La pace bellicosa
di Raymond Aron

Dal giorno in cui l’ammiraglio Dönitz firmò la resa della Germania, i cannoni hanno taciuto in Europa. Da quando le bombe di Hiroshima e Nagasaki fornirono all’Imperatore del Sol levante l’occasione di “risparmiare i suoi popoli” e di salvare la faccia nonostante la capitolazione, non ci si batte più in Asia. Non c’è più guerra: oseremo dire che siamo in pace? Non alludiamo ai conflitti, nonostante tutto secondari, tra Francia e Vietnam, tra Olanda e Repubblica indonesiana. Anche dopo l’armistizio del novembre 1918 scoppiarono guerre locali fino al 1922: fra Polonia e Russia, fra Turchia e Grecia. La guerra, come le grandi perturbazioni atmosferiche, trascina dietro di sé delle “code di tempesta”. Se la pace non osa dire il suo nome è perché, appena scomparso il nemico comune delle Nazioni unite, la divisione degli Alleati è tale da autorizzare speculazioni sull’eventualità di una nuova conflagrazione mondiale. Un tempo, si era abituati a un periodo di tregua all’indomani di una guerra. Questa normalmente forniva una soluzione, almeno provvisoria, ai litigi che ne avevano rappresentato l’origine e la posta. Fra la liquidazione di un problema e la nascita di un nuovo problema, passava qualche anno. Nel caso in cui il problema era suscitato dallo sconfitto, egli aveva bisogno di tempo per riprendersi dalla disfatta. Nel caso in cui il problema nasceva dalla rivalità fra i vincitori, questi trovavano generalmente un accordo transitorio. Questa volta, l’accordo transitorio appare inaccessibile. E nemmeno la stanchezza derivante dalla lotta appena finita impedisce, da ogni parte, un minaccioso tintinnare di sciabole. 

Che vi siano 60 o 100 divisioni sovietiche nei territori occupati, non importa poi tanto. L’importanza degli organici, mantenuti in stato di combattimento nella Russia stessa, non permette di determinare né le intenzioni dei dirigenti sovietici, né gli eventi probabili. Può essere, tutt’al più, una misura delle inquietudini percepite. Ma parole e realtà ci rivelano un elemento decisivo dell’attuale diplomazia: ogni negoziatore fa notare all’interlocutore avversario, con assordante discrezione, le risorse militari immediatamente disponibili. Per la Russia, la forza di eserciti che coprirebbero l’Europa nel giro di qualche giorno o qualche settimana; per gli Stati Uniti, le squadre navali o aeree, che bloccherebbero l’impero terrestre e manderebbero sul bersaglio bombe terrificanti. Si tratta di un metodo nuovo? In un senso, no. La diplomazia è sempre stata l’espressione civilizzata dei rapporti di forza. Nelle decisioni internazionali non esiste volontà che si imponga senza il ricorso, esplicito o implicito, alla forza. Ma la guerra, all’epoca in cui esisteva un concerto europeo, quando l’uomo manteneva il controllo della violenza, era il supremo ricorso e non l’argomento quotidiano. I ministri e gli ambasciatori, nei periodi tranquilli, fingevano di cercare un accordo equo, si preoccupavano in apparenza della giustizia e non del peso delle armi. E quando gli interessi vitali dell’uno o dell’altro entravano in gioco, ognuno comprendeva la necessità dell’accordo o la fatalità dell’appello alle armi. Niente di simile oggi. 

Qualunque sia l’oggetto della discussione, è sempre presente il rumore degli aerei o dei carri, come se la minaccia o il ricatto facessero parte dello stile diplomatico. Questo metodo, peraltro, implica una svalorizzazione dell’argomento militare. La bomba atomica appare come un mediocre strumento di negoziato. Gli arrangiamenti diplomatici non misurano, finora, la forza relativa delle parti. Perché? Logoramento del ricatto? Scetticismo dei popoli e dei capi, che credono forse alla potenza delle armi, ma non credono che vi sia la volontà di utilizzarle? Per esprimere il nostro pensiero in una parola, potrebbe darsi che la guerra sia per il momento altrettanto impossibile della pace, intendo la guerra guerreggiata o la pace stabile. Ciascuno sente, più o meno confusamente, che siamo entrati in un periodo di “guerra pacifica” o di “pace bellicosa”. Si scoprono lentamente le leggi di questo strano mondo.

