Riflessione sui “petits camarades” Aron e Sartre
di Maurizio Serra

La Francia, prima grande nazione borghese del vecchio continente, è stata anche la prima a perseguire la formazione di una borghesia di Stato, realizzando l’osmosi tra cultura e vita civile. La mappa dell’istruzione superiore in Francia era assai complessa, allora come oggi. Ma si registrano significativi elementi di continuità, a cominciare dalla volontà dei diversi regimi succedutisi dopo Napoleone, che ne fu il fondatore, di potenziare l’Ecole Normale (ENS) per farne un “vivaio di aristocratici”, secondo un’espressione-chiave della Réforme intellectuelle et morale (1871) di Ernest Renan, manifesto della nazione che intendeva reagire alla sconfitta, accettando di andare a scuola dal vincitore prussiano. Per oltre un secolo e mezzo, la tradizione nazionale ha elevato i normaliens a punta di diamante dello stato pedagogico e ne ha fatto, tra il 1871 e il 1914, i garanti del riscatto della patria. Era l’ideale prosecuzione di quel che gli instituteurs, i maestri di scuola esaltati da Péguy e dalla mistica repubblicana avevano rappresentato per la formazione della coscienza nazional-popolare. Lo sfondo era rappresentato da un quartiere latino, repubblica nella repubblica, capitale nella capitale, modellato intorno alla Scuola Normale e alle classi preparatorie o khâgnes dei licei più prestigiosi. […] Il caso ebraico era altro elemento importante di questo panorama.

[…] Nel corpo docente dell’ENS, allorché Aron vi si affaccia ventenne, aleggia l’influenza del direttore radicale Célestin Bouglé, ma troviamo alla sua destra l’accademico tradizionalista, poi pétainista, André Bellesort, e alla sua sinistra il pensatore pacifista Alain, che diventerà la prima vera guida spirituale sua e del coetaneo Jean-Paul Sartre. Oggi nessuno legge più Alain, forse perché ha il torto di essere il più comprensibile e il meno tormentato tra i filosofi del secolo che si è chiuso. […] Mi sembra sintomatico che Aron sia sempre rimasto moralmente, se non politicamente, fedele alla sua lezione e alla sua figura, mentre Sartre la rinnegò – o superò – completamente. Era la ricchissima e drammatica generazione del 1905, che contava oltre a Sartre e Aron, Nizan e Merleau-Ponty, Lévi-Strauss e Julien Gracq, Bidault e Soustelle, Brasillach e il futuro cognato Bardèche ed altri ancora.. Notazione non indifferente nei loro rapporti futuri: Aron è primo in classifica al concorso della docenza in filosofia nel 1928 in cui Sartre è respinto. Sartre si riprenderà piazzandosi al primo posto a sua volta, ma l’anno dopo. Tutti insieme questi giovani continuavano la ricerca di “isole” e di cenacoli di forte complicità umana e di comuni passioni civili, che rimandava a precedenti come la “turne Utopie” di Péguy e Mathiez ai tempi dell’affare Dreyfus. Né poteva mancare il femminismo, con diversi nomi di spicco tra cui Simone Weil, allora non molto popolare tra i condiscepoli. E’ un clima che troviamo riprodotto in molti ricordi di testimoni e protagonisti e che Aron ha descritto con mano felice: “La mia prima impressione a rue d’Ulm fu di meraviglia (…). Oggi ancora me ne chiedo il perché e mi rispondo, in tutta franchezza e ingenuità, che non ho mai trovato tanti uomini intelligenti in così pochi metri quadri (…). Anche quelli che giudicavamo talvolta severamente animavano la loro cultura con una forma di gioventù dell’intelligenza.” 

