Tecnica vs. bio-diversità?
di Sergio Dompé

Anche se è difficile immaginare che cosa possa essere fatto di più e meglio per garantire la sicurezza dei processi biotecnologici utilizzabili nei settori produttivi agricoli ed alimentari, bisogna riconoscere che le valutazioni di merito sulla penetrazione di una nuova tecnologia di produzione di beni e servizi abbracciano – di norma – considerazioni che vanno molto al di là del semplice riconoscimento che il dettato primum non nocere sia stato rispettato. E’ ovviamente compito di scienziati e tecnologi quello di sviluppare ulteriormente le basi conoscitive e le tecniche sperimentali atte ad assicurare un progresso applicativo delle moderne tecnologie biologiche, in cui rischi e benefici siano accuratamente vagliati e costituiscano elementi di rispetto e non di sospetto sociale. Appare tuttavia evidente che le garanzie di sicurezza non bastano e che questa, come qualsiasi nuova tecnologia, potrà affermarsi unicamente a condizione che i benefici siano reali e che i rischi ad essi associati siano valutabili e controllabili. Come scrive Jeremy Rifkin, “è un fatto che molti dei nuovi prodotti e processi della nascente rivoluzione biotecnologica sono potenzialmente vantaggiosi; se non lo fossero, non avrebbero mercato [e] le aziende non sono in affari per vendere prodotti e fornire servizi che il pubblico non desidera”.

Le considerazioni che seguono vertono esattamente su questo punto, sulla desiderabilità complessiva di un’innovazione tecnologica che – come tutte le innovazioni di peso sostanziale in ambito produttivo – non sarà sicuramente indolore per tutti i produttori coinvolti e non avrà per tutti gli utenti intermedi e finali il medesimo peso e significato. La nozione di sviluppo sostenibile, messa in evidenza dalla Conferenza Unep di Rio 1992, in materia di agricoltura è essenzialmente focalizzata sulla necessità di salvaguardare la diversità genetica (o biodiversità) del pianeta. La biodiversità vegetale comprende l’intero patrimonio genetico di tutte le specie e varietà di piante coltivate in un particolare territorio, inclusi i loro parenti selvatici o semi-domestici, unitamente all’intera flora locale. In effetti, quanto maggiore è questo patrimonio tanto più ampia è la diversità biologica e quindi la possibilità di sviluppare nuove varietà vegetali e nuovi cultivar.

L’impatto sulle produzioni agricole

La Convenzione sulla Diversità biologica siglata a Rio sancisce che la biodiversità è un bene prezioso e che è necessario: a) preoccuparsi della sua conservazione; b) utilizzare le sue componenti in modo sostenibile; c) condividere in modo equo i suoi benefici. Non vi è nulla in quanto evidenziato finora in materia di ingegneria genetica delle piante che contrasti con questi princìpi. Anzi – con specifico riferimento alla biodiversità vegetale – la moderna genetica prospetta la possibilità di utilizzare la diversità biologica combinando e/o associando i geni esistenti negli individui di singole specie in modo tale da esprimere i caratteri desiderati a scopo agronomico (produttività, resistenza a malattie) e/o alimentare (valori nutrizionali, proprietà organolettiche). Appare del tutto razionale che le nuove tecnologie biologiche possano contribuire a recuperare alcuni dei danni prodotti dagli ultimi cinquant’anni di agricoltura intensiva, che hanno drasticamente ridotto il numero di varietà vegetali coltivate, imponendo quelle maggiormente adattate all’elevato carico chimico di erbicidi e fitofarmaci utilizzati ed alle esigenze di meccanizzazione.

