I vini del Franco bevitore.
Un Dolcetto profumato di terra e viole

di Franco Ziliani 

Forse, per rispetto del politically correct e della geopolitica vitivinicola, non dovrei continuare ad occuparmi, come faccio spesso e molto volentieri, di vini piemontesi. Dovrei dunque incensare anch’io, seguendo l’esempio di molti miei colleghi, l’ennesimo Super Tuscan di Bolgheri e dintorni, sciccosi e plastificati Merlot irpini da 50 e più euro in enoteca, ambiziosi vini sperimentali pugliesi, campani o siciliani redolenti di legno, Cabernet Sauvignon o Merlot, toscani o di chissà dove, poco conta, che fanno tanto chic, e i molti vini laureati e pluribicchierati impossibili da trovare e da provare, visto che rappresentano micro produzioni virtuali da 2000 o 3000 bottiglie massimo. 

Ma poiché, da semplice cronista e consumatore goloso, continuo ad essere convinto di una tautologia e di una banale evidenza, e cioè che il vino sia fatto per essere bevuto con soddisfazione, preferisco lasciare la celebrazione delle bottiglie top, che saranno belle e titolate, ma hanno il non trascurabile difetto di non farsi bere e di restare tristemente semipiene sul tavolo quando si aprono, e di intristire chi le abbia pagate piccole fortune, e ancora una volta torno a lodare uno di quei rossi piemontesi, schietti, autentici, senza fronzoli, il cui arrivo su una tavola costituisce sempre una festa. Bottiglie che si bevono con gioia, dalla prima all’ultima goccia. E’ stata proprio la bevibilità, la piacevolezza, oltre al corretto rapporto prezzo-qualità, la provenienza da vitigni autoctoni, l’assoluto non affinamento nella tomba di troppi vini, ovvero la barrique, il filo rosso della divertente, (io mi sono divertito molto a condurla), degustazione di 12 vini rossi che in collaborazione con l’attiva associazione Go Wine di Alba ho condotto con piacere in occasione dell’ottimo, vivacissimo, e finalmente a misura di visitatore, Salone del vino di Torino. 

Ed in questo contesto, accanto ad un Barolo old style quanto basta, ad un bel Rosso di Montalcino, ad un fruttoso Morellino di Scansano, ad una Barbera d’Alba e veri vini del sud base Negroamaro, Piedirosso e Magliocco, ad un Valpolicella base, ad un Valtellina superiore botte grande, ad un fragrante Santa Maddalena, vini che hanno per l’ennesima volta dimostrato l’esistenza di un’altra Italia del vino, forse più vera di quella fotografata negli elenchi standardizzati dei top wines, ho assolutamente voluto inserire, proprio perché amo questo vino e questo vitigno, un Dolcetto. La scelta non è stata facile, perché erano molti i Dolcetto che mi avevano entusiasmato e che meritavano, tutti, di essere proposti nel mio itinerario torinese. Penso ai bellissimi Dolcetto Briccolero e San Luigi del grandissimo Quinto Chionetti, paradigma perfetti del vero Dogliani, e poi, superiore a tutti, ma fuori dalla fascia di prezzo che m’ero prefissato, il Coste & Fossati di Milena & Aldo Vajra, il Vigna del Mandorlo di Elvio Cogno ed il Rubis di Rocche Costamagna, che dimostrano come Caviola, enologo consulente di entrambe le cantine, sappia essere un bravo dolcettista, quando esce dagli schemi ideologici e dalle rigidezze mentali e dai furori khomeinismi dei dolcettisti new wave doglianesi. E poi il Vigna Scot di Cavallotto, il Toni d’Giuspin di Gianluca Viberti, il sensazionale Solatio dei Brovia, i due vini, più snelli e lineari, di Sergio Barale, il Bric Trifola di Cascina Luisin, il Cursalet del mio carissimo amico Giacolino Gillardi, il Bricco di Castiglione del coscienzioso Mauro (Giuseppe) Mascarello. Ed un sacco di altri che, ne sono consapevole, sto ingiustamente dimenticando. 

Chi ha sbaragliato la concorrenza e, a giudicare dai commenti dei partecipanti alla degustazione di Torino, ha messo tutti d’accordo, è però stato il Dolcetto, d’Alba, annata 2001, di una cantina che particolarmente nel cor mi sta, proprietà di una famiglia presente, da oltre un secolo, a Barolo, e nota non solo come produttrice d’ottimi vini, ma anche per il valido e accogliente ristorante albergo immerso nei vigneti. Celebrati per i loro grandi Barolo, (Sarmassa, Bricco Sarmassa, Cannubi, Castellero, eccellenti sia nel caso del 1997 che del 1998), per la Barbera d’Alba Cannubi e Cannubi Muscatel, per la rara e splendente Freisa Langhe Santa Rosalia, i Brezza, il simpaticissimo baffo Oreste, oste all’antica, il figlio Enzo, e poi Giacomo e Marco, tutta gente vera e ricca d’umanità, sono grandi, anzi grandissimi anche per il Dolcetto. Se amate i Dolcetto che profumano di viole e di terra, che hanno pienezza, ricchezza, un corpo importante, ma l’immediatezza dei vini che ti conquistano subito, sin dal primo sorso, questo San Lorenzo fa sicuramente al caso vostro, con il suo bellissimo colore rubino violaceo squillante, brillante, pieno d’allegria ed il suo naso intenso, dall’esplosiva fragranza floreale, avvolgente e nettissimo, inconfondibilmente dolcettoso, con note dense e calde e di estrema pulizia che evocano la mora di rovo, la liquirizia, il sottobosco bagnato. 

Al gusto è equilibrato, sapido, dotato di una bellissima densità di frutta carnosa e polputa, di una lunghezza dovuta non solo alla struttura importante e terrosa, alla buona concentrazione, ma ad una calibratissima acidità e sapidità, in grado di regalare freschezza ed equilibrio al palato e d’invogliare allegramente a bere. Se qualche vostro amico avesse qualche dubbio sulla grandezza del Dolcetto, fategli dono di qualche bottiglia di questo San Lorenzo. Sono certo che cambierà opinione.

14 febbraio 2003

Bubwine@hotmail.com


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