Il bipolarismo

La forza militare si trova oggi monopolizzata da due stati multinazionali. stati-continenti, imperi o come li si vorrà chiamare. Questo monopolio discende da ragioni semplicissime. I mezzi militari richiedono una tecnica industriale e scientifica di livello elevatissimo e questa, a sua volta, presuppone un’enorme concentrazione di uomini e macchine. Quattrocento milioni di cinesi senza carri armati, radar o aviazione non sono che un oggetto della storia. Sei milioni di svizzeri, qualunque sia il loro equipaggiamento, rimangono comunque incapaci d’iniziativa e d’azione sul piano internazionale.

Questa congiunzione fra il livello tecnico e l’ampiezza delle risorse si trova realizzata, al momento attuale, solo in due stati: l’Urss e gli Stati Uniti. La Germania, con i suoi 75 milioni di abitanti, figura già in una classe inferiore. Un tempo, le sue conquiste iniziali e la sua lucida passione per le cose militari la innalzavano al livello dei più grandi: oggi essa è provvisoriamente fuori gioco. La Gran Bretagna, grazie alla sua posizione geografica e al dominio dei mari, ha giocato per tre secoli un ruolo sproporzionato rispetto all’entità della sua popolazione, ma i vantaggi di cui abilmente approfittava sono in via di sparizione. Il dominio dell’aria e dei mari è passato agli Stati Uniti. Il braccio di mare che separa l’Inghilterra dal continente, abbastanza largo da proteggerla e abbastanza stretto da permetterle un intervento terrestre, ha forse rappresentato per l’ultima volta nel 1940 un ostacolo efficace. Ha fermato i carri, non fermerebbe più le armi aeree. E una popolazione concentrata nelle città, come quella delle isole britanniche, è inevitabilmente vulnerabile. Anche se i suoi dominion e il suo impero permettono ancora alla diplomazia di Londra delle possibilità di azione ai quattro angoli del mondo, per l’essenziale la Gran Bretagna è ormai solidale con gli Stati Uniti. Nulla può eliminare questo semplice fatto: gli Stati Uniti sono in grado di fare la guerra quando lo vogliono; la Gran Bretagna non può fare la guerra che con l’aiuto, cioè con il consenso, degli Stati Uniti. 

Fino a quando l’Europa centrale e occidentale non sarà unificata politicamente, fino a quando le masse umane dell’Asia non avranno costruito stati solidi e una grande industria, il monopolio della potenza sembra destinato a non poter sfuggire ai suoi attuali detentori. Sembra quindi che, negli anni a venire, nel corso del periodo in cui normalmente la pace dovrebbe essere conclusa, due giganti, e due soli, si affronteranno attraverso l’intero pianeta. Non ne risulta ancora, si dirà, che questo bi-monopolio della potenza debba implicare per forza la rivalità assoluta fra i due beneficiari. E senz’altro si può concepire, in teoria, una divisione pacifica del mondo. Ancora oggi, la delimitazione delle rispettive sfere d’interesse è l’obiettivo a cui tende, più o meno confusamente, una parte importante dell’opinione pubblica americana. Le concezioni di Walter Lippmann, pur con molte riserve e sottigliezze, approdano a una divisione di questo genere. Ma la storia ci ricorderebbe, se ce ne fosse bisogno, che ogni volta che Ottaviano e Marco Aurelio, qualunque fosse il loro nome, hanno inizialmente fondato un’eterna amicizia su una divisione equa, hanno presto chiesto alle armi di scegliere, fra due pretendenti, l’unico re.

Del resto, la divisione, anche ammettendo che venisse accettata dalle due parti, richiederebbe comunque una delimitazione delle frontiere. E questa si presterebbe a controversie, di cui le questioni di Trieste e di Corea danno un’idea abbastanza precisa. Ma, di fatto, questa divisione, anche quando materialmente accettata, darà luogo a una rivalità che l’opposizione fra i sistemi sociali e le ideologie renderà inevitabilmente accesa. Capitalismo e comunismo hanno la vocazione all’universalità: gli americani non si rassegnano facilmente al fatto che le loro mercanzie si urtano a barriere politiche, mentre il libero scambio permetterebbe di estendere l’alto livello di vita e il benessere made in Usa. E i sovietici non si rassegnano che a titolo provvisorio, e con beneficio d’inventario, al socialismo in un solo paese. A rigore, se non si trattasse che di ideologia, si potrebbe concepire un’emulazione pacifica. Ma si tratta di molto di più. Siccome la storia ha giocato ai marxisti lo scherzo di far nascere la rivoluzione in un paese che aveva appena iniziato la sua evoluzione capitalista, e di assicurare la durata del capitalismo laddove la dotazione industriale è progredita più in fretta e più lontano, si dà il fatto che il gigante comunista è povero e il gigante capitalista è ricco. I russi devono vietare il contatto fra i due mondi, perché i cittadini sovietici non hanno nessuna idea, e non devono avere nessuna idea, del livello di vita occidentale. La cortina di ferro non è quindi un incidente della diplomazia sovietica: è il seguito inevitabile della povertà dell’Unione Sovietica, delle regole della propaganda e dell’ignoranza che il regime ha rispettato per vent’anni e che non potrebbe modificare senza profonde riforme. 