In altre parole, i metodi tradizionali di propagazione delle piante hanno progressivamente selezionato le varietà vegetali in funzione delle pratiche agricole correntemente utilizzate più che della qualità dei prodotti risultanti. In campo vegetale, le tecnologie del Dna ricombinante aprono quindi interessanti prospettive non solo per una riduzione e razionalizzazione nell’uso di prodotti chimici nelle pratiche agricole, ma anche per l’arricchimento del patrimonio genetico delle piante coltivate: ad esempio, è del tutto possibile ipotizzare il recupero di caratteristiche genetiche di varietà non più coltivate perché non sufficientemente produttive nelle attuali condizioni di coltivazione. Si tratta di un’ipotesi di lavoro estremamente interessante per l’Italia – uno dei Paesi del mondo più ricchi di risorse genetiche vegetali – che, mediante un’accorta utilizzazione delle moderne tecnologie biologiche a disposizione di un breeding mirato, potrebbe rivitalizzare un’industria sementiera oggi largamente dominata dalle importazioni.

L’argomento che le tecniche di ingegneria genetica mettano in atto processi di concentrazione della produzione e di riduzione del patrimonio genetico sono comprensibili solo in una logica monopolistica, estranea all’attuale situazione di mercato competitivo. Esso non tiene conto inoltre che, in agricoltura, le esigenze e condizioni locali (tradizione, clima, natura del terreno, ecc.) sono comunque prevalenti. L’ipotesi della super-pianta, frutto dell’ingegneria genetica, che rimpiazzi definitivamente tutte le altre piante coltivate appartiene al mondo della fantasia, così come sarebbe irrealistico ipotizzare la super-automobile frutto della meccanica o il super-carburante frutto della chimica. Ogni tecnologia ha un suo divenire, ed in un mondo libero la competizione sarà sempre prevalente.

Appartengono alla categoria dei costi agricoli extra-mercato le sovvenzioni a carico dei fondi di garanzia della Politica agricola comunitaria (Pac), non meno che i sicuri aumenti dei prezzi delle materie prime alimentari nell’Unione europea in caso di adozione di barriere alla libera circolazione delle merci basate sulla discriminante biotecnologica. Altra partita invisibile nei valori di mercato delle produzioni agricole è costituita dai costi di recupero ambientale dei danni ecologici attribuibili alle correnti pratiche agronomiche. Una migliore integrazione delle produzioni industriali che forniscono mezzi tecnici all’agricoltura (sementi, fitofarmaci, concimi, mangimi, ecc.) e di quelle agricole che li utilizzano non può che favorire una complessiva acquisizione di responsabilità nel mantenere o rifiutare politiche protezionistiche e nel contabilizzare compiutamente i costi ambientali. Nell’Unione europea, varie politiche autarchiche o pregiudizievoli all’ambiente (carbone, acciaio, energia nucleare) sono state prima o poi abbandonate – con indubbi vantaggi sui costi di approvvigionamento per i consumatori – e c’è da chiedersi se la Pac ed i suoi corollari potranno sfuggire a tale destino.

In questo contesto, l’offerta di nuovi prodotti e servizi biotecnologici da parte dell’industria fornitrice di mezzi tecnici all’agricoltura deve essere valutata in un quadro complessivo di razionalizzazione dei costi delle produzioni agricole, che facciano emergere – a vantaggio della società nel suo complesso – molti degli elementi di costo invisibili ma sostanziali. Il problema non consiste unicamente nel confrontare i rischi/benefici ambientali ed economici certi dell’agricoltura correntemente praticata a fronte di quelli ipotetici di un’agricoltura tecnologicamente più evoluta. Appare del tutto evidente come gli orientamenti produttivi dell’agricoltura europea debbano essere visti in termini pragmatici e non ideologici e come la valutazione seria di una nuova tecnologia non possa limitarsi ad inconcludenti e sterili dibattiti tra “favorevoli” e “contrari”.

