Oltre il nichilismo
di Daniel J. Mahoney

Nessuna delle principali figure intellettuali del Ventesimo secolo ha dimostrato maggior giudizio politico del grande filosofo politico e sociologo francese Raymond Aron. Egli aveva ragione sulle questioni essenziali del suo tempo e i suoi giudizi erano sempre lucidi, autorevoli e affidabili. Non ha mai ceduto alla “tentazione totalitaria” o alla moda del rifiuto “postmoderno” della natura umana e della ragione. Ma come nessuno ha valutato il deficit spirituale che rende le società liberali particolarmente vulnerabili agli attacchi politici e intellettuali. Nella sua tesi del 1938, Introduzione alla storia della filosofia, che fornì la base del suo successivo lavoro politico e filosofico, Aron si oppose al progressismo razionalistico che o affermava lo svolgimento necessario del processo storico o riponeva speranze esagerate nei successi della scienza positivistica. In quell’opera, che il vecchio positivista francese Paul Fauconnet condannò come “disperata o satanica”, Aron enfatizzava “i limiti dell’obiettività storica”, la relatività e la pluralità di significati inerenti a qualsiasi ricostruzione storica del passato. Aron arrivò a parlare della “dissoluzione dell’oggetto” che accompagna qualsiasi sforzo di ricostruzione storica, una formulazione “patetica” che in seguito rimpianse. L’Introduzione viene talvolta considerata un’opera esistenzialista perché nega la possibilità di ricostruire il passato esattamente come era o di articolare una filosofia della natura umana sub specie aeternitatis. C’è del vero in quest’affermazione. Ma nell’Introduzione Aron sosteneva che il riconoscimento della pluralità dei significati umani nella storia non implicava necessariamente una filosofia relativistica o nichilista. 

Un percorso post-nichilista

Nella sezione quarta dell’Introduzione, intitolata “Storia e verità”, l’obiettivo di Aron non erano più le rivendicazioni “positivistiche” mosse per conto “dell’oggettività storica” ma piuttosto le negazioni eccessivamente pessimistiche della libertà umana e della verità filosofica espresse in nome del relativismo storico e culturale. Aron non negava che le dottrine del relativismo storico o culturale cogliessero aspetti fondamentali del pluralismo delle culture e delle civilizzazioni. Credeva, come scrisse in seguito nelle sue Memorie, che il riconoscimento della diversità culturale “appartenesse allo spirito del tempo”. Ma Aron insisteva sulla necessità di andare “oltre il relativismo”, di superare il nichilismo debilitante che tormentava un’Europa scoraggiata. Sosteneva tre fondamenti di un razionalismo moderato che avrebbero permesso a coloro che rifiutavano il progressismo storico di evitare di finire nel nichilismo: questi erano, rispettivamente, “l’autonomia della verità positiva e parziale, l’universalità della riflessione e la costituzione da parte della persona della sua natura spirituale”. Aron riconosceva che nessuna di queste affermazioni da sola era sufficiente per rifiutare il relativismo storico e per superare definitivamente la tentazione nichilista. Ma offrivano la speranza di rimettere in relazione la scelta o la decisione alla ricerca della verità. L’ultimo punto ha per Aron un’importanza decisiva. Persino nell’Introduzione, il suo lavoro più “relativistico”, sosteneva che “la trascendenza formale dello storicismo” era possibile. Gli esseri umani sono in grado di “sottomettersi alle regole della verità” e i risultati delle nostre ricerche “sono universalmente imperativi”. Per Aron la riflessione “non esprime la consapevolezza imprigionata” ma piuttosto dà agli uomini l’accesso alla genuina universalità.

