Fascismo: la modellizzazione impossibile?
di Pierre Milza

L'estratto che vi proponiamo è tratto da uno dei tredici brani che compongono il volume "Che cos'è il fascismo", curato da Alessandro Campi e pubblicato da Ideazione editrice. L'autore del contributo è lo storico francese Pierre Milza che insegna Storia contemporanea all'Institut d'études politiques di Parigi e si è occupato a lungo di fascismo europeo in chiave comparativa, con particolare attenzione al fascismo italiano.


Se è vero che la prima guerra mondiale e l’ondata rivoluzionaria che n’è seguita hanno giocato un ruolo determinante nella nascita e nell’affermazione del fascismo, è altrettanto vero che esse non hanno soppresso le distanze e le differenze esistenti tra le famiglie ideologiche che, come spesso si sostiene, avrebbero aperto la strada a questo nazionalismo di un nuovo genere. Ora, se la maggior parte degli specialisti tende oggigiorno ad isolare il “modello” fascista dalle altre forme di rifiuto radicale della democrazia liberale e del marxismo, la tesi che consiste nel considerare fascista qualunque organizzazione che aspiri a stabilire o a restaurare un potere forte con un obiettivo, al tempo stesso, difensivo (sconfiggere la sovversione comunista o, più semplicemente, arrestare la “decadenza”) e offensivo (assicurare la grandezza della nazione attraverso l’espansionismo territoriale), continua ad avere dei sostenitori.

Questi ultimi sono i fautori dell’ortodossia marxista, che sino all’implosione del blocco dell’Est ed alla scomparsa o alla marginalizzazione dei partiti comunisti occidentali hanno occupato più spazio nel dibattito ed hanno mantenuto pressoché invariato il nocciolo duro della loro interpretazione iniziale. Ancora egemoniche all’inizio degli anni Settanta, le loro posizioni si sono successivamente molto indebolite, senza tuttavia sparire dal campo sia della ricerca scientifica sia della volgarizzazione editoriale e mediatica. Dopo lo scisma rappresentato dal crollo del comunismo, da qualche anno si assiste anche al ritorno di una forma di “fiancheggiamento” che, per suo conto, riprende alcuni degli schemi semplicistici elaborati dalla Terza internazionale nel periodo tra le due guerre. Se il fascismo non è più interpretato universalmente come il prodotto, "necessario ed inevitabile", delle leggi che governano il sistema capitalista, come "la dittatura aperta e terroristica degli elementi più reazionari, più sciovinisti, più imperialisti del capitale finanziario", esso resta tuttavia associato, in questi settori dell’opinione pubblica, alla “borghesia” ed alla “destra”: tutti i regimi autoritari che puntano al mantenimento o al rafforzamento delle classi possidenti, così come tutte le organizzazioni nazionaliste radicali, si vedono raccolti sotto la stessa categoria passe-partout di “fascismi”.

Naturalmente, non si tratta di ripetere, ancora una volta, la critica all’interpretazione marxista del fascismo. Tutti i lavori basati su un esame rigoroso delle fonti disponibili mostrano, con riferimento ai due paesi in cui esso si è imposto grazie ad una grave crisi del sistema liberale, che se i rappresentanti delle classi economicamente dominanti hanno offerto il loro sostegno al fascismo ed hanno complessivamente beneficiato delle sue imprese, essi tuttavia non hanno assunto l’iniziativa della sovversione, né hanno sostenuto altro che una dittatura temporanea, né soprattutto hanno imposto le loro direttive ai detentori del potere. Assimilare, puramente e semplicemente, fascismo e “grande capitale”, fascismo e “dittatura borghese”, fascismo e reazione, e non vedere in questo fenomeno che la risposta orchestrata dai possidenti contro la minaccia di distruzione dell’ordine sociale esistente, è indicativo di una visione semplicistica della storia (…).