Jeunesse d’intelligence, intelligenza complice tra i giovani. Ecco la formula chiave. Motivi vecchi e nuovi venivano agitati e rimescolati nel fervore di progetti e d’illusioni: estetismo e critica dei mali della patria, goliardia e bisogno di fare sul serio per entrare senza tutori nella Vita maiuscola. […] I giovani mandarini crescono tra la Sorbona e rue d’Ulm nell’inebriante presunzione di possedere, con le chiavi della storia, quelle della verità. Spetta a loro sovvertire e ricostruire il vecchio mondo. E’ il messaggio che annuncia gli esteti armati, distruttori dell’ordine borghese, che metteranno a “sangue e inchiostro”, non potendo ancora farlo a ferro e fuoco, la fragile Europa degli anni Trenta, i cui confini non sono più tracciati da Versailles, ma dalla Spagna, da Monaco e dal nuovo conflitto. Attenzione alle date e ai simboli: nel 1927, Freud, entrato nella sua tarda fase di marcato pessimismo, pubblica un saggio intitolato “L’avvenire di un’illusione”. Più di mezzo secolo dopo, tirando le somme degli inganni di due o tre generazioni d’intellettuali europei, l’ex comunista François Furet diventerà il portavoce della neo-intellighenzia liberale, legittimando tardivamente la lezione di Aron, parlando del passato di un’illusione. E’ singolare che nessuno abbia tratto un parallelo tra i due titoli e i due momenti. 

Il cinquantennale dialogo interrotto tra gli ex petits camarades è oggi giustamente considerato il segno più emblematico di quella stagione. Dobbiamo limitarci qui solo a riproporne i momenti salienti. Aron lascia Parigi e la Scuola Normale per un lettorato a Colonia nel 1930. Da lì passa a Berlino e resterà in Germania complessivamente tre anni: abbastanza per assistere, dall’epicentro del dramma – la capitale multietnica e multirazziale, odiata da Hitler e dal moralismo nazista - all’avvento del Terzo Reich. E’ un’altra fondamentale esperienza che peserà sul distacco tra i due petits camarades, per il diverso modo in cui l’affrontano e la vivono. Aron si mostra subito consapevole della disgregazione di Weimar e dell’avvento, non provvisorio né casuale, del nazismo. La capacità di interpretare senza pregiudizi la realtà che lo circonda, ad esempio nel registrare il successo popolare delle prime misure di opere pubbliche avviate dal regime, lo allontana per sempre dal generico pacifismo socialista in cui è cresciuto. Sartre quando gli succede all’Istituto francese di Berlino – anche qui, simbolicamente, l’anno dopo – è invece immerso nella scoperta di Husserl e Heidegger, pressoché sordo e cieco a quanto gli accade intorno. Sartre attribuirà successivamente questo atteggiamento all’autoinganno cui lo aveva condotto l’ambizione di diventare un grande letterato e filosofo “ e basta”, nel solco della tradizione umanistica, quindi al servizio della classe dominante. Un’autocritica che confluisce nel processo che egli intenta al normalien che fu, inserito per origine, studi e scarsa sensibilità politica nei ranghi dei futuri mandarini: coloro che, “nel 1920 o nel 1930 si consideravano un’élite ed io avevo orrore dell’élite borghese, della morale borghese.” Questa mancanza di consapevolezza aveva prodotto tra le due guerre l’estetismo quale unico sbocco contro l’oppressione borghese: una condizione che si compendia nell’immagine del monocolo e delle ghette del condiscepolo Paul Nizan, scagliati contro la coscienza infelice. 