La parte quarta dell’Introduzione è una paziente, addirittura socratica ricerca di un’alternativa plausibile e umana al nichilismo che minacciava di ingolfare il mondo intellettuale europeo dopo aver discreditato il razionalismo liberale. Aron difendeva un esiguo cammino a metà strada fra lo storicismo e un semplice ritorno alle rivendicazioni universaliste della filosofia perenne. Pierre Manent coglie eloquentemente il carattere di questa via di mezzo: “La tesi di Aron dà troppo peso allo storicismo – l’idea che l’uomo sia essenzialmente un essere storico che si forma e si determina all’interno della storia – per ammettere, come fece la filosofia classica, una teoria della natura e della condizione umana sub specie aeternitatis; dall’altra parte, conserva troppo della concezione tradizionale della filosofia – come l’elaborazione delle articolazioni universali dell’esperienza umana – per cedere alla seduzione del relativismo o della totalità storica hegeliana o marxista”. La critica dell’Introduzione a tutte le dottrine della “totalità” storica prefigura il successivo attacco frontale di Aron alla vulgata marxista. Ma nei suoi scritti dopo la seconda guerra mondiale, Aron enfatizza la pluralità strutturale della storia e dell’agire e il reale, anche se limitato, ruolo dell’accidente e della scelta nel divenire storico (un approccio che chiamò “determinismo probabilistico”) piuttosto che la relatività inerente alla ricostruzione storica. 

La successiva “storia della filosofia” di Aron è meno scettica dell’Introduzione e fornisce una visione positiva della natura della scelta e della struttura della realtà. Dopo il 1945 il pensiero di Aron riguardo a quelli che si potrebbero chiamare i fondamenti della scelta umana subì una significativa evoluzione. Senza negare la storicità della scelta morale e politica, Aron fece sempre più appello alla “natura umana” in quanto standard di giudizio. Arrivò a considerare l’esistenzialismo e lo storicismo hegelio-marxista i due estremi da evitare. In una serie di opere che comprendono L’oppio degli intellettuali (1955) e saggi come Fanatismo, prudenza e fede (1956), la sua introduzione a Savant et Politique di Max Weber (1959) e Scienza e consapevolezza della società (1960), Aron tracciò l’abbozzo di una moralità della prudenza che intende guidare la scelta razionale. Ritengo che rivolgersi ai princìpi e alla prudenza per superare il nichilismo e dare basi e orientamento alla scelta politica sia molto più efficace dei precedenti sforzi di Aron nella quarta sezione dell’Introduzione. Le sue sfide al relativismo storico, al sociologismo e al decisionismo erano più radicali e persuasive, il suo tono notevolmente meno patetico o disperato. Nelle ultime opere Aron articolava una visione del carattere storico del giudizio politico che non dipendeva da una filosofia storicistica. 

E’ importante enfatizzare, tuttavia, che la successiva svolta in direzione di una moralità della prudenza è preparata dal rifiuto spirituale o esistenziale del nichilismo – dalla volontà di superare il nichilismo – che pervadeva le ultime pagine dell’Introduzione. Questa inaugurava una ricerca – un’avventura spirituale e intellettuale – tesa a superare il fatalismo e la disperazione. Un saggio come Fanatismo, prudenza e fede rappresentava il culmine della ricerca dell’Aron maturo in direzione di una moralità del giudizio che si è liberata dalle tentazioni nichiliste e decisioniste. Prima di passare alla matura articolazione del problema di Aron, vorrei trasmettere il sentimento dei suoi primi nobili anche se inadeguati sforzi di venire fuori dal pantano relativista.

Quali sono precisamente le forze e i limiti delle soluzioni delineate nella tesi del 1938? Nell’Introduzione Aron espresse il suo disgusto per la “filosofia del relativismo storico” che era emersa trionfante nei circoli intellettuali europei, soprattutto tedeschi, dopo la prima guerra mondiale. Egli mise in relazione la crisi intellettuale – l’attacco alla scienza e alla ragione – con la crisi politica in cui la democrazia liberale aveva perso sempre più il suo prestigio. Aron vedeva nelle nuove correnti “pessimistiche” e irrazionalistiche (che si rifacevano al pensiero di Nietzsche e Spengler fra gli altri) un riflesso del fatalismo che caratterizzava le filosofie del progresso storico. Tanto le filosofie “ottimistiche” che quelle “pessimistiche” della storia negano che esista un posto salutare per le introspezioni parziali ma genuine della scienza, per le scienze morali e politiche degli uomini che agiscono, e per la riflessione filosofica che permette agli esseri umani di ottenere una distanza critica dalla situazione storica e dall’ambiente culturale. L’inclinazione iniziale di Aron era riconoscere la verità ovvia del relativismo storico: gli esseri umani non hanno accesso diretto a un trascendente regno transtorico; il pensiero umano viene plasmato da matrici culturali particolari; i valori devono essere incarnati in particolari tradizioni o società se vogliono evitare di essere semplicemente formali e quindi incapaci di influenzare i destini degli uomini. 