Produzioni agricole nei paesi in via di sviluppo

Una voluminosa e dettagliata analisi delle Nazioni Unite afferma che “Storicamente, la tecnologia è stata un potente strumento per lo sviluppo dell’umanità e per la riduzione della sua povertà”. Nell’ambito di questa concezione, tra le nuove tecnologie oggi disponibili per un effettivo incremento delle risorse alimentari vengono considerate cruciali le applicazioni biotecnologiche al miglioramento delle correnti pratiche agricole per la produzione di cibi e mangimi. Il dato di partenza di questo scenario è visualizzabile in un miliardo di persone che soffre e muore di fame nell’ambito di una popolazione mondiale attuale di sei miliardi di persone: come proiettare lo sviluppo e la nutrizione di una popolazione mondiale avviata a raggiungere i dieci miliardi di individui entro cinquant’anni? Qui è prospettato e discusso unicamente il contributo delle biotecnologie anche se, ovviamente, altre misure – di natura non necessariamente tecnologica – dovranno accompagnare lo human development in un contesto di sostenibilità globale, che non si preoccupi solo delle difficoltà e delle iniquità del momento ma che identifichi soluzioni valide ad anticipare ed evitare crisi future.

In questo contesto, appare del tutto razionale che l’ingegneria genetica delle piante permetta di migliorare la produttività dell’agricoltura del Terzo mondo, dove è maggiormente concentrata una cronica situazione di insufficiente nutrizione: le tecnologie del Dna ricombinante permettono infatti, tra l’altro, lo sviluppo di varietà vegetali capaci di sfruttare al meglio le scarse risorse energetiche e nutrizionali esistenti in natura. Inoltre, se è vero che molte pratiche agricole del Terzo mondo sono meno dipendenti dall’impiego di prodotti chimici di protezione, non per questo hanno avuto ed hanno meno impatto negativo sull’ambiente: salinazione (a causa di impiego di acque di falda per l’irrigazione), aridità (a causa di coltivazione di piante non adatte alle situazioni climatiche locali), perdita di fertilità (a causa di insufficienti apporti nutrizionali), distruzione di biodiversità (a causa della trasformazione di foreste tropicali ed equatoriali in coltivazioni) sono solo alcune delle manifestazioni del progressivo degrado di due terzi delle nuove terre destinate nel mondo ad uso agricolo. Anche questa sembra una situazione senza uscita: ribadito che il modello agricolo occidentale non è esportabile nelle aree in via di sviluppo, non appare neppure possibile immaginare che l’Occidente aumenti ulteriormente la propria produzione per dare da mangiare al resto del mondo, ed è ugualmente improponibile che il Terzo mondo continui sulla strada attuale.

Anche dal punto di vista ecologico appare necessario un salto di qualità, che permetta di riequilibrare le condizioni complessive di input/output agricolo, pur mantenendo i migliori livelli di produttività raggiunti alla fine del Secondo millennio. Il miglioramento genetico delle piante consente lo sviluppo e l’impiego di specie coltivate in grado di autodifendersi dalle malattie e dalle condizioni ambientali avverse e di utilizzare l’azoto atmosferico, riducendo così l’impatto ambientale delle pratiche agricole oltre ad incrementare qualità e quantità dei loro prodotti. A valle delle considerazioni esposte in questi primi quattro “buoni motivi”, concernenti essenzialmente il potenziale benefico impatto sulle produzioni agricole, limitatamente a valutazioni all’interno del settore produttivo agricolo ci si può attendere, a corto/medio termine, una maggior competizione tra i produttori di sementi, ma non un sostanziale aumento del valore complessivo delle sementi vendute; al più, per quelle imprese o gruppi che hanno anche una forte presenza sul mercato dei fitofarmaci, si osserverà uno spostamento dei valori aggiunti dalle tecnologie chimiche a quelle biologiche. E' importante osservare come quasi tutte le imprese sementiere oggi in grado di offrire agli agricoltori piante geneticamente modificate abbiano consolidate posizioni sul mercato delle varietà ottenute con tecniche di breeding tradizionale: una varietà geneticamente modificata resistente ad erbicidi o parassiti sarà soltanto un’altra voce nel loro catalogo, comprendente in ogni caso molte decine di varietà non resistenti.