Ora, nella misura in cui la Russia diventa misteriosa, ripiegandosi su se stessa, diventa allo stesso tempo minacciosa. Finché passava per una potenza di second’ordine, finché la si considerava come un elemento del sistema europeo, si conviveva senza grandi sforzi con questa volontà di ritiro e di oscurità. Adesso che l’Unione Sovietica si estende fino all’Oder e all’Adriatico, direttamente o tramite i suoi satelliti, adesso che gli strumenti di combattimento hanno acquisito una potenza di distruzione apocalittica, il mistero dell’immensa Russia alimenterà la grande paura del mondo. Non che la Russia sembri predestinata a una carriera imperialistica. Gli argomenti contro questa ipotesi non mancano. Nei confronti dell’Europa, la Russia si è trovata quasi sempre sulla difensiva. Il soldato rosso si batte ammirevolmente per la difesa del suo suolo e del suo paese, ma non ha mostrato la stessa inclinazione del soldato tedesco per le avventure esterne. Colonizzatore verso l’Asia, si protegge dalle invasioni europee degli svedesi, dei francesi o dei tedeschi. Senz’altro, la diplomazia sovietica ha ripreso alcune aspirazioni tradizionali della Russia zarista, legate a costanti geografiche: tende verso i mari aperti al Sud, al Nord e all’Est. Ma non ha le stesse ragioni della diplomazia di Berlino di sognare sogni illimitati. Il governo sovietico regna su un sesto delle terre emerse. Sull’immenso territorio della Russia, quasi tutte le risorse necessarie all’industria abbondano, e la valorizzazione del suolo e del sottosuolo richiede ancora decine di anni di lavoro: perché dei dirigenti, che hanno dimostrato la loro prudenza, dovrebbero andare a cercare all’esterno il rischio di catastrofe, mentre, normalmente, il tempo lavora per loro?

In senso opposto, vi sono pochi argomenti, ma di peso. Mai una grande potenza si è fermata da sola: quando e dove la Russia sovietica troverà una resistenza insormontabile? Si è proclamata la tesi del socialismo in un solo paese, ma si è mai rinunciato definitivamente all’espansione ideologica, ormai inseparabile dall’allargamento dell’impero russo o slavo? Il rigore del regime interno, il contrasto fra la povertà della democrazia proletaria e la ricchezza della democrazia borghese, l’impazienza di un popolo sottomesso a una tensione mai allentata, in breve, questa situazione instabile di un paese “socialista” sempre minacciato dall’“accerchiamento”, non deve forse incitare dei capi assoluti a volgere lo sguardo verso l’esterno, alla ricerca della sola vittoria che consoliderebbe definitivamente la rivoluzione comunista? 

Non importa poi tanto valutare il peso di questi diversi argomenti, perché non intendiamo lasciarci andare al gioco sterile delle previsioni. Quello che qui ci interessa è che queste speculazioni ossessionano le menti di tutti, dirigenti e semplici cittadini. E nulla autorizza a prevedere un rapido mutamento dei fatti. Ci vorranno almeno due decenni perché il livello di vita sovietico si avvicini a quello dell’Europa occidentale. Vi è bisogno di dire che questo ritardo non è imputabile al sistema economico in quanto tale, ma a un equipaggiamento economico iniziato più tardi e alla considerevole natalità che, fonte di ricchezza a lungo termine, ritarda inizialmente l’incremento del livello di vita individuale? A meno che non si verifichino incidenti imprevedibili nella politica interna della Russia sovietica, non potremo aspettarci un cambiamento di atteggiamento. Potente e nascosta, l’Unione Sovietica continuerà a ossessionare un mondo contemporaneamente attirato e terrorizzato.