Quello che è chiaro è che, nonostante i suoi sforzi, inizialmente Aron non riuscì a liberarsi da una filosofia relativistica perché anch’egli accettò con troppa prontezza il carattere “indiscutibile” della concezione relativistica della diversità di società, costumi e morale. Voleva superare le implicazioni nichilistiche del relativismo storico o sociologico senza fondamentalmente metterne in dubbio i presupposti dogmatici. Difendeva l’autonomia della riflessione filosofica e la ricerca spirituale della verità riconoscendone il carattere essenzialmente storico. Aron non prese abbastanza seriamente la possibilità che la diversità di ethos fosse compatibile con una gerarchia dei valori universale ed intelligibile. Ma neanche apprezzò sufficientemente il fatto che la loro interazione o mutua dipendenza non rappresentasse la prova della mera storicità o relatività del valore. 

Come sostiene Aurel Kolnai, sono i costumi extra morali, le tradizioni e le pratiche particolari e culturalmente distintive, cioè la varietà di ethos, che permettono ai vari princìpi universali di radicarsi dentro il mondo degli uomini. La concezione kantiana di Aron della moralità gli rendeva difficile integrare una moralità formale o universale con le manifestazioni culturali concrete di quella moralità. Aron temeva certamente le conseguenze del riduzionismo sociologico. Ma dava per scontata la verità di un resoconto sociologico sulla diversità umana, almeno come punto di partenza per affrontare il problema del relativismo storico e culturale. Nell’epilogo delle sue Memorie, pubblicate poco prima della sua morte nel 1983, lo ammette. Se gli venisse offerta un’occasione di ritornare sul tema della sezione finale dell’Introduzione, “traccerebbe – suggerisce – una distinzione più netta fra i valori sociali e le virtù morali, rafforzerebbe le basi della verità scientifica e dell’universalismo”. 

L’Aron maturo non credeva che il riconoscimento della diversità culturale implicasse il relativismo morale. Gli storici sbagliavano a sostenere che “il bene e il male vengono rivisti da una società all’altra”. Nelle sue Memorie Aron rifiuta enfaticamente quest’affermazione: “L’onestà, la franchezza, la generosità, la gentilezza e l’amicizia non cambiano impronta da un secolo all’altro, da un continente all’altro o attraversando i confini”. Ma alla fine della sua vita, Aron ammise di non essere venuto adeguatamente a patti con la sfida teoretica dello storicismo. Suggerisce che, avendone l’opportunità, sottoporrebbe lo storicismo ad una critica filosofica più radicale e più profonda. Nonostante le considerevoli concessioni allo storicismo dell’Introduzione, Aron rifiutò nettamente il sociologismo ispirato a Durkheim nel quale “la società era posta al posto di Dio” come fonte del giudizio autorevole e del valore. Rifiutò così di far coincidere quella che chiamava “relatività senza limiti” con la “riduzione dei valori a una realtà più naturale che spirituale”.

Questo scettico vide qualcosa di idolatrico nella negazione dogmatica della trascendenza. Aron si trovò di fronte a questo difficile problema: voleva disperatamente affermare la libertà dell’uomo contro i determinismi storici, sociologici e culturali ma credeva che la scelta fosse inevitabilmente di carattere storico. Nell’Introduzione Aron espresse la sua insoddisfazione nei confronti di una concezione dell’essere umano in termini di progressismo storico, relativismo culturale e pura indeterminazione. Voleva ridare alla scelta ragionevole il suo posto dignitoso in una filosofia dell’uomo, basando la decisione sulla riflessione filosofica e politica piuttosto che su una decisione arbitraria. Alla fine i suoi sforzi fallirono ma indicò comunque la via verso una concezione della scelta umana più soddisfacente.

