No welfare, no warfare
di Carlo Lottieri

Per la tradizione liberale esiste uno stretto collegamento tra la libertà e la pace, tra la tutela dei diritti individuali e il rigetto di ogni forma di imperialismo. Quando nel sedicesimo secolo le Province Unite si sganciarono dal dominio spagnolo e costruirono una società basata sulla tolleranza e sul libero scambio, all’ingresso del porto di Amsterdam venne scritto a caratteri cubitali il motto Pax et commercium. E qualcosa di simile si può dire per l’America delle origini, un Paese nato ugualmente a seguito di una guerra d’indipendenza, la quale fu pure una lotta contro la fiscalità eccessiva, l’uso arbitrario del potere, l’erosione dei diritti individuali. Quanti vogliano cogliere la centralità del rapporto tra guerra e statalismo (e quindi, anche tra pace e mercato) oggi però devono fare i conti con l’opera di Murray N. Rothbard, che non solo fu per quasi mezzo secolo il più radicale difensore del progetto di una società di mercato, ma anche uno degli scrittori più critici verso la politica estera americana: condannando ogni prospettiva “interventista” o, se si preferisce, bellicista.

Questa attenzione ai temi della pace e della guerra da parte dell’autore di The Ethics of Liberty non può stupire, d’altra parte, specie se si considera che egli sottolineò sempre l’esistenza di un legame fortissimo tra il welfare (l’interventismo economico) ed il warfare (l’interventismo militare). In sintesi, la tesi libertaria è che il controllo statale sull’economia e sulla società si rafforza grazie alle situazioni di emergenza che ogni conflitto armato fatalmente crea: con la conseguenza che la vita, la libertà e la proprietà finiscono per essere sempre più esposte a varie forme di minacce ed aggressioni. Ogni stato di guerra produce un’economia socialista, che è tale anche quando non viene definita così. Ma per Rothbard è vero ugualmente il contrario. Uno Stato che si dilata ed arriva a controllare una larga parte della vita economica diviene prigioniero di una prospettiva “colbertista” e mercantilista, finendo prima o poi per lanciarsi in politiche espansionistiche. Nel momento in cui un Paese è sotto il controllo della classe politica, questa giunge a disporre di un micidiale potenziale aggressivo che, prima o poi, utilizzerà. A tal punto, la stessa vita economica viene raffigurata non più come interazione tra individui, ma quale scontro tra “blocchi” e quella che un tempo era la libera concorrenza tra soggetti ed imprese, diventa solo un altro modo di combattersi. Con una progressiva interferenza dei poteri pubblici nella vita culturale e nell’informazione e, soprattutto, con un controllo crescente dell’istruzione, l’avvento di uno Stato a vocazione totalitaria e di un sistema giacobino di manipolazione delle coscienze apre fatalmente la strada all’interventismo militare. L’istruzione pubblica produce non soltanto “cittadini” ed “elettori”, ma anche docili “soldati” pronti ad uccidere.

Come già fecero grandi liberali quali Richard Cobden (fiero nemico dell’imperialismo inglese), William G. Sumner (che avversò il conflitto tra Stati Uniti e Spagna) e Vilfredo Pareto (che fu un membro attivo della Società internazionale per la Pace), Rothbard evidenzia l’incompatibilità tra la guerra ed il libero mercato, contrapponendo lo Stato ed i diritti individuali. Ai suoi occhi appare del tutto chiaro che gli autentici difensori della libertà del singolo devono rifuggire ogni forma di colonialismo e militarismo. La logica della libertà è la logica del diritto (del rispetto del prossimo), e quindi anche dello scambio. Tutto ciò è però negato quando il piccolo gruppo di persone che controlla un apparato statale pretende di imporre la propria volontà con l’uso delle armi.

Per il libertarismo giusnaturalista di Rothbard, d’altra parte, gli interventi statali nell’economia e nella vita sociale sono in primo luogo da rigettarsi perché immorali, contrari ai diritti fondamentali e lesivi della dignità dell’individuo. E se tale immoralità è riconoscibile in ogni atto dello Stato (che per definizione fa ricorso all’intimidazione e alla violenza), questo è ancor più vero quando si tratta di un’iniziativa volta non già solo a “sostenere l’economia” o “promuovere la cultura”, ma addirittura ad affermare il dominio di un apparato militare in questa o quell’area. Per giunta, il libertarismo coniuga diritti individuali e libera concorrenza. E se un mercato aperto è meglio adeguato ad offrire servizi e beni di alta qualità e basso costo, non si capisce perché tutto ciò non debba essere vero di fronte ai problemi della sicurezza. Nel 1849 questa tesi era stata avanzata sul Journal des Économistes da un economista belga che proprio Rothbard ed i libertari hanno contribuito a riscoprire, Gustave de Molinari1, ma ogni giorno abbiamo ulteriori conferme della bontà di quell’intuizione.

