Perché essere libertari?
di Murray N. Rothbard

Perché essere libertari, dopo tutto? Con questo vogliamo dire: qual è il punto dell’intera questione? Perché dedicarsi a un impegno profondo e per tutta la vita per il principio e lo scopo della libertà individuale? Infatti, tale impegno, nel nostro mondo ampiamente non libero, significa inevitabilmente un disaccordo e un’alienazione radicali dallo status quo, un’alienazione che inevitabilmente, allo stesso modo, impone molti sacrifici in termini di denaro e di prestigio. Se la vita è breve e il momento della vittoria remoto nel futuro, perché passare attraverso tutto questo? Incredibilmente, abbiamo trovato nel numero crescente di libertari in America molte persone che giungono ad un impegno libertario da uno o da un altro punto di vista estremamente ristretto e personale. Molti sono attratti irresistibilmente dalla libertà come sistema intellettuale o come scopo estetico, ma la libertà rimane per loro un gioco di società puramente intellettuale, totalmente divaricato da quelle che essi considerano le attività “reali” della loro vita di tutti i giorni. Altri sono motivati a rimanere libertari solamente dall’aspettativa dei propri profitti finanziari. Realizzando che un mercato libero fornirebbe, per uomini abili e indipendenti, opportunità molto più ampie di mietere profitti imprenditoriali, essi diventano e rimangono libertari solamente per trovare più vaste opportunità per profitti negli affari. 

Mentre è vero che le opportunità di profitto saranno molto più ampie e più diffuse in un libero mercato e in una società libera; riporre la propria enfasi primaria su questa motivazione per essere un libertario può esser considerato solo grottesco. Poiché lungo il cammino sovente tortuoso, difficile e estenuante che deve essere percorso prima che la libertà possa esser conseguita, le opportunità di profitto personale del libertario saranno molto più spesso negative che abbondanti. La conseguenza della visione ristretta e miope sia dei giocatori, sia degli aspiranti mietitori di profitti è che nessun gruppo ha il minimo interesse nell’opera di costruzione di un movimento libertario. E tuttavia è solo attraverso la costruzione di tale movimento che la libertà può essere conseguita in modo sostanziale. Le idee, e specialmente le idee radicali, non avanzano nel mondo da sole, come se ci fosse il vuoto; possono essere fatte avanzare solamente dalle persone, e quindi lo sviluppo e l’avanzamento di tali persone – e quindi di un “movimento” – diventa un compito primario per il libertario che è realmente e seriamente intenzionato a promuovere i suoi scopi.

Allontanandoci da questi uomini dalla visione ristretta, dobbiamo inoltre considerare come l’utilitarismo – il terreno comune degli economisti orientati al libero mercato – sia insoddisfacente per sviluppare un fiorente movimento libertario. Mentre è vero e anche prezioso sapere che un mercato libero apporterebbe un’abbondanza molto più grande e un’economia più sana per tutti, ricchi e poveri allo stesso modo, un problema critico è se questa conoscenza sia sufficiente per condurre molte persone a una dedizione lunga tutta una vita alla libertà. In breve, quante persone presidierebbero le barricate e sopporterebbero i molti sacrifici che una devozione coerente alla libertà comporta, semplicemente perché un tot per cento di persone abbiano bagnarole migliori? Non si accontenterebbero piuttosto di una vita comoda dimenticando il tot per cento di bagnarole? In ultima analisi, quindi, l’economia utilitaristica, pur indispensabile nella struttura sviluppata del pensiero e dell’azione libertari, è insoddisfacente come lavoro di fondazione del Movimento quasi quanto quegli opportunisti che cercano semplicemente un profitto di breve termine.