Il fallimento di Aron, perciò, è solo parziale. Preparò la strada per la sua successiva, più adeguata articolazione della moralità della prudenza. Nell’Introduzione si vedono già gli elementi della critica di Aron alla “politica letteraria” che porterà avanti per tutta la vita. Egli insisteva sul carattere concreto della scelta politica e sull’inadeguatezza del razionalismo e del moralismo astratti. La scelta a favore o contro un regime o una civiltà particolare può anche essere “esistenziale” in qualche senso estremo, ma quella scelta è ragionevole solo se si fonda sull’esame concreto delle istituzioni politiche e dell’economia politica. Aron rifiutava l’idea che la scelta fra la società liberale e la sua alternativa rivoluzionaria potesse essere decisa sulla base di un’astratta preferenza per l’uguaglianza, la giustizia sociale o una società pianificata. Quando scrisse l’Introduzione, Aron era pienamente consapevole del fatto che studiare ragionevolmente la politica significhi adottare la prospettiva del cittadino e dell’uomo di Stato. In questo senso l’enfasi sulla causa concreta o storica della scelta storica non è un’adesione al relativismo storico. E’ piuttosto un salutare memento della natura e delle condizioni a priori della responsabilità politica.

Nell’Introduzione, tuttavia, la responsabilità è ancora concepita in termini weberiani, alla luce della famosa antinomia fra “l’etica della responsabilità” e “l’etica della convinzione” espressa da Max Weber nel 1918 nella conferenza di Monaco su La politica come vocazione. Weber presentò la sua scelta a favore della responsabilità (e della politica moderata) come una decisione senza fondamento, una scelta esistenziale. Si può dire lo stesso per la preferenza dichiarata di Aron per la “politica del compromesso” rispetto alla “politica della ragione”. Il politico del compromesso, “come Max Weber o Alain” cerca di preservare alcuni obiettivi come la pace, la libertà e la grandezza nazionale in circostanze sempre mutevoli. “E’ come il pilota che naviga senza conoscere il passato”; non è guidato da princìpi permanenti o da una concezione della natura umana. Affronta incessantemente la dialettica “dei mezzi e dei fini, della realtà e dei valori” e cerca di trovare la sua strada. La sua moderazione non ha sostegni naturali o ragionevoli anche se appare molto più sensata delle rivendicazioni del politico della Ragione che sostiene di “confidare nella Provvidenza” o nella Storia. L’antinomia di Aron fra il compromesso e la Ragione Storica è una ovvia modifica della formulazione di Weber sulle due moralità politiche. E’ afflitto dalle stesse difficoltà. Aron in seguito avrebbe criticato Weber per “la forma estrema e in qualche modo radicale” che aveva dato all’antinomia fra responsabilità e convinzione (vedi il saggio di Aron del 1964 Max Weber e la politica di potenza). 

Negli anni Cinquanta Aron era arrivato alla conclusione che la formulazione di Weber dei due codici morali mettesse in pericolo la ricerca di una moralità della prudenza e incoraggiasse indebitamente i “falsi realisti” e i “falsi idealisti”. Aron era ancora d’accordo con Weber sul fatto che “l’eterno problema di giustificare i mezzi con i fini non ha soluzione teoretica”. Questo non significa, tuttavia, che la dialettica dei mezzi e dei fini possa guidare la scelta umana senza alcun riferimento ai princìpi radicati in una concezione della natura degli uomini e delle società. L’antinomia di Weber, che doveva dare sostegno alla moderazione e alla responsabilità politica, finiva per metterle in pericolo proprio perché concepiva la responsabilità come una preferenza senza fondamento. 

L’Aron maturo ruppe coscientemente con il decisionismo di Weber, pur continuando a dovere moltissimo alla sua sociologia politica. Tuttavia l’antinomia di Aron fra compromesso e ragione espressa nell’Introduzione condivide gli stessi presupposti decisionisti della filosofia di Weber. Non riesce, così, a trascendere da una filosofia relativistica, lo scopo che si era preposto lo sforzo di Aron. Il fallimento di Aron diventa particolarmente chiaro nella sezione su “L’uomo storico: la decisione”. La sezione culmina con la straordinaria affermazione che l’uomo che agisce può “superare la relatività della storia con l’assoluto della decisione”. Aron respinse esplicitamente un “metodo patetico della filosofia” e rifiutò di prendere “l’angoscia di un’era disordinata come un dato eterno”. Tuttavia nelle pagine finali dell’Introduzione identifica nel decisionismo il giusto antidoto al relativismo! Non spiega come una decisione arbitraria possa in qualche modo negare o superare la relatività della storia. L’Introduzione, abbiamo suggerito, rappresenta un primo passo nello sforzo di superare il nichilismo. Però alla fine Aron si era trovato in un cul de sac spirituale e intellettuale. Bisognava trovare un altro modo per rivendicare la possibilità della scelta ragionevole. 