Dal punto di vista degli agricoltori, l’offerta di sementi geneticamente modificate con particolari caratteristiche può andare da un forte interesse economico diretto (come il minore costo per erbicidi nella coltivazione della soia) ad un interesse del tutto marginale (per esempio: granturco resistente alla piralide per coltivazioni in zone non infestate dalla piralide). E’ poi necessario aggiungere che, nel caso di una situazione come quella delle produzioni agricole europee, largamente dominata da sovvenzioni e prezzi di sostegno, è molto difficile trasformare i miglioramenti di produttività e di qualità in valori di mercato. In sostanza, i vantaggi ottenibili dall’agricoltore utilizzando sementi geneticamente modificate possono essere molto variabili, e dovranno venire valutati caso per caso: tuttavia, in linea generale non esistono controindicazioni al fatto che gli agricoltori intenzionati a produrre molto e bene trovino sul mercato quei prodotti della tecnologia che meglio si addicono alle loro esigenze.

Con ogni evidenza, lo sviluppo delle biotecnologie agricole coinvolge una visione integrata di argomenti tradizionalmente separati dal punto di vista delle “politiche” nazionali, ed appare evidente come appartenga alla responsabilità dei singoli paesi membri delle varie organizzazioni internazionali quella di contribuire con posizioni e proposte atte a determinare il consenso piuttosto che ad alimentare il dissenso. In questo contesto deve essere recepito con la massima attenzione il messaggio lanciato dal citato rapporto dell’Onu in materia di impatto delle biotecnologie sul futuro delle produzioni agricole per l’alimentazione umana: “La genomica può accelerare la selezione produttiva delle piante e condurre allo sviluppo di nuove varietà coltivabili resistenti alla siccità ed alle malattie, caratterizzate da minore impatto ambientale e maggiore valore nutritivo rispetto a quelle attualmente in uso. Per le zone marginali del pianeta – ignorate dalla rivoluzione verde ma abitate da più della metà dei poveri della terra – le biotecnologie costituiscono strumento di elezione, se non l’unico, disponibile per uno sviluppo sostenibile dell’agricoltura e dell’allevamento”. Messaggio tanto più importante e significativo perché lanciato dalle Nazioni Unite con la partecipazione ed il consenso esplicito di tutte le organizzazioni internazionali interessate al tema dello sviluppo agro-alimentare sostenibile (la World Trade Organisation, Wto, la Convention on Biological Diversity, Cbd, la Food and Agriculture Organisation, Fao e la World Health Organisation, Who; le due ultime corresponsabili del Codex Alimentarius).

L’impatto sulle produzioni alimentari

Con riferimento ai principali settori produttivi della catena agro-alimentare, sono già di uso corrente – sia pure con diverso grado di penetrazione sui vari mercati mondiali – piante geneticamente modificate resistenti a parassiti o a erbicidi (mais, soia) oppure con particolari caratteristiche (pomodoro a maturazione ritardata, colza con composizione lipidica migliorata). Il catalogo delle disponibilità o delle prospettive è ovviamente molto più vasto, sia per la produzione agricola primaria, sia per quella alimentare secondaria (ortaggi a lunga conservazione, cereali arricchiti in contenuto proteico o vitaminico). In ogni caso, sette delle ventotto piante di maggiore impiego alimentare nel mondo sono correntemente coltivate in versione geneticamente modificata, mentre altre cinque sono in fase avanzata di sperimentazione.

In sintesi, poiché ogni specie vivente è caratterizzata dal proprio corredo genetico, e poiché il codice di trasmissione dell’informazione genetica è lo stesso per tutti gli organismi viventi, appare tecnicamente possibile il trasferimento di qualunque caratteristica desiderata da una specie all’altra. L’impiego produttivo dell’ingegneria genetica ha permesso finora di ottenere soprattutto materiali di riproduzione vegetale migliorati dal punto di vista agronomico: in prospettiva, e come risultato delle ricerche in corso, le piante geneticamente modificate potranno contenere o produrre sostanze e materiali utili dal punto nutrizionale. Esiste un’ovvia continuità tra le caratteristiche di sicurezza dei prodotti agricoli e quella dei cibi da essi derivati anche se, nel passaggio dalle materie prime all’alimento pronto al consumo, molti altri interventi e controlli sono messi in atto. A titolo di esempio, il tasso di inibitori della tripsina negli alimenti a base di soia è limitato in modo determinante mediante processi di tostatura dei semi di soia ottenuti dai raccolti, a completamento dell’attenzione dell’agricoltore nel coltivare selezionate le varietà adatte. Le tecniche di controllo delle sostanze indesiderate sono note e del tutto applicabili ai prodotti alimentari, in modo del tutto indifferenziato a fronte di prodotti originati o meno da materie prime geneticamente modificate.

