Anniversari. Stalin il terribile
di Aldo G. Ricci

Gli anniversari obbligano ai bilanci, anche quando sono abbastanza scontati, come nel caso del creatore dell’universo sovietico, Giuseppe Stalin, scomparso il 5 marzo del 1953 in circostanze che ancora non sono chiarite, nella migliore tradizione del clima da basso impero che caratterizzò i suoi ultimi mesi, tra pseudocongiure di medici, ebrei e quant’altro veniva in mente alla fantasia sadica del dittatore, pronto a cancellare scientificamente, uno dopo l’altro, quei settori della società nei quali individuava potenziali nemici o, più semplicemente, bersagli utili per la propaganda. Ma Stalin non è solo ovviamente tutto questo. E’ anche l’incarnazione moderna (per quanto questa parola possa avere significato nella vecchia Russia) della tradizione autocratica zarista, via via indietro fino a Ivan il terribile: una tradizione di costruttori della potenza russa con la forza e gli strumenti a disposizione di un paese medievale e spaventosamente arretrato. Con la differenza che ai boiardi del medioevo Stalin ha sostituito i capi del partito (che manda a morte con lo stesso tranquillo compiacimento con cui lo faceva Ivan) e che al posto della religione dei Pope ha messo la ben più efficace e pervasiva ideologia comunista, capace di penetrare la società ben più della vecchia ortodossia.

E tuttavia con gli strumenti primitivi di un’agricoltura arretrata e la coercizione di una polizia rispetto alla quale la vecchia okrana degli zar sembra formata da dilettanti, Stalin prende in mano un sistema che fa acqua da tutte le parti, tranne quella della repressione, e avvia un processo di accumulazione forzata dal quale nasce un sistema di industria pesante elefantiaco e inefficiente, ma capace comunque di consentire all’Urss di resistere all’assalto della Germania nella seconda guerra mondiale. Il prezzo pagato per questa impresa ciclopica, prima, durante e dopo il conflitto, è assolutamente mostruoso. I calcoli variano da sedici a oltre venti milioni di morti, ma si sa che questi calcoli hanno scarso valore nella contabilità dei totalitarismi. 

Naturalmente questa costruzione poggiava su due piedi: uno d’argilla, la società, e uno di ferro, gli apparati repressivi controllati dal partito. Quando quest’ultimo cominciò ad arrugginirsi, dopo il 1956, i cedimenti cominciarono, anche se poco visibili dall’esterno. E sottoposto alla pressione esterna e interna alla fine l’impero crollò per implosione, lasciando sul terreno macerie che ancora non vengono ricomposte e un paese dove modernità e arretratezza si mescolano egualmente. Nella vicenda di Stalin quello che stupisce non è tanto la storia di quello che egli è stato e ha fatto nell’Urss e per l’Urss: fin qui siamo nel solco di una tradizione antica appena aggiornata dall’ideologia, che non a caso viene addirittura rimpianta dai vecchi sovietici nostalgici nei tanti momenti di depressione che il presente garantisce loro. E neppure il successo del suo modello in paesi arretrati come la Cina. 

Quello che stupisce è la capacità di penetrazione che per decenni lo stalinismo ha avuto anche nell’Europa occidentale, conquistando menti sofisticate, si pensi solo all’Italia, che avevano tutti gli strumenti per coglierne rozzezze e falsità, accettate invece in nome di fine per il quale ogni mezzo diventava lecito. Riflettere su questa circostanza può rappresentare ancora oggi un ottimo antidoto nei confronti delle ideologie totalitarie, e del messianesimo comunista in particolare, e dei pericoli di cui sono portatrici anche in contesti che dovrebbero essere vaccinati nei loro confronti. La morale di questo ragionamento è chiara: non esiste un vaccino universale e definitivo contro questa malattia. I ceppi del male, come per l’influenza, sono tanti e i vaccini vanno periodicamente rinnovati, pena, altrimenti, ricadute dagli esiti fatali. 

14 marzo 2003
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