Verso una moralità della prudenza

Gli scritti politici di Aron del secondo dopoguerra devono molto ai concetti teoretici centrali dell’Introduzione: non esiste alcun determinismo globale del futuro e nessuno svolgimento prestabilito della storia, l’uomo è libero di determinare il suo destino nell’ambito di limiti nettamente definiti, la scelta politica richiede una precisa e accurata comparazione empirica “dell’insieme sociale” disponibile nel contesto della modernità, la riflessione sulla irrisolvibile dialettica dei fini e dei mezzi definisce la condizione politica dell’uomo. Ma in una serie di opere pubblicate fra il 1955 e il 1960 Aron propose concetti di equità e prudenza politica che superarono il decisionismo residuo dell’Introduzione. In questo periodo Aron distanziò il suo pensiero dal “nichilismo di Nietzsche” implicito nel pensiero di Weber. Secondo Aron, Weber ha spesso fuso concrete analisi fenomenologiche della condizione umana insieme a una “filosofia umanamente impensabile”. Questa filosofia trasformò “l’antinomia dell’etica e della politica e la diversità di culture” in una prova dell’implacabile “guerra delle divinità”. Il “realismo” sociologico di Weber, in effetti, celava una metafisica nascosta, “una filosofia della discordia” che rifiutava di “operare una differenza fra i valori vitalistici e il compimento ragionevole; la sua ipotesi comprende la totale irrazionalità della scelta fra i partiti politici o fra le varie immagini del mondo in conflitto, e la morale e l’equivalenza spirituale di vari atteggiamenti; quelli del saggio e quelli del pazzo, quelli del fanatico e quelli del moderato”. 

In maniera ammirevole, Weber desiderava riconoscere la validità della libera decisione umana rispetto alle affermazioni delle ideologie deterministiche degli imperativi di una sempre più dominante razionalità burocratica che instupidiva l’anima. “Ma non si chiese se era possibile prendere una decisione per nessuna ragione particolare”. Aron arrivò a rifiutare l’idea che la scelta assolutamente libera o indeterminata fosse compatibile con la dignità umana o la responsabilità politica. Continuò a sostenere, con Weber e in accordo con l’enfasi posta nell’Introduzione sui “limiti dell’oggettività storica”, che le scelte umane non sono “dimostrabili”. Ogni scelta è una scelta fra alternative più o meno ragionevoli, e anche quelle ragionevoli sono definite da una certa imprecisione o incertezza. D’accordo con Weber, Aron ammette che “la scienza è limitata, il futuro è imprevedibile e i valori a breve termine sono contraddittori”. Ma la risposta appropriata ai limiti dell’oggettività o all’innegabile tensione fra i valori umani in conflitto non è la “scelta demoniaca” o senza fondamento. L’equità, il giudizio giusto o equilibrato, è la virtù del filosofo o dell’uomo di Stato che accetta i limiti della ragione umana ma rifiuta di cedere al pathos della scelta irrazionale. 

Nel suo saggio del 1956 Fanatismo, prudenza e fede (scritto in risposta alle critiche a L’oppio degli intellettuali) Aron chiarisce le motivazioni della sua opposizione al fanatismo ideologico. Questa replica lucida e penetrante fu scritta durante l’apice dell’indulgenza gauchiste nei confronti del totalitarismo comunista. Merleau-Ponty aveva difeso “l’autenticità” dei finti processi stalinisti in Umanesimo e Terrore (1948) e Sartre definiva abitualmente gli anticomunisti “cani”, mentre i socialisti cristiani di Esprit non riuscivano a condannare chiaramente i regimi che perseguitavano i cristiani come politica di stato. In questo contesto Aron veniva deriso come un semplice scettico sia dai critici laici che da quelli cristiani. Si suggeriva che il suo attacco ragionato “all’idolatria della storia” ne L’oppio degli intellettuali fosse una copertura per il nichilismo, al servizio di un ingiusto status quo capitalista. 