La stessa tragedia dell’11 settembre 2001, d’altra parte, ha dimostrato come i nostri sistemi sociali siano particolarmente fragili, ed esposti ad ogni rischio, in quei settori, come la sicurezza, che sono stati monopolizzati dallo Stato e perciò sono gestiti da burocrazie inefficienti. Nel momento in cui il mondo intero ha assistito al più completo fallimento della Cia e dell’Fbi (che hanno divorato miliardi di dollari inutilmente o peggio), è davvero un peccato che pochi abbiano compreso come quell’attacco portasse nuovi argomenti alla tesi rothbardiana mirante a liberalizzare la protezione. Oltre a ciò, l’inacerbirsi delle relazioni internazionali ha mostrato la saggezza delle critiche libertarie verso la politica estera dell’Occidente, illusosi di divenire il tutore del Nuovo ordine mondiale senza suscitare odi e senza diventare oggetto di minacce e attacchi.

Diritto naturale e competizione tra istituzioni

Nel momento in cui difende i princìpi del capitalismo di mercato, Rothbard rigetta ogni ipotesi di aggressione, imposizione, violenza. L’utilizzo della forza, insomma, è legittimato soltanto in funzione difensiva: come strumento per tutelarsi da possibili attacchi. Ma per comprendere la posizione di Rothbard in tema di guerra è forse necessario partire dalla reinterpretazione libertaria di quello che oggi è chiamato il “diritto penale”. Secondo Rothbard, ogni uomo ha il diritto di difendere la propria incolumità e resistere alle aggressioni: proprio per questo motivo la sua opzione per la pace non conduce necessariamente ad un pacifismo assoluto. Una simile posizione (tolstojana) è considerata del tutto legittima, ma è ugualmente possibile che chi è minacciato si organizzi a propria difesa ed a tutela dei familiari, così come è comprensibile che chi ha subìto un torto pretenda di ottenere giustizia.

Nel pensiero politico libertario vi è poi, ed è un elemento fondamentale, il rigetto del monopolio della giurisdizione, dato che una condizione essenziale perché si abbia una buona amministrazione del diritto è che numerosi ordini siano posti in competizione tra loro. Questo spiega perché Rothbard mostri interesse per l’ordine penale medievale (dell’età longobarda, ad esempio) e per la sua logica policentrica, all’interno della quale più soggetti erano autorizzati – se lesi nei loro diritti – ad organizzare in prima persona un’azione volta ad ottenere giustizia. Va pure aggiunto che nel diritto libertario non solo ogni azione legale muove da una querela di parte, ma mira essenzialmente a “raddrizzare il torto”. Non c’è quindi un’intenzione punitiva né “educativa”, ma piuttosto l’obiettivo di porre rimedio all’ingiustizia compiuta. Di fronte ad un furto o a qualunque altro atto criminale, la vittima ha la facoltà di fare tutto il possibile per ricevere un adeguato indennizzo (a tale proposito, Rothbard utilizza la formula “due occhi per un occhio”).

Quando allora un gruppo ne aggredisce un altro, gli individui che subiscono un danno o temono di subirlo sono autorizzati ad intraprendere azioni di autotutela. E’ però ugualmente vero che questa “difesa” non può essere esercitata che nei riguardi degli aggressori e secondo un principio di proporzionalità. Non è lecito, in particolare, ferire o uccidere chi non ha alcuna responsabilità nell’azione criminale. La reinterpretazione libertaria degli antichi princìpi scolastici del bellum justum muove da qui. Ed è per tale ragione che di fronte ad un esercito invasore è lecito per la popolazione aggredita reagire anche con strumenti militari, a condizione però che i mezzi di offesa siano orientati verso quanti hanno deciso tale atto di guerra o comunque hanno partecipato all’invasione. E’ giusto difendersi, attaccare le colonne armate, respingere gli attacchi aerei e distruggere le basi navali del nemico, ma certo non è in alcun modo giustificabile un’azione di guerra che leda i diritti delle popolazioni civili: bombardando le città, ad esempio. In questo senso, secondo la nuova storiografia libertaria che ha preso le mosse da Rothbard non esiste possibilità di giustificare le scelte di quegli uomini politici e di quei generali che hanno preteso di coinvolgere nei conflitti i semplici cittadini e hanno quindi considerato legittimo l’impiego di armi di distruzione di massa quali gli ordigni sganciati dagli aerei o le bombe atomiche. Se quando si utilizza una pistola o un fucile si è in condizione di controllare con ragionevole certezza chi potrà trovarsi sulla traiettoria dei propri spari, un attacco nucleare – per ovvii motivi – è destinato a spargere lutti tra persone innocenti. L’ampio raggio della sua azione è tale che, salvo casi estremi (come nell’ipotesi, davvero improbabile, di un gruppo terrorista che fissi la propria base in un deserto), il ricorso ad un simile strumento appare del tutto ingiustificato.