[…] Sartre dedicherà invece a Nizan una delle sue pagine migliori, la prefazione alla ristampa, nel 1960, di Aden Arabie, in cui traspare il rimorso di non aver fatto di più per capire e aiutare l’amico. Sartre ha affermato che il momento di svolta si verificò per lui, come per la maggior parte della sua generazione, con il trauma del 1939-40. La guerra, la sconfitta, la prigionia gli consentiranno di scoprire “che cosa significa essere nella storia, far parte di una storia che si determinava momento per momento, attraverso eventi collettivi.” Per la verità, i taccuini di allora, apparsi postumi insieme con la parte più voluminosa del carteggio con la Beauvoir, fanno stato ancora di molte incertezze e tentazioni di fuga nel ruolo di letterato puro. Se li confrontiamo con le cronache dell’Aron rifugiato a Londra, già in pieno possesso del talento giornalistico di cui darà prova per tutta la vita, possiamo legittimamente chiederci chi sia stato il primo e più lucido “spettatore impegnato” tra i due. E alla lucidità Aron accompagna subito l’indipendenza di giudizio, dissociandosi dalle frange più bigotte e bonapartiste del movimento gollista, il che gli chiuderà in faccia le porte di una carriera politica o di consigliere aulico, prima ancora della Liberazione. 

L’impegno politico di Sartre nasce a tutti gli effetti non nel 1939 ma nel 1945, senza partecipazione attiva o comunque rilevante alla resistenza, e dopo che le sue prime opere teatrali sono state messe in scena con il consenso della censura nazista di Parigi. Non è certo una colpa in sé: ma nel morbo dell’engagement che lo coglie allora e che non lo abbandonerà più, aleggia un certo senso di colpa. Se, finita la guerra, i ceti medi hanno ripreso il controllo del sapere-potere, cioè dell’uso della storia, la lotta di classe costituisce per Sartre il momento della resa dei conti definitiva. La borghesia, in senso morale e comportamentale prima ancora che economico, non viene più irrisa o disprezzata, ma demonizzata; non suscita più solo “nausea”, bensì appello alla distruzione attiva. Tradito dalla borghesia, l’intellettuale riconquista la libertà all’atto di tradirla a sua volta. […]
Aron, destinatario di molti insulti e di molte accuse degli ascari sartriani sin dall’immediato dopoguerra, ha replicato da par suo elevando il tono ad una riflessione critica sulla propria generazione, che trova il momento più rappresentativo, a metà degli anni Cinquanta, nell’Opium des intellectuels. Fu anche il primo libro che allargò la sua udienza nel campo avverso, il primo che gli ex petits camarades, e non solo Sartre, furono costretti a leggere. Il non più giovane pensatore, armato solo di “scienza e di coscienza”, trovava finalmente ascolto nella nebulosa degli intellettuali progressisti europei, fino ad allora proni in maggioranza ai dogmi del radioso avvenire. Era la scossa provocata dalle crepe del sistema affiorate nella RDT, in Polonia, in Ungheria. Il merito di Aron fu di dimostrare implacabilmente che non si trattava di episodi ma della logica stessa del sistema. Aron affronta e demolisce molti dogmi politici di allora, in particolare la presunta legittimazione dell’URSS come nazione vittoriosa e custode del divenire storico. 

Sul piano concettuale, nessuno meglio di lui ha saputo denunciare l’equivoco, insito nei miti politici e nell’idolatria della storia – descritti nelle due prime e migliori sezioni dell’opera – che consiste a leggere selettivamente la realtà per cogliervi solo ciò che serve. Questo “equivoco della realtà” fa sì che l’interpretazione nominalista degli eventi storici si sostituisca alla loro analisi oggettiva. La rivoluzione diventa un mito e un culto a sé stante, svincolato dagli obiettivi concreti, politici, sociali, economici ecc. che l’hanno prodotta. In tal modo l’intellettuale cerca di rientrare in posizione di forza nella Storia maestra, di farsi interprete dei bisogni collettivi, distinguendo lui, e solo lui, il bene e il male. E’ la carica sacerdotale che caratterizza non il pensatore o l’educatore “laico”, ma il demiurgo che si trasforma in cattivo maestro: colui che consuma e al tempo stesso somministra “l’oppio”, e non si ferma, se lo ritiene necessario, fino a invocare il boia e il massacro, le bourreau et le boucher. Una citazione non per nulla tratta dal Diavolo e il buon Dio di Sartre, perché il cattivo maestro per eccellenza è ormai lui. Optare per l’avanguardia proletaria, per il castrismo, il maoismo, l’operaismo, la difesa di un proletariato sempre meno omogeneo e indifferenziato, significa per l’ex pupillo di rue d’Ulm cercarsi un “nuovo status popolare”, rinnegando “il mio pubblico, un pubblico borghese nel senso vero del termine”, che lo legge e che gli dà da vivere, mentre gli operai non lo hanno mai letto e non lo leggeranno mai. Commenta Aron: “Non esiste proletariato mondiale nel cuore del Ventesimo secolo (…) Sartre è ossessionato dal bisogno di autenticità, di comunicazione, di libertà. Il radicalismo etico, combinato con l’ignoranza delle strutture sociali, predispone al rivoluzionismo verbale. L’odio della borghesia distoglie da riforme prosaiche. Così un filosofo che esclude ogni totalità reintroduce la vocazione della classe operaia, ignorando la contraddizione meno superata che dissimulata.” 