Altrettanto discutibile è l’assimilazione che, in una prospettiva del tutto diversa, è operata da quegli storici delle idee per i quali fascismi e correnti di pensiero appartenenti all’ultra-destra tradizionalista possono essere compresi all’interno di una stessa categoria. La figura più rappresentativa di questa tendenza è Ernst Nolte, a giudizio del quale l’Action française ha costituito l’archetipo del fascismo francese. In realtà, la sua analisi non resiste ad un esame attento del pensiero maurrassiano e della cultura politica del piccolo gruppo di intellettuali che ha dato vita a quest’organizzazione. Quest’ultima, in effetti, s’ispira al tradizionalismo controrivoluzionario, dal quale essa riprende e sviluppa un certo numero di temi. Il primo è quello dell’ordine politico fondato sulla tradizione e su un “ordine naturale” supposto immutabile. Da questo postulato organicista discende un certo numero di tratti che apparentano il discorso maurrassiano a quello dei classici dottrinari della contro-rivoluzione: un’etica naturalistica i cui valori e le cui norme derivano dalle strutture immobili della “natura umana” (mentre il fascismo intende cambiare l’uomo), il rigetto di un egualitarismo che si suppone contrario all’ordine del mondo, l’idea che la “decadenza” è nata dal rifiuto di osservare le gerarchie e di obbedire alle regole che definiscono il rapporto tra l’uomo e la natura, il processo intentato all’universalismo ed all’astrazione ai quali i tradizionalisti oppongono l’esperienza e la “storia”, il radicamento nella terra degli antenati e la specificità etnica.

Se fascismo e tradizionalismo hanno in comune degli elementi (alcuni dei quali adottati tardivamente: è il caso della specificità etnica), essi differiscono su un punto essenziale, che concerne il posto dello Stato all’interno del sistema politico che essi intendono realizzare. Se i maurrassiani sono partigiani di uno Stato forte, al tempo stesso essi pensano che il ruolo di quest’ultimo debba essere circoscritto alle funzioni sovrane – difesa, sicurezza interna, giustizia, ecc. – e che esso non debba intaccare i diritti e le libertà dei gruppi organicamente costituiti, e meno ancora debba servirsi della propria forza per far regnare l’arbitrarietà ed il dispotismo. Con l’obiettivo di salvaguardare le libertà “concrete”, Maurras, come gli ultras della Restaurazione, oppone a queste ultime la Libertà astratta e “menzognera” così come è stata concepita dagli uomini dei Lumi e dai loro successori repubblicani e democratici.

La cultura politica maurrassiana è dunque essenzialmente rivolta al passato. Essa fa tabula rasa di un secolo di storia e ripone il proprio ideale in una forma di società che è pressappoco quella della “vecchia Francia”, una società nella quale tra l’individuo ed il potere andrebbero ricostituiti dei corpi intermedi nei quali inquadrare gli individui: famiglia, comunità di villaggio, provincia, corporazione ecc. Essa esalta il potere e la ragion di Stato, ma l’idea che essa si fa del potere e dello Stato è agli antipodi delle concezioni ereditate dal giacobinismo burocratizzante e centralizzatore. Essa è rispettosa delle gerarchie, ma allorché si tratti di gerarchie tradizionali e non di una “élite di rimpiazzo”: quella che la democrazia liberale ha realizzato allo stesso titolo di quella che il fascismo tenterà di creare. Infine, e si tratta di un’altra fondamentale differenza rispetto al fascismo, essa è ostile a qualunque forma di potere derivante direttamente dal popolo ed esprime una grande diffidenza nei confronti delle masse. 

Ora, è proprio lungo il solco tracciato dall’idea controrivoluzionaria che, sovente, tra le due guerre, si sono incanalati molti dei movimenti abitualmente definiti come “fascisti”, sebbene essi derivassero da tutt’altra cultura politica. In effetti, l’influenza del maurrassismo è stata considerevole, soprattutto in Francia, dove esso è nato e dove esso ha giocato, prima e dopo la “grande guerra”, un ruolo più importante che negli altri Stati europei nei quali esso ha egualmente avuto un grande impatto su un certo numero di dirigenti e di movimenti nazionalisti, ovvero sulla formazione di regimi politici talvolta battezzati, con un abuso linguistico, “clerico-fascisti”. Il capo del rexismo vallone, Léon Degrelle, e quello del movimento fiammingo Verdinaso, Joris Van Severen (entrambi prima della loro conversione al fascismo), movimenti reazionari quali Ordre et Tradition, Schweitzer Heimatwehr, la lega Aufgebot in Svizzera, quelli guidati da Andrej Hlinka e da monsignor Tiso in Slovacchia – tutti hanno fortemente subito l’influsso del maurrassismo, il quale ha egualmente ispirato il fondatore dell’Estado novo portoghese, Oliveira Salazar, la dittatura del generale Primo de Rivera in Spagna e lo Stato autoritario corporativista instaurato in Austria nel 1934 dal partito cristiano-democratico del Cancelliere Dollfuss.