A nostro modo di vedere un fiorente movimento libertario e una dedizione di tutta una vita alla libertà possono esser fondati solo su una passione per la giustizia. Qui deve stare la molla principale della nostra spinta, l’armatura che ci sosterrà in tutte le tempeste a venire: non la ricerca del guadagno facile, la partecipazione a un gioco intellettuale o il freddo calcolo di un profitto economico generale. E per avere passione per la giustizia si deve avere una teoria di quello che la giustizia e l’ingiustizia sono – in breve, un insieme di princìpi etici di giustizia e di ingiustizia che non possono essere forniti da una scienza economica utilitaristica. E' perché vediamo il mondo trasudare ingiustizie accatastate le une sulle altre fino al cielo che siamo portati a fare tutto quello che possiamo per ricercare un mondo in cui queste e altre ingiustizie siano sradicate. Altri tradizionali scopi radicali – come “l’abolizione della povertà” – sono, al contrario di questo, veramente utopistici, in quanto l’uomo, esercitando semplicemente la sua volontà, non può abolire la povertà. La povertà può essere abolita solamente attraverso l’operato di certi fattori economici – segnatamente l’investimento del risparmio in capitale – che possono agire solo trasformando la natura su un lungo periodo di tempo. In breve, la volontà umana è qui severamente limitata dall’operato – per usare un termine antiquato ma sempre valido – della legge naturale. Ma le ingiustizie sono azioni inflitte da un gruppo di uomini su un altro; sono precisamente le azioni degli uomini, e quindi esse e la loro eliminazione sono soggette alla volontà istantanea dell’uomo.

Facciamo un esempio: l’occupazione pluricentenaria e la brutale oppressione del popolo irlandese da parte dell’Inghilterra. Ora, se nel 1900 avessimo preso in esame lo stato dell’Irlanda e avessimo considerato la povertà del popolo irlandese, saremmo stati costretti ad affermare: la povertà potrebbe essere alleviata dagli inglesi levandosi di mezzo e rimuovendo i loro monopolii terrieri, ma l’eliminazione definitiva della povertà in Irlanda, secondo le condizioni migliori, prenderebbe tempo e sarebbe soggetta all’operato di leggi economiche. Ma lo scopo di por termine all’oppressione inglese avrebbe potuto esser conseguito con l’azione istantanea della volontà degli uomini: da parte degli inglesi semplicemente decidendo di ritirarsi dal Paese. Il fatto che naturalmente tali decisioni non hanno luogo istantaneamente non è il punto; il punto è che questo reale fallimento è un’ingiustizia che è stata decisa e imposta dai perpetratori dell’ingiustizia: in questo caso il governo inglese. Nel campo della giustizia, la volontà dell’uomo è tutto: gli uomini possono smuovere montagne se solo abbastanza uomini decidono di farlo. Una passione per la giustizia istantanea – in breve, una passione radicale – non è quindi utopistica, come sarebbe il desiderio della eliminazione all’istante della povertà o della trasformazione all’istante di ciascuno in un concertista di pianoforte. Infatti, la giustizia istantanea potrebbe essere conseguita se abbastanza persone così volessero.

Una vera passione per la giustizia, quindi, deve essere radicale – in breve, deve come minimo desiderare di raggiungere i suoi scopi radicalmente e istantaneamente. Leonard E. Read, presidente della Foundation for Economic Education, espresse questo spirito radicale molto efficacemente vent’anni fa quando scrisse un “pamphlet”, I’d Push the Button. Il problema era cosa fare della rete di controlli sui prezzi e i salari allora imposti sull’economia dall’Office of Price Administration. Molti liberali da un punto di vista economico sostenevano timidamente o “realisticamente” l’una o l’altra forma di abbandono graduale o scaglionato dei controlli; a quel punto Read prese una posizione di principio inequivocabile e radicale: "Se ci fosse un bottone su questa tribuna", disse all’inizio del suo discorso, "premendo il quale potessimo liberarci all’istante di tutti i controlli su salari e prezzi, ci metterei sopra il dito e premerei!". La vera prova, quindi, dello spirito radicale, è il test del "premere il bottone": se potessimo premere il bottone per l’abolizione istantanea delle ingiuste invasioni della libertà, lo faremmo? Se non fossimo disposti a farlo, potremmo difficilmente definirci libertari, e molti di noi lo farebbero solo se mossi in origine da una passione per la giustizia.