Negli anni cinquanta e sessanta, Sartre oscilla costantemente tra mito rivoluzionario sovietico e cinese e ribellismo terzomondista. Il problema è che, mentre contribuisce a demolire gli idoli che l’hanno deluso (il che ne farà uno dei critici più efficaci della repressione in URSS), fa sempre più fatica a trovare una causa con cui identificarsi sul serio. E’ un essere tormentato che, malgrado il suo enorme carisma, attende la palingenesi e continua a predicare lo scontro, da cui dovrà emergere “un uomo nuovo e migliore”, come si legge nella notissima prefazione ai Dannati della terra (1961) di Franz Fanon, in cui Sartre si erge contemporaneamente a giudice del capitalismo, del colonialismo e dello stalinismo. Un uomo nuovo, frutto “della sola violenza concepibile, quella della libertà sulla libertà”: bella se non chiara metafora, ma pur sempre di violenza si tratta. Aron ha risposto a questa “pretesa universalista” degli intellettuali francesi, “che sono da questo punto di vista i più intellettuali del mondo”, in una delle sue pagine più limpide: “Appartengo alla scuola dei teorizzatori politici che ritengono che non si debba mi scegliere tra il bene ed il male, ma tra i gradi ineguali del male e del bene.” Parole tutte da meditare oggi che, morto Sartre, non è certo tramontata la pretesa universalista degli intellettuali, francesi e non, specie di quelli che non hanno perso il gusto di sfilare o saltellare in corteo. […]

La rivolta del ’68, quando il mito dell’Unione Sovietica custode dell’internazionalismo socialista si sta sgretolando nel mondo intero, ripropone provvidenzialmente il mito di una rivoluzione nata dallo spontaneismo giovanile. La fiammata di maggio esalta e mette definitivamente a nudo il carattere affabulatorio dell’impegno sartiano. Finalmente ha trovato una causa con cui identificarsi interamente e la violenza ludica con cui metterla in pratica. […] Sartre in piedi su di un podio improvvisato, davanti alla fabbrica ma non agli operai di Billancourt, sotto i riflettori e le telecamere, strappa ad Aron un commento devastante: “Che fare in un paese nel quale uno dei corpi più importanti, vale a dire gli intellettuali coperti di gloria, ammira solo la distruzione, senza concepire un ordine in grado di sostituire quello che vuole distruggere? Non trovo risposte.” Il contraccolpo delle barricate su Aron, che pure aveva criticato da tempo l’immobilismo del sistema universitario francese, sarà di spingerlo verso il potere costituzionale del mai troppo amato de Gaulle. E’ giunto il suo momento di “turarsi il naso”, anche se evita di apparire con Malraux in testa al corteo gollista (anche loro!) che sfila sui Campi Elisi. Inutile dire che, finita la bisogna, l’autore della Révolution introuvable non sarà nemmeno ringraziato : ancora una volta ha avuto il torto di capire che l’ondata goliardico-giacobina del maggio non può essere riassorbita dal trionfo dei notai e dei notabili. 