In "Fanatismo, prudenza e fede" Aron affronta le critiche. Chiarisce che la sua opposizione al fanatismo è radicata più in una netta difesa del principio e della prudenza che nello scetticismo. Sostiene che la fonte ultima dell’indulgenza progressista nei confronti del totalitarismo comunista, un’indulgenza evidente nelle opere di rinomati “filosofi” come Maurice Merleau-Ponty (per un periodo) e Jean-Paul Sartre (per decenni senza interruzione), non è altro che una negazione nichilistica della sempiterna natura umana e dei princìpi permanenti della virtù o della saggezza che guidano e limitano il pensiero e l’azione. Per il loro lavoro filosofico vero e proprio, Sartre e Merleau-Ponty “appartenevano alla tradizione di Kierkegaard e di Nietzsche e alla rivolta contro l’hegelianismo”. “L’individuo e il suo destino” erano il centro della loro riflessione. In quanto “esistenzialisti” difendevano la scelta libera e indeterminata e “non ammettevano una legge morale che governasse l’intenzione”.

Privi di princìpi eccetto gli imperativi straordinariamente formali e senza contenuto dell’autenticità e della reciprocità, essi combinavano quelli che Aron, seguendo Leo Strauss, chiamava “i due estremi sbagliati”, il dottrinarismo e l’esistenzialismo. Alla maniera dei rivoluzionari dottrinari, questi esistenzialisti marxisti affermavano “la verità unica della società senza classi”. Glorificavano la rivoluzione comunista e “ignoravano le diversità storiche, le lente creazioni, i casi imprevedibili” che davano forma alle comunità politiche viventi. Allo stesso tempo questi “discendenti di Kierkegaard” affermavano il primato della consapevolezza individuale e rifiutavano l’idea di “una pratica umana totale e completa”. Aron osserva eloquentemente che “sotto certi aspetti Marx e Nietzsche sono estremi opposti, ma i loro discendenti si incontrano per molti percorsi”. Tanto gli esistenzialisti, partigiani della scelta “autentica”, quanto gli storicisti dottrinari, fautori dello “sviluppo necessario della storia”, rifiutavano i limiti stabiliti sia dalla natura umana che dalle complessità inerenti alla vita collettiva. Entrambi erano ispirati dalla “fiducia nel potere della volontà umana”. Ignoravano i limiti naturali e la “saggezza di Montesquieu”, il fatto che particolari tradizioni sociali e politiche hanno una loro forma e non si lasciano facilmente subordinare alle esigenze di “uno Stato universale e omogeneo”. 

In "Fanatismo, prudenza e fede" Aron dimostra lucidamente come gli esistenzialisti e i loro compagni di strada cristiani finiscano per affermare “un’unica verità in un’area in cui la verità non può essere unica”. Gli esistenzialisti, in particolare, iniziarono con una “filosofia di estremo individualismo e quasi-nichilismo” che nega “qualsiasi stabilità alla natura umana”. Finirono a oscillare incoerentemente fra “un volontarismo senza legge e un dottrinarismo basato sul mito”. Aron sosteneva che si poteva uscire da questo vicolo cieco solo affermando chiaramente la “fede autentica”, intesa come “princìpi” fondamentali che fanno da guida al pensiero e all’azione. Lo scetticismo di Aron era diretto a “schemi, modelli e utopie” e non ai princìpi che sostengono l’azione ragionevole e la riforma saggia. Avendo rifiutato l’idea stessa della natura umana e della legge morale, gli esistenzialisti e i cristiani progressisti si rivolgono a una “dialettica storica o di classe che fornisce loro la convinzione”. Aron ritornò al classico riconoscimento che afferma che il buon senso e l’esperienza ordinaria forniscono il punto di partenza necessario sia per l’azione umana che per la riflessione teorica. Senza princìpi primari che guidino e limitino la nostra azione all’interno del mondo e orientino la nostra riflessione su di esso, né il pensiero né l’azione ragionevole sono possibili. Il mondo umano diventa meramente incoerente e la diversità delle opere umane perde la sua intelligibilità. Una “fede” nella stabilità della natura umana è quindi la condizione a priori “ragionevole” indispensabile del pensiero e dell’azione. Di conseguenza Aron difende la prudenza, quello che chiamava “il dio di questo mondo inferiore”, dalle oscillazioni inumane fra il volontarismo e il dottrinarismo caratteristici di chi con compiacimento rinuncia ai princìpi primari. 