Sostanze nutritive

Poiché, in linea teorica, è possibile inserire in qualsiasi pianta nuovi caratteri – infiniti per natura e numero – ci si possono attendere prodotti delle “nuove” coltivazioni con composizioni in carboidrati, proteine e grassi di natura e proporzioni significativamente diverse dai prodotti tradizionali. In certi casi sono proprio questi i risultati desiderati, ma devono essere sempre tenuti sotto controllo i rischi collegati ad effetti non desiderati. Tuttavia, questo tipo di sorveglianza fa parte delle prassi correnti di valutazione delle nuove varietà vegetali derivate dall’impiego di tecniche di breeding tradizionale: in termini tecnici, è più facile valutare il frutto di una pianta trasformata che quello di una pianta esotica.

Sostanze tossiche

Se una nuova tossina è presente in un prodotto alimentare, essa può essere estratta e la sua tossicità per uomini ed animali determinata mediante ben conosciute prove di laboratorio. Alcune piante geneticamente modificate (i mais cosiddetti Bt, resistenti alla piralide) esprimono sostanze tossiche (tossine del Bacillus thuringiensis) per specifici tipi di insetti, ma di provata innocuità per uomini ed animali; d’altronde, insetticidi a base di tossine del Bacillus thuringiensis sono di impiego comune da molto tempo, in particolare nelle pratiche dell’agricoltura biologica, senza riscontri di tossicità collegabili al consumo alimentare dei prodotti di coltivazioni irrorate con tali insetticidi. Con specifico riferimento ai mais Bt, è stato osservato che la migliore protezione delle piante dalla piralide riduce considerevolmente la presenza di tossine indotte ed indesiderate nei prodotti insilati (aflatossine).

Proteine allergeniche

Tutti gli allergeni alimentari sono proteine, anche se solo una minima frazione delle migliaia di proteine alimentari è allergenica: tra le piante di grande coltivazione, unicamente frumento e soia sono riconosciute esprimere un rilevante potenziale allergenico. Poiché, con tecniche di fusione o di rDna, è possibile non solamente trasferire l’espressione di proteine da una pianta all’altra o determinare l’espressione di proteine sconosciute, ma anche eliminare l’espressione di proteine indesiderate, è possibile ipotizzare la produzione di alimenti ipoallergenici grazie alla modificazione genetica delle piante che producono allergeni.

A fronte dell’avvento sul mercato di “nuovi” alimenti e ingredienti alimentari – tra cui quelli derivati da piante geneticamente modificate – l’Ue ha adottato una norma specifica che ne definisce le procedure di autorizzazione, accompagnata da dettagliate istruzioni per i produttori e per le autorità di regolamentazione. Sul piano della sicurezza perciò, questi alimenti risultano essere non solo sottoposti a regimi di controllo particolarmente rigorosi, ma anche intrinsecamente sicuri dal punto di vista del controllo dell’espressione di caratteristiche indesiderate. Difatti, è perfettamente intuibile come gli interventi sul genoma di una pianta effettuati mediante tecniche di ingegneria genetica consentano modificazioni specifiche e ben localizzate rispetto a quelli effettuati mediante le tecniche di breeding tradizionale, che implicano il trasferimento di una gran quantità di geni (tra cui molti di funzione sconosciuta) insieme a quelli che esprimono le caratteristiche desiderate. E' sicuramente vero che – in particolare in Italia e per i cibi freschi – è forte l’attrattiva della “naturalità” e della “origine controllata” collegate alla tradizione del gusto, ma non vi è dubbio che le moderne tecnologie biologiche preannunciano la disponibilità in prospettiva di cibi migliorati sia dal punto di vista nutrizionale sia da quello della sicurezza.