E Sartre? L’agité du bocal, come lo definì perfidamente Céline, ha scelto di muoversi sul palcoscenico della storia, prendendo hegelianamente sul serio quell’idea dello Stato etico alla quale nessuno di assennato (in Occidente) si sognava più di prestar fede, dopo la stagione dei fascismi, e che restava semmai appannaggio del realismo socialista. Nel campo avverso erano finiti i coetanei e gli ex petits camarades, i “cani da guardia” di Nizan, i “falsi intellettuali”, come egli bollava Aron. […] Dietro l’immagine di vecchio saggio che Aron ha in parte alimentato, in parte subìto, non è mai venuta meno la componente di inquietudine che gli impediva di identificarsi pienamente con il campo dei conservatori. Ci sarebbe molto da dire e molto da riflettere sulle delusioni accumulate, dopo l’effimera esperienza politica alla Liberazione, dal filosofo senza veri discepoli, dal liberale senza partito. E ancora: dal sostenitore dell’unità politica dell’Occidente, incapace di far capire fino in fondo ai francesi il significato dell’alleanza transatlantica ed agli americani l’essenza dell’esprit de finesse gallico; o dall’ebreo parigino, lontano dal messianismo sionista come dai pregiudizi benpensanti dei lettori di Passy o di Neuilly, che trovavano spesso con fastidio la sua firma in calce ai mordenti editoriali del “Figaro”. Un pensatore che, secondo una sua celebre battuta, “non ha avuto colpa, se aveva troppo spesso ragione”; ma un uomo che talvolta sembra aver sofferto di un altro paradosso, quello di non riuscire a sbagliare con i propri simili, avvertendo il calore della loro solidarietà. […]

Giugno 1979. I disperati in fuga dal Vietnam, i boat people, turbano la coscienza del mondo. Sartre e Aron si ritrovano dopo decenni, per un primo incontro che sarà anche l’ultimo. Giungono separatamente all’Eliseo, ma vengono ricevuti insieme dal presidente Giscard d’Estaing, al quale chiedono di consentire l’ingresso in Francia ai profughi. L’occasione è grave, ma anche ghiotta per i mass-media che possono finalmente riprendere il Premio Nobel malgré lui, agonizzante e gonfio di cortisone, accanto allo scienziato della politica, che con la politica politicienne non ha avuto alcunché da spartire. Aron gli si avvicina sotto i riflettori, lancia un “Salut, petit camarade!”. Quel che risponde Sartre, se gli risponde, si perde nella confusione. 

[…] Sono passati ormai poco più di vent’anni dalla morte di Sartre e vent’anni esatti da quella di Aron. Da allora la popolarità del primo non accenna a diminuire, contrariamente a quel che di solito avviene con intellettuali che furono troppo attuali in vita per tracciare un solco profondo. Egli è probabilmente lo scrittore francese più discusso, citato e tradotto del Novecento, e non sono sicuro che ciò dipenda solo dall’importanza indiscussa del letterato, rispetto alla caducità del filosofo e dell’agitatore politico. Vi è un fascino della “libertà” sartriana, e del modo con cui egli seppe esercitarla e predicarla, che è passato nella storia del costume e continua ad alimentare speranze (o illusioni?) sul posto dell’intellettuale al centro della società. La fama di Aron, nonostante la bontà di molte sue scelte, verificata nei fatti e non solo sui libri, rimane limitata a un pubblico circoscritto, anche se in apprezzabile crescita. La morale possiamo lasciarla a Michel Field, un filosofo passato al vaglio della stagione sessantottesca: “Aron aveva forse ragione. Ma se ne fregano tutti: era meglio sbagliarsi con Sartre. Sartre era la vita, con il rischio di sbagliarsi.” Senza dimenticare che Aron ha predicato virtù scomode, come l’umiltà intellettuale e l’empirismo, sconosciute alla vulgata sartriana. […]

25 aprile 2003


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