Sempre in Fanatismo, prudenza e fede Aron identifica l’origine del fanatismo rivoluzionario nella negazione nichilistica di quei princìpi primi che rendono possibile una prudente navigazione del mondo umano. L’agnostico Aron fornì persino una lucida difesa e un’articolazione della concezione cristiana classica della necessità di evitare tanto l’accettazione quietistica dell’ingiustizia del mondo quanto lo sdegno messianico per la sua imperfezione. Espresse il suo disappunto (all’apice del prestigio intellettuale del comunismo) per il fatto che molti cristiani progressisti fossero indulgenti nei confronti di regimi che perseguitavano i credenti e negavano le libertà umane fondamentali. La bella formulazione di Aron della saggezza di una moderazione civica distintamente cristiana merita di essere citata. Un vero cittadino cristiano “non avrebbe mai la sensazione di aver fatto abbastanza per la giustizia umana e sentirebbe sempre che i risultati di questo sforzo incessante sono trascurabili e devono apparire tali se paragonati all’unica cosa davvero in gioco. Non si rassegnerebbe alla sofferenza umana né dimenticherebbe il peccato”. 

Aron non era credente in nessun senso convenzionale ma fu attento a lasciare uno spazio aperto per i princìpi trascendenti che non erano riducibili alla volontà umana. Per motivi razionali e morali si opponeva all’immanentismo radicale. Riconosceva l’imperfezione dell’animo umano e le contraddizioni che costituivano la vita sociale, verità che la religione rivelata afferma. Ma questo pensatore non utopista non era un semplice conservatore. Sosteneva in maniera persuasiva che un rifiuto dei miti ideologici fosse la condizione essenziale per perseguire riforme ragionevoli e un’azione prudente. Nella sezione centrale del saggio, intitolata “Dalla critica all’azione ragionevole”, Aron andò avanti a delineare la sua concezione di giudizio politico. Il giudizio politico è necessariamente storico, inizia hic et nunc con la scelta reale di fronte alla quale si trovano cittadini e uomini di Stato. Di conseguenza, in maniera quasi aristotelica, Aron iniziò accettando gli obiettivi suggeriti dai cittadini stessi. Nel Ventesimo secolo stiamo parlando di cittadini che fanno parte di civiltà distintamente moderne. “Nessuna nazione o partito” nel mondo moderno può permettersi di rifiutare la civiltà industriale che è la conditio sine qua non sia del miglioramento degli standard di vita dei cittadini che della crescita del potere nazionale e militare. 

Questo obiettivo comunemente accettato può servire da criterio per giudicare governi e politiche. I fautori della rivoluzione socialista, però, rifiutavano l’analisi comparativa dei regimi e insistevano dogmaticamente sulla superiorità del “socialismo” rispetto al “capitalismo”. Scrivendo nel 1956, Aron suggerì che al posto di tale atteggiamento ideologico serviva una ragionevole, comparativa “considerazione dei regimi in cui le nazioni devono vivere”. Questa analisi comparativa, alla quale Aron dedicò gran parte del suo lavoro sociologico, dimostra che gli obiettivi moderni di crescita, efficienza ed equa distribuzione dei beni non sono in alcun modo fondamentale incompatibili con le libertà liberali. “La vera libertà”, come dicevano i marxisti, non esigeva “la soppressione dei parlamenti, dei partiti o della libera discussione delle idee”. Disprezzando l’analisi empirica in nome dei miti rivoluzionari, la sinistra intellettuale è stata indulgente con “la tirannia di un unico partito che eleva una superstizione pseudo-razionalistica ad ideologia ufficiale”. Aron chiamò questo tradimento dei princìpi dell’illuminismo “la vergogna degli intellettuali della sinistra”. Sosteneva che lo smascheramento del mito ideologico fosse il primo passo sulla via del recupero del giudizio politico autentico. Le “equivalenze verbali” o giochi di parole che definiscono l’ideologia marxista-leninista (“potere del partito = potere del proletariato = abolizione della proprietà privata = abolizione delle classi = liberazione umana”) avevano conseguenze micidiali per chi vi era soggetto. Secondo i pensatori progressisti occidentali esse servivano a confondere il pensiero e a bloccare la strada che portava ad una perspicace analisi della società moderna.