L’impatto socio-economico a livello globale

In termini di responsabilità economica e sociale, ovvero di etica professionale di chi abbia significativi obblighi di scelta ed orientamento, appare evidente come il termine “responsabilità” non abbia unicamente il significato di farsi carico di scelte sbagliate del passato, ma anche quello di impegnarsi ad adottare orientamenti giusti per l’avvenire. Siamo in genere convinti di vivere in una società occidentale progressista e non conservatrice, che dovrebbe premiare e sostenere l’innovazione: in realtà – a stare a quanto riportano i media – una consistente parte di essa sembra piuttosto guardare con sospetto se non con aperta ostilità all’applicazione delle moderne biotecnologie alle produzioni agricole ed alimentari, giudicando “irresponsabile” il comportamento di chi desidera cambiare le pratiche correnti. 

Tuttavia, in prospettiva una “vera” società riformista potrebbe giudicare irresponsabile chi avesse mancato di adottare tempestivamente le migliori tecnologie produttive, ed addebitare il ritardato o mancato progresso alla classe dirigente che sia stata carente del dovuto spirito di iniziativa. Il punto è che, in materia di innovazione tecnologica, vi sono rischi sia nel “fare” che nel “non fare”, e che la gravità delle conseguenze sfugge a qualsiasi valutazione previsionale a lungo termine: il futuro non è prevedibile, ma appare comunque opportuno che chi ha responsabilità di scelte destinate a configurarlo sia per quanto possibile guidato dalla ragione.

Equa distribuzione dei benefici

Il concetto che, in materia di tecnologie biologiche, non ci si debba fermare alla valutazione dei rischi e benefici privati, locali e a corto termine – ma che ci si debba preoccupare che rischi e benefici siano equamente ripartiti a livello globale, e che i rischi di oggi non pregiudichino i benefici di domani – costituisce uno dei cardini della Convenzione sulla Diversità biologica dell’Onu (Cdb, Rio de Janeiro 1992). Tutte le tecnologie sviluppate nel XX secolo hanno presentato rischi, ma complessivamente hanno determinato e segnato il progresso dell’umanità. Con riferimento alla sicurezza alimentare, basta il frigorifero da solo ad illustrare questo concetto: esso ha costituito il principale fattore di allungamento della vita umana negli ultimi cinquant’anni, anche se i cloro-fluoro carburi (Cfc) utilizzati nei primi modelli possono avere avuto un ruolo nel determinare il buco dell’ozono. L’ingegneria genetica delle piante costituisce uno strumento di accelerazione dei processi di soddisfacimento delle esigenze nutrizionali dell’umanità, a costi complessivi e con un impatto ambientale inferiori rispetto alle attuali pratiche agronomiche. Tuttavia, la considerazione che questo strumento possa svilupparsi di preferenza in certi Paesi, e costituire quindi per essi un sostanziale vantaggio competitivo, determina una diffusa sensazione di disagio, se non di ostilità, in molti Paesi ed in vari ambiti della società.

Non esiste una soluzione teorica del dilemma di scelta tra i benefici degli uni e i danni degli altri, né è disponibile una base giuridica consolidata del diritto internazionale: può solo essere testimoniato il solenne e formale impegno della Convenzione sulla Diversità biologica, che recita: “tutte le Parti contraenti devono attuare misure efficaci per promuovere ed assicurare un equo e corretto accesso ai benefici delle biotecnologie, con particolare attenzione ai Paesi in via di sviluppo”. Una cosa è certa: per ripartire in modo equo e corretto i benefici delle biotecnologie bisogna prima materializzarli.