Il libertario verace è, quindi, in tutti i sensi della parola, un “abolizionista”; abolirebbe istantaneamente, se potesse, tutte le invasioni della libertà, sia che si tratti, nella coniazione originale del termine, della schiavitù, sia che si tratti dei molteplici altri esempi di oppressione da parte dello Stato. Egli, nelle parole di un altro libertario in un contesto simile: "si farebbe venire le vesciche al pollice nel premere quel bottone!" Il libertario deve essere per forza un “premitore di bottone” e un “abolizionista”. Alimentato dalla giustizia, egli non può essere mosso da amorali appelli utilitaristici che sostengano che la giustizia non possa realizzarsi fino a quando i criminali siano “risarciti”. Così, quando agli inizi del diciannovesimo secolo sorse il grande movimento abolizionista, voci di moderazione apparvero prontamente, consigliando che sarebbe stato equo abolire la schiavitù solo se i padroni di schiavi fossero stati risarciti finanziariamente per la loro perdita. In breve, dopo secoli di oppressione e sfruttamento, si supponeva che i padroni di schiavi dovessero essere ulteriormente ricompensati con una somma generosa truffata con la forza dalla massa degli innocenti contribuenti! Il commento più adatto su questa proposta fu fatto dal filosofo radicale inglese Benjamin Pearson, che notò che "egli aveva pensato che fossero gli schiavi a dover esser risarciti"; chiaramente, tale risarcimento poteva arrivare giustamente solo dai detentori di schiavi stessi.

Gli anti-libertari e gli anti-radicali generalmente e in modo caratteristico fanno l’osservazione che questo “abolizionismo” è “irrealistico”; muovendo tale accusa confondono irrimediabilmente lo scopo desiderato con un calcolo strategico del probabile risultato. Nel delineare i princìpi, è della massima importanza non mescolare i calcoli strategici con la creazione degli scopi desiderati. Primo, si devono formulare i propri scopi, in questo caso l’abolizione istantanea della schiavitù o qualunque altra oppressione statale consideriamo. E dobbiamo per prima cosa formulare questi scopi senza considerare la probabilità di raggiungerli. Gli scopi libertari sono “realistici” nel senso che possono essere conseguiti se abbastanza persone concordano sulla loro desiderabilità e che, se conseguiti, porterebbero un mondo di gran lunga migliore. Il “realismo” dello scopo può essere messo in discussione solo da una critica dello scopo stesso, non del problema di come raggiungerlo. Quindi, dopo che abbiamo deciso sullo scopo, affrontiamo la questione strategica completamente distinta di come raggiungere quello scopo il più rapidamente possibile, come costruire un movimento per raggiungerlo, ecc. 

Così, William Lloyd Garrison non era “irrealistico” quando negli anni Trenta dell’Ottocento, issò la bandiera gloriosa dell’immediata emancipazione degli schiavi. Il suo scopo era quello giusto; e il suo realismo strategico stava nel fatto che egli non si aspettava che il suo scopo fosse rapidamente raggiungibile. O, come Garrison stesso distinse: "Occorre spingere per l’abolizione immediata per quanto seriamente possiamo, anche se alla fine sarà, ahimè, l’abolizione graduale. Non abbiamo mai detto che la schiavitù sarebbe stata rovesciata d’un solo colpo; che dovrebbe esserlo lo sosterremo sempre".

In effetti, nel regno della strategia, issare la bandiera del principio puro e radicale è generalmente il modo più rapido per arrivare a scopi radicali. Poiché se lo scopo puro non è mai portato alla ribalta non ci sarà mai alcuno slancio sviluppato per spingere verso di esso. La schiavitù non sarebbe mai stata per nulla abolita se gli abolizionisti non avessero lanciato il grido d’allarme trent’anni prima; e per come andarono le cose, l’abolizione fu quasi d’un colpo solo piuttosto che graduale o risarcita. Ma al di sopra e al di là dei requisiti della strategia stanno i comandi della giustizia. Nel suo famoso editoriale che lanciò The Liberator agli inizi del 1831, William Lloyd Garrison si pentì della sua precedente adozione dell’abolizione graduale: "Colgo questa occasione per fare una piena e inequivoca ritrattazione, e così chiedere pubblicamente perdono a Dio, al mio Paese e al mio prossimo, i poveri schiavi, per aver espresso un sentimento così pieno di timidezza, ingiustizia e assurdità". Al rimprovero per l’abituale severità e calore del suo linguaggio, Garrison rispose: "Era necessario essere tutto fuoco in quanto ho montagne di ghiaccio da sciogliere intorno a me". E' questo lo spirito che deve segnare l’uomo veramente dedito alla causa della libertà.

(traduzione dall’inglese di Nicola Iannello)

14 febbraio 2003

(da Ideazione 1-2003, gennaio febbraio)
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