Aron, lo studioso comparativo dei regimi moderni, accettava gli obiettivi multipli della civiltà moderna in quanto legittimi e quindi punto di partenza dell’analisi sociologica e politica. Credeva che le tensioni o “antinomie” (un termine che Aron aveva adottato dalla filosofia tecnica di Kant) fra crescita ed equità sociale, coesione politica e libertà individuale, uguaglianza civica e stratificazione sociale potessero essere ragionevolmente composte con analisi eque e con saggie politiche pubbliche. Ma questi conflitti sociali moderni riflettevano un problema politico sempiterno: il compito di qualsiasi comunità politica rispettabile e coesiva “era riconciliare la partecipazione di tutti alla comunità con la diversità dei compiti”. Le società moderne sono condannate a un certo grado di ipocrisia perché la natura della vita sociale non permette la semplice realizzazione dei loro princìpi egalitari e libertari. Ma riconoscerlo non induce alla disperazione o al cinismo. Una volta che lo studioso di politica ha rinunciato ai miti rivoluzionari, queste stesse realtà consigliano moderazione ed incoraggiano a perseguire prudentemente gli obiettivi posti dalle società moderne e le aspirazioni naturali dell’umanità alla giustizia e ad istituzioni umane.

La concezione di Aron del giudizio politico non dovrebbe essere confusa con il semplice empirismo. L’osservatore o l’attore attento deve certamente tenere conto dei fatti. Aron non era molto tollerante nei confronti della negazione postmoderna di un mondo umano razionalmente accessibile. Ne La rivoluzione introvabile, la sua aggressiva analisi dello “psicodramma rivoluzionario” del maggio del 1968, Aron criticava aspramente la destrutturazione postmoderna della visione della realtà sociale improntata al buon senso. Attaccò il “disprezzo dei fatti” filosofico, molto alla moda, e ricordò ai suoi lettori “l’ovvio”: “ogni società è soggetta alle limitazioni dei fatti”. Ma per soppesare e bilanciare le affermazioni contrastanti alla luce delle limitazioni sociali e delle possibilità e dei limiti della natura umana è necessario il giudizio dell’osservatore equo. Quella di Aron è una prudenza antinomica che rifiuta di permettere a una logica o a un valore parziali, come l’uguaglianza, l’efficienza, la libertà individuale o la grandezza nazionale, ognuna legittima nella sua propria sfera, di far scomparire altri fatti o valori legittimi. I valori di per sé legittimi rischiano di diventare tirannici se non sono bilanciati da altri beni concorrenti.

Se l’Aron maturo rifiutava il postmodernismo, sicuramente non credeva più che si potesse superare il relativismo con “l’assoluto della decisione”. La pura indeterminazione non ci porta da nessuna parte. Al peggio crea un vuoto pericoloso che può essere riempito da fanatismi di vario genere. Aron sosteneva che mentre nessuna filosofia può fornire “formule” per risolvere i problemi, una filosofia “che fa riferimento all’ideale della virtù o della saggezza... offre un’ispirazione e una luce diverse da quelle offerte da una filosofia che pone l’accento sulla libertà, sulla scelta e sull’invenzione”. Aron, tuttavia, riconosce che i princìpi primari del pensiero e dell’azione devono essere coadiuvati dalla “saggezza di Montesquieu”, dall’attenta analisi comparativa dei regimi e degli obiettivi sociali concorrenti, oltre che da un netto sforzo per evitare che un valore o una logica oscurino il legittimo pluralismo degli obiettivi umani. La moralità della prudenza di Aron compone la diversità culturale perché trova il senso del carattere umano di quella diversità. Il teorico guidato da princìpi aroniani riesce a soppesare e bilanciare beni apparentemente incommensurabili perché riconosce esattamente questi beni come tali, piuttosto che come valori senza fondamento. In Fanatismo, prudenza e fede Aron dimostrò che lo scetticismo radicale e il relativismo non offrono una difesa contro le tempeste politiche. 

Per gli esseri umani è naturale e necessario fare appello ai princìpi, e le “religioni laiche” colmeranno prontamente il posto riservato alla “fede autentica”. Nel dimostrare ciò, Aron rivendica la natura contro la storia sia nei suoi metodi progressisti che in quelli relativistici, senza negare il carattere essenzialmente “storico” o concreto della scelta politica. Il notevole giudizio politico di Aron, la sua lucidità sul totalitarismo e il suo realismo morale nell’affrontare le dialettiche della civiltà moderna, erano inseparabili dal riconoscimento teorico del fatto che la libertà dipende fondamentalmente dalla Verità.

(traduzione dall’inglese di Barbara Mennitti)

25 aprile 2003

(da Ideazione 1-2001, gennaio-febbraio)


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