Allargata disponibilità di materiali di riproduzione vegetale

Quanto è realistica l’immagine, cara al “Popolo di Seattle”, di un futuro in cui l’agricoltore sia privato di ogni autonomia decisionale e ridotto al ruolo di “attuatore” di produzioni imposte dalle industrie produttrici di sementi e di altri materiali di propagazione? E come valutare il rischio rappresentato dalle nuove tecnologie biologiche sul fenomeno – talvolta deprecabile ma comune a tutti i settori merceologici – di progressiva concentrazione imprenditoriale nel settore della produzione dei materiali di riproduzione vegetale? Allo stato attuale delle cose, il mercato sementiero è caratterizzato da una forte competizione e dal costante aumento di varietà vegetali offerte agli agricoltori: quelli dell’Unione europea hanno la scelta tra centinaia di fornitori grandi e piccoli, e quelli dei maggiori paesi agricoli (Usa, Canada, Argentina, Cina) hanno l’ulteriore scelta in cataloghi comprendenti sia varietà convenzionali sia varietà geneticamente modificate. Le prime dieci imprese sementiere del mondo controllano il 30 per cento del mercato delle sementi7, una situazione ben lontana dalla nozione di monopolio. Tutte le evidenze tendono a mostrare che l’insieme delle tecnologie biologiche in campo agricolo – di cui fanno parte non solamente l’ingegneria genetica, ma anche le tecniche di ibridizzazione convenzionale – hanno aumentato negli ultimi decenni in tutto il mondo la disponibilità di sementi e la loro adattabilità alle situazioni locali di coltivazione.

Inoltre, appare opportuno osservare come l’immagine dell’agricoltore che risemina parte del proprio raccolto stia progressivamente perdendo di significato, e come sia ormai pratica corrente – dell’industria come delle cooperative agricole locali – quella di procedere alla produzione specializzata di sementi. L’idea che le moderne tecnologie biologiche possano condurre alla produzione di “superpiante”, che eliminano la concorrenza di tutte le altre, non ha maggiore credibilità dei “supercomputer” o delle “superautomobili”, anzi ne ha molta meno, visto che in campo agricolo le condizioni locali di coltivazione hanno comunque peso prevalente nelle scelte degli agricoltori. In buona sostanza, è del tutto plausibile che l’utilizzazione dell’ingegneria genetica diventi fattore di competizione tra produttori agricoli e industriali di materiali di propagazione vegetale, tra aree geografiche di produzione agricola e – al limite – tra singoli imprenditori del sistema agroalimentare, ma non è credibile l’ipotesi che essa favorisca in quanto tale l’instaurarsi di situazioni di monopolio.

D’altro canto, è forte la sensazione che molti degli oppositori all’impiego dell’ingegneria genetica nelle produzioni agro-alimentari siano in buona misura animati dal desiderio di conservazione dei propri privilegi, piuttosto che dalla volontà di aumentare il livello complessivo di benessere dell’umanità. E’ comprensibile che i produttori del Nord del mondo temano il progresso produttivo del Sud, ma provoca un certo fastidio che tali legittimi interessi siano confusi con i valori della tradizione e diano luogo a diffuse campagne di boicottaggio.

Osservazioni conclusive

L’esperienza teorica e pratica maturata negli ultimi vent’anni – unitamente all’esplicito dettato della Conferenza dell’Onu – tendono a mostrare che il rischio collegato all’utilizzazione di “nuove” piante o di “nuove” pratiche agricole può e deve essere valutato e gestito senza particolare attenzione alla circostanza che l’organismo sia naturale o frutto di pressione selettiva, oppure che i metodi di selezione e modifica abbiano fatto ricorso o meno all’ingegneria genetica. Infatti, oltre ad illustrare i benefici peculiari dell’ingegneria genetica delle piante, occorre ricordare che nella maggioranza dei casi reali collegabili al sistema agro-alimentare è possibile collocare entro limiti razionali, accessibili alle attuali conoscenze scientifiche, le tecniche e le procedure di valutazione dei possibili rischi, ed in particolare dei paventati rischi ambientali. Certe situazioni – quelle in particolare collegate all’impatto ambientale di coltivazioni estranee a determinati habitat naturali – sono sicuramente gravate da incertezze di parecchi ordini di grandezza nella valutazione dei possibili effetti negativi, ma riguardano tanto le specie naturali “esotiche” quanto quelle geneticamente modificate. In tali casi appare opportuno promuovere una ricerca volta a chiarire la variabilità genetica naturale delle piante in oggetto, ottenendo così una significativa riduzione dell’incertezza nella valutazione dei rischi associati alle variabilità genetiche indotte dai Living Modified Organisms. Dovrebbe essere questa la lettura “tecnica” da dare all’International Safety Protocol – detto Cartagena Protocol – approvato nel gennaio 2000 a Montreal, anche se appare tutt’altro che infondata l’ipotesi che esso possa essere strumentalizzato per sostenere dispute puramente commerciali.

