Raymond Aron e gli Stati Uniti
di Ludovico Incisa di Camerana

[…] E’ in un contesto esente da punte nazionaliste e in un’ottica positiva che Aron giudica la politica estera degli Stati Uniti dall’indipendenza in poi. Obbedendo ad una visione geopolitica razionale, la diplomazia americana fin dal suo avviamento da un lato si sgancia dal ginepraio bellico europeo, dall’altro segue una strategia di espansione, che mira sia all’unificazione territoriale dell’America settentrionale sia allo stabilimento di un potere egemonico nell’insieme delle Americhe. E’ la politica del manifest destiny. Il punto di partenza è il nucleo dei 13 Stati della costa orientale, che basano la propria forza di espansione sulla loro apertura alle migrazioni estere e su una capacità di colonizzazione agraria che, non avendo riscontro nei paesi vicini, non trova difficoltà nella penetrazione dell’interno spingendo la frontiera dell’Unione a ridosso dei possedimenti costieri dell’impero spagnolo nella Florida e nella costa del Pacifico, della Francia nella costa caraibica, al termine della valle del Mississippi (Luisiana), della Gran Bretagna nel Canada. 

[…] Le conquiste militari come le cessioni pagate sono state accompagnante da una politica tutto campo, che mira ad escludere dal continente americano le grandi potenze europee, come proclamerà nel 1823 il presidente Monroe. La “dottrina Monroe” rispetta i diritti sui possedimenti esistenti, ma si oppone a nuovi tentativi di colonizzazione. Il rovescio occulto della dottrina Monroe è quello di impedire nelle Americhe non solo la presenza di potenze europee ma anche la formazione di nazioni rivali locali […] A vantaggio degli Stati Uniti giocherà la frammentazione dei vicereami spagnoli dell’America meridionale e il fallimento del progetto del Libertador venezuelano Bolivar di un’organizzazione federale che avrebbe escluso gli Stati Uniti. Non a torto Aron ravvisa in questa concatenazione di eventi in maggioranza favorevoli la rispondenza a un disegno diplomatico realizzato con coerenza ed abilità, non interrotto dalla guerra di secessione ma anzi incoraggiato dalla vittoria sulla parte arretrata dell’Unione, il Sud, dalla parte più dinamica, il Nord, costantemente arricchito dalle migrazioni europee. […] Potenza terrestre se si tiene conto delle sue dimensioni territoriali ma potenza insulare, come sostiene Aron, nei suoi rapporti extracontinentali, seguendo un orientamento analogo a quello dell’Inghilterra, che rinuncerà a contrastare l’influenza politica nordamericana nell’America meridionale. E già ai primi del Novecento si delinea un interesse comune delle due potenze anglo-sassoni ad evitare la creazione di egemonie continentali da parte della Germania e poi dell’Urss in Europa e del Giappone in Asia Orientale, donde l’alleanza nelle due guerre mondiali e nella guerra fredda dell’asse insulare anglosassone contro le potenze continentali. 

Man mano che l’analisi arriva ai tempi più recenti, Aron non manca tuttavia di sottolineare le difficoltà e le incertezze della politica estera americana. Così, riferendosi ai retroscena della II Guerra mondiale ed in particolare ai convegni di Teheran e Yalta, che riuniscono Roosevelt con Churchill e Stalin, condanna l’atteggiamento passivo assunto dal presidente americano, che non sostiene il premier inglese su questioni come la manomissione sovietica sulla Polonia e in genere la sorte dell’Europa dell’Est. Aron, tuttavia, lo addebita alla priorità data da Roosevelt alla vittoria militare e alla richiesta da lui rivolta a Stalin dell’intervento contro il Giappone, intervento che, sopraggiungendo quando l’impero nipponico è sul bordo della resa, si rivelerà più dannoso che utile. 

Aron critica inoltre il disegno attribuito a Roosevelt di una triangolazione postbellica Urss- Stati Uniti-Gran Bretagna. […] In sostanza Aron rileva il rischio di una atteggiamento, quello della presidenza Roosevelt, che abbinava al pragmatismo militare adottato in guerra (la vittoria prima di tutto) una visione utopistica basata sul ruolo principe degli Stati Uniti in quella nuova incarnazione dell’universalismo wilsoniano rappresentata dalle Nazioni Unite. Questa concezione verrà superata dalla dottrina Truman. Infatti, la politica seguita dai sovietici nei territori occupati, le pressioni sovietiche sulla Turchia e l’inizio della guerra civile in Grecia costringono il successore di Roosevelt ad avviare una politica di endiguement, il containment. Donde l’inevitabilità della guerra fredda e la confutazione del revisionismo di quelle tesi che attribuiscono tutti i torti della tensione bipolare agli Stati Uniti. […] Ma l’intervento americano presuppone una precisa richiesta degli europei: “E’ su domanda degli europei che è stato firmato il Patto dell’Atlantico del Nord. – specifica Aron – Ed è stato su domanda degli europei come degli americani che tornò in Europa come comandante delle forze armate dell’organizzazione del trattato dell’Atlantico Nord, colui che aveva comandato la crociata contro il III Reich [Eisenhower]”. Se, vent’anni più tardi, - soggiunge Aron - un ‘protettorato’ militare degli Stati Uniti persiste in Europa, sono gli europei stessi che l’hanno chiesto con i loro voti”.

