitabile. La “banalizzazione” delle armi nucleari aumenterà la probabilità di un’esplosione accidentale; forse anche, secondo uno scenario oggi popolare, gruppi subnazionali, terroristici, potrebbero tentare un ricatto, minacciando di far scoppiare una bomba nucleare. A lungo termine, la probabile proliferazione nucleare trasformerà il sistema internazionale e moltiplicherà i rischi di guerra, ma non per forza di guerra apocalittica.

(© Commentaire e per l’Italia Ideazione. 
Traduzione dal francese di Pierluca Pucci Poppi)

25 aprile 2003


(da Ideazione 1-2001, gennaio-febbraio)



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