D’altro canto, il pensiero maurrassiano non rappresenta l’unica espressione della corrente tradizionalista e controrivoluzionaria. Cartesiano come principio ispiratore, latino e cattolico, esso ha un’eco soprattutto nell’Europa mediterranea e, più in generale, nei paesi di osservanza cattolico-romana. Nel resto d’Europa, l’influenza dominante è quella del nazionalismo romantico e reazionario tedesco, sia nella sua versione völkisch, che conduce all’estremo l’idea della superiorità della razza germanica, sia in una forma più prossima al pensiero tradizionalista del XIX secolo, quella rappresentata dalla “rivoluzione conservatrice”. In quest’ultimo caso, i punti di convergenza con il fascismo italiano sono più numerosi e più marcati. In effetti, per gli intellettuali che si rifanno a questa corrente, la salvezza della Germania all’indomani del primo conflitto mondiale non risiede in un nostalgico attaccamento al Reich guglielmino. Al contrario, essi pensano che il declino abbia avuto inizio ben prima del terremoto del 1918, vale a dire con l’avvento di un ordine capitalista e materialista ben rappresentato da Berlino (…): la guerra non ha fatto che accentuare un processo di deculturazione già ampiamente cominciato prima del conflitto.

Diversamente dalle grandi forze conservatrici classiche (il partito “populista” ed il partito nazionale tedesco), i teorici del nuovo nazionalismo non ricercano il rimedio a questa decomposizione nel ritorno puro e semplice al “vecchio regime”, incarnato dal Reich guglielmino, ovvero bismarckiano, già sospetto ai loro occhi di avere subito gli effetti dei virus dissolvitori rappresentati dal cattolicesimo romano, dal democraticismo plutocratico e dal socialismo marxista, ma nella restaurazione dei valori profondamente radicati nella storia della nazione tedesca. La “rivoluzione conservatrice” alla quale essi affidano le loro speranze si richiama ad un modello “prussiano” precedente al dispotismo illuminato – abbastanza cosmopolita e francofilo – di un Federico II. Tale è, ad esempio, il cammino tracciato da Oswald Spengler nel suo Tramonto dell’Occidente (1918-1922) e in Prussianesimo e socialismo (1919), più ancora di quello definito da Moeller van den Bruck nel suo Il Terzo Reich (1923): aspirazione alla restaurazione di uno Stato forte, ritorno alla tradizione tedesca e, soprattutto, a quella del solidarismo “da caserma”, superamento della nozione di classe, assimilazione dei nuovi valori solo nella misura in cui essi contribuiscono a sviluppare la vitalità della nazione, costruzione di un Grande Reich a vocazione universalista. 

A cavaliere tra gli anni Venti e Trenta, riuniti in potenti associazioni quali lo Juni Klub e l’Herren Klub, provenienti spesso dai Corpi franchi e militanti nelle fila della Stalhelm di Hugenberg, uomini come Heinrich von Gleichen, Max Hildebert, Rudolf Pechel ed Edgar Jung si pronunciano dunque a favore di un ultra-conservatorismo rinnovato, promotore di uno Stato autoritario, corporativo e cristiano, difensore del germanesimo e capace di assicurare la preponderanza della Germania sulla Mitteleuropa. Tutto ciò, all’interno di una forma che resta profondamente impregnata di tradizionalismo e di spirito aristocratico. Ma il fatto che il nazionalsocialismo abbia attinto da questa corrente di pensiero una parte del suo armamentario ideologico, non è sufficiente a fare della “rivoluzione conservatrice” un fascismo. 

14 marzo 2003
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