Nel 1956 la guerra di Corea porterà alla militarizzazione del sistema americano: contrariamente al passato gli Stati Uniti costituiranno un dispositivo militare permanente, con capacità d’intervento in ogni area. Nel 1956 la crisi di Suez spegnerà le illusioni di grandezza di due potenze ex grandi, la Francia e la Gran Bretagna, che dovranno rendersi conto del risvolto ‘egemonico’ della protezione americana: “Uno Stato protetto non può pretendere una libertà d’azione militare all’esterno”. A questa situazione subordinata reagirà la politica estera francese dopo l’avvento al potere nel 1958 del generale de Gaulle, che si atterrà in due periodi scottanti, la crisi di Berlino nel 1961 e l’anno seguente la crisi cubana ad un corretto lealismo verso gli Stati Uniti, durante la presidenza di Kennedy, ma rivendicherà l’autonomia della Francia sul piano militare e diplomatico. Peraltro non sarà colpa di de Gaulle se la politica estera americana entrerà in una fase negativa. Durante la presidenza Johnson non viene percepita la portata del dissenso cino-sovietico e si considera a rischio nella guerra del Vietnam, in base alla teoria dei domino, tutto l’assetto dell’Asia sud-orientale, dando corso ad un impegno militare sempre più impopolare negli Stati Uniti e nella stessa alleanza occidentale.

Accade così che nel decennio dei ‘60 la politica estera americana si offuschi, proprio dopo aver raggiunto l’apice in occasione della crisi dell’ottobre 1962, quando l’Urss è costretta a rinunciare all’installazione di basi missilistiche a Cuba. Da allora in poi si apre per la diplomazia americana una spirale negativa, una caduta, come si esprime Aron, dalla “Rupe Tarpea”. La svolta “realista” della politica estera americana. Toccherà al presidente Nixon e al suo consigliere, poi segretario di Stato, Kissinger una folgorante ripresa diplomatica: con l’adozione di una politica estera “realista” di scuola europea, alla Metternich, uno dei santi patroni di Kissinger. Aron non nasconde la sua ammirazione per quest’ultimo e alludendo alla critiche rivoltegli per i bombardamenti ordinati sul Vietnam del Nord per costringerlo a negoziare, scrive: “I commentatori di sinistra parlano del mistero Kissinger: com può dormire tranquillo questo professor che non manca né di spirito né di umanità dopo aver dato degli ordini che provocano la morte di tanti individui? Mi sono posto la domanda che comporta un’unica risposta: solo può porsi la domanda colui che non è nato per divenire Principe e nemmeno per diventare consigliere del Principe”. 

Il saggio di Aron sulla politica estera americana si chiude nel 1972. Tre anni dopo la penisola indocinese cadrà nelle mani dei comunisti: a Washington Nixon è stato costretto ad un’abdicazione ignominiosa e Kissinger dovrà passare la mano ad una politica estera che, secondo il nuovo Presidente Carter, dovrebbe respingere il realismo machiavellico del duetto Nixon-Kissinger. Ma in realtà il realismo ha funzionato. L’approccio verso una Cina, sempre più antisovietica, ha evitato una caduta a cascata dei domino asiatici: sarà Pechino a fermare a mano armata le velleità espansioniste del Vietnam del Nord. Ma Nixon e Kissinger hanno messo da parte il moralismo universalista wilsoniano. […] Aron comprende che questa incorporazione nella politica estera americana di un’impostazione realista, che peraltro sotto un idealismo di facciata non era affatto assente in precedenza, è irreversibile, donde per un certo periodo fino alla caduta del muro di Berlino l’esistenza di un corso parallelo tra la diplomazia europea sempre fortemente impregnata di realismo e la politica americana. Ma in realtà sull’altra riva dell’Atlantico, anche perché non si è letto Aron o lo si è letto male, non si è compreso in quale misura il realismo era stato definitivamente incorporato nella politica estera americana. […] Oggi come allora c’è un solo modo di ricostruire le relazioni transatlantiche, la via comune degli interessi comuni, la via del realismo, la via di Aron. 

25 aprile 2003


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