La sicurezza ambientale e sanitaria delle produzioni agricole ed industriali a scopo alimentare solleva problemi di valutazione e gestione del rischio complessi ma tecnicamente risolvibili; il rischio di affrontare nell’immediato la competitività del mercato globale pone al sistema agro-alimentare dell’Unione europea problemi di più difficile soluzione, ma non è affatto implicita né evidente la conclusione che – a lungo termine – sia preferibile produrre poco e male piuttosto che molto e bene. Guardando ai fatti di casa nostra e riflettendo sugli interessi nazionali a lungo termine, non è ragionevole ridurre le scelte del paese ad un dibattito ideologico tra “sostenitori” ed “oppositori” dell’ingegneria genetica in campo agro-alimentare: per chi abbia responsabilità di governo – della cosa pubblica come di interessi privati, in ambito politico come in ambito imprenditoriale – non ha alcun senso essere pregiudizialmente favorevoli o contrari ad una tecnologia. Quanti abbiano volontà imprenditoriale e leadership politica dovranno “vivere” i problemi sollevati da una nuova tecnologia estremamente pervasiva, convincersi che l’Italia non può “scendere” dal treno dell’innovazione biotecnologica e che l’unico modo di proteggersi da suoi ipotizzati effetti negativi sarà quello di essere all’altezza e competere sul fronte avanzato della ricerca e dello sviluppo applicativo.

Non si tratta di sfidare ciecamente l’ignoto: è del tutto possibile che il principio di precauzione debba essere applicato con maggiore rigore nella gestione dei rischi biologici e che certi impieghi delle tecnologie biologiche debbano essere soggetti a più esaustivi controlli preliminari. Queste sono però esigenze globali di regolamentazione, da negoziare in ambito di Unione Europea, di World Trade Organisation e/o di Protocollo di Biosicurezza dell’Onu (Cartagena Protocol), sulla base di dati scientifici teorici e sperimentali e non in omaggio a malcelati protezionismi commerciali. In termini competitivi, l’Unione europea e l’Italia sembrano avere perso il loro slancio innovativo, quello che ne ha decretato il successo economico negli ultimi cinquant’anni: le biotecnologie agro-alimentari non sono una certezza di nuovi successi, ma sono sicuramente uno dei campi in cui appare più che opportuno che un paese del G7 porti un contributo di nuove idee e realizzazioni almeno pari alle sue ambizioni di sviluppo produttivo e occupazionale nel contesto dell’economia mondiale.

In conclusione, la nozione di pianta (o cibo da essa derivato) “transgenica” costituisce una semplificazione linguistica cara ai media ma priva di una qualsiasi possibile oggettivazione, e la valutazione dei rischi e dei benefici di ogni nuova tecnologia può e deve essere ricondotta ad un grande numero di situazioni peculiari – in questo caso lungo l’intera filiera produttiva agro-alimentare – da valutare e gestire caso per caso. E’ tuttavia altamente auspicabile che il consumatore finale sia – se non altro perché chiamato a pagare quasi tutti i costi finali della catena – almeno in parte corresponsabile di una “cultura del consumo”, destinata ad influenzare le scelte collegate alle varie fasi di lavorazione dei cibi.

11 aprile 2003

(da Ideazione 5-2002, settembre-ottobre)

stampa l'articolo