La fatalità dell’Europa

Siamo quindi in misura di capire il fenomeno della “pace bellicosa”? Non ancora. La rivalità fra i due universi, l’incertezza della loro linea di confine, il timore che reciprocamente si ispirano, la tentazione, alla quale nessuno dei due sfugge, di operare una scelta radicale fra i due termini dell’alternativa alla quale la storia universale è appena giunta: tutto ciò spiega forse l’angoscia dell’umanità. Ma l’espressione di questo smisurato conflitto potrebbe essere l’alternanza di crisi e tregue; talvolta i cannoni sembrerebbero pronti a sparare e talvolta un’apparente riconciliazione calmerebbe l’ira dei combattenti di domani. L’origine diretta della “pace bellicosa” è la sparizione di ogni equilibrio parziale, l’avvento, per la prima volta nella storia, di un equilibrio mondiale, e l’estensione della diplomazia a tutti i settori dell’esistenza. Vi è stato, per secoli, un concerto europeo: alcune grandi potenze dominavano la scena politica e intrattenevano relazioni mutevoli, fonte di equilibri approssimativi. Questi equilibri si modificavano, all’indomani di conflitti armati, senza che il sistema uscisse dall’asse. La guerra del 1914 ha messo fine a questo sistema (senza che l’opinione pubblica se ne rendesse conto). Per abbattere la Germania, le democrazie occidentali furono costrette ad attingere alle risorse materiali del Nuovo mondo, e finalmente fu l’intervento americano a dare il colpo di grazia al II Reich. L’Europa non era più capace di risolvere da sola le sue controversie. L’Austria-Ungheria fu vittima di una guerra che aveva innescato, nella speranza di sopravvivere. Di colpo, la Germania diventava l’unica grande potenza fra il Reno e la frontiera russa: appena si riarmò, i piccoli stati creati intorno a lei erano destinati all’assoggettamento. Ma, allargata ai limiti della Mitteleuropa, la Germania non era più sulla scala delle nazioni europee. Per impedirle di asservire l’Europa, si dovette mobilitare il mondo. Una volta abbattuto il III Reich, non rimane alcuna potenza fra la cortina di ferro e l’Atlantico. L’Europa intera diventa un power vacuum. I giganti si disputano questo no man’s land (la situazione è provvisoriamente la stessa in Asia dopo la sconfitta del Giappone).

A chi apparterranno queste terre contestate? La risposta non dipende solamente dalla diplomazia, nel senso tradizionale del termine. Non si tratta di sapere dove saranno piantati i cippi di frontiera, che hanno perso ogni significato. Si tratta di sapere chi prenderà il potere all’interno degli stati: la lotta degli imperi si esprime tramite la concorrenza dei partiti (le recenti elezioni di Berlino ne danno un esempio eclatante). Ora, dal momento in cui i progressi dei partiti in Cina, in Persia o in Francia modificano la mappa strategica, non vi è più pace e nemmeno tregua possibile. La guerra è continua come la politica. L’Europa intera, il mondo intero, sono ridotti alla condizione dei Balcani di prima del 1914.

Non ne discende che questa guerra debba fatalmente, nel futuro prossimo, diventare sanguinosa o atomica. Il blocco momentaneamente più forte, quello degli anglosassoni, non ha né l’inclinazione per le iniziative apocalittiche, né un regime interno che permetta di forzare il destino. Ciascuno dei due giganti conosce le risorse dell’altro e la difficoltà di sferrargli un colpo mortale. L’impero continentale non ci metterebbe molto a prendere l’Europa in ostaggio. Si libererebbero popoli o rovine? La prospettiva immediata è dunque la pace bellicosa. L’obiettivo è l’attenuazione di questa costante e totale rivalità. Ora, per una specie di rovesciamento dialettico, se non dipende dai piccoli la prevalenza a livello planetario della guerra o della pace, dipende invece da loro, per larga parte, se in ogni regione del mondo la pace diventerà più o meno bellicosa. La pace rimarrà bellicosa nel vecchio continente fino a quando l’Europa, incapace di dimenticare e imparare, indulgerà in controversie anacronistiche, nella vergogna della sua caduta di rango. Ci si riavvicinerà a una vera pace il giorno in cui l’Europa attingerà, nel ricordo delle sue glorie, alla volontà di un avvenire; il giorno in cui trarrà infine dalle sue sventure una doppia lezione: l’impotenza dei Cesari e la necessità, la fatalità dell’unione.

(© Commentaire e per l’Italia Ideazione. 
Traduzione dal francese di Pierluca Pucci Poppi)

25 aprile 2003

(da Ideazione 1-2001, gennaio-febbraio)





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