E’ una riflessione coerente con i criteri fondamentali del diritto libertario, quindi, quella che conduce lo studioso americano ad esprimere un giudizio severissimo sui conflitti novecenteschi, che a Rothbard appaiono tutti sostanzialmente illegittimi e criminali. Per l’autore di The Ethics of Liberty le stragi hitleriane e staliniane sono da condannarsi, ma lo stesso si deve dire per i bombardamenti anglo-americani sui centri abitati della Germania o del Giappone, che hanno causato la morte di centinaia di migliaia di vittime innocenti. Essere cittadini tedeschi o giapponesi all’inizio degli anni Quaranta non può essere considerato un crimine da punirsi con la pena di morte. Per Rothbard non vi è una morale “emergenziale” a cui si possa fare ricorso in tempo di guerra e tale da rendere legittime quelle azioni terroristiche che, in tempo di pace, nessuno giudicherebbe tali. E’ nel nome di un garantismo liberale coerente, quindi, che Rothbard prende le difese di quanti (innocenti e disarmati) finiscono sotto l’attacco di un esercito. La netta affermazione dei diritti naturali individuali, quindi, finisce per rigettare ogni forma di Realpolitik e, più in generale, ogni pretesa della sovranità statuale di ignorare i diritti dei più deboli.

Nel momento in cui Rothbard teorizza tale antistatalismo egli finisce in effetti per mettere sotto accusa l’intera politica statunitense: accentratrice, aggressiva, guerrafondaia. Ma è ugualmente importante sottolineare come questa prospettiva di Rothbard sia perfettamente nel grande solco della tradizione liberale. Se ci si volge ad esempio verso un autore come John Locke (certamente l’interprete più autorevole del liberalismo classico), si vede come il governo limitato sorto contrattualmente al fine di assicurare ordine e protezione possa operare unicamente entro ben ristretti confini: esso “è tenuto ad usare la forza della comunità, in patria, solo per l’esecuzione di quelle leggi (poste a difesa dei diritti individuali); e, fuori, al fine di prevenire e risarcire offese esterne e mettere la comunità al sicuro da scorribande e invasioni”. In Locke stesso, insomma, non vi è alcuno spazio per logiche espansionistiche, “interventi umanitari” ed altre forme di politica imperialista.

Nell’età contemporanea, purtroppo, tutto questo sembra dimenticato e non è raro che si autodefiniscano “liberali” autori ed uomini politici che ogni giorno celebrano la guerra quale strumento atto a “portare la democrazia”, “difendere la civiltà” e “diffondere i valori dell’Occidente”. Il risultato è che negli Stati Uniti di questi ultimi decenni nel dibattito sulla pace e sulla guerra gli unici ad interpretare la tradizione liberale (che è tradizione, va detto, isolazionista e quindi non interventista) sono stati i libertari come Rothbard, taluni conservatori old style non immemori della lezione di Albert Jay Nock e qualche radical irriducibile (Gore Vidal, ad esempio): con toni diversi, tutti fedeli all’idea che se l’esercito americano ha una funzione da assolvere essa consista solo nel tutelare la popolazione degli States da effettivi attacchi militari o di altro genere provenienti dall’esterno. Si tratta di un isolazionismo che ovviamente non comporta alcuna forma di isolamento o chiusura, dato che in generale costoro sono – per usare le parole di Rothbard stesso – “favorevoli al non-intervento politico negli affari della altre nazioni, e anche all’internazionalismo economico e culturale nel senso di libertà pacifica di commercio, d’investimento e di scambio tra tutti i cittadini di tutti i Paesi”.

Questa, come è noto, fu per lungo tempo la teoria prevalente nelle ex colonie inglesi: e questo fu a lungo lo spirito autentico dell’America. Secondo Thomas Jefferson, l’uomo che più di tutti ha contribuito a definire l’americanismo stesso, l’America doveva intrattenere rapporti di “pace, commercio ed onesta amicizia con tutte le nazioni, senza stringere alleanza con nessuna di esse”; e, soprattutto, senza intromettersi negli affari altrui. Ma un’analoga ispirazione si ritrova in The Proclamation on Neutrality, promulgato da George Washington il 22 aprile 1793 mentre l’Europa stava precipitando in una più che decennale lotta contro l’imperialismo francese. I padri fondatori dell’America originaria, insomma, non si proponevano di salvare il mondo con la lama delle loro baionette ed anzi avevano una concezione molto ben definita dei compiti del potere federale. Le cose cambiano quando la società americana inizia ad “europeizzarsi”. E non è certo un caso se negli scritti di Rothbard sono proprio i presidenti americani del ventesimo secolo ad essere oggetto delle critiche più feroci, in quanto fautori di politiche illiberali in economia (alta spesa pubblica, forte tassazione, crescente controllo sull’economia) ed al tempo stesso di un sempre maggiore coinvolgimento degli Usa in ogni area calda del pianeta. Sono stati soprattutto tali politici ad essere in prima linea quando si trattava di abbandonare i buoni princìpi del liberalismo classico per lanciarsi in politiche avventuristiche più o meno “umanitarie”: almeno dalla prima guerra mondiale in poi.

Difendersi dallo Stato e senza lo Stato

Usando le parole di Randolph Bourne, Rothbard afferrma che “la guerra è la salute dello Stato”, il quale grazie ad essa rafforza il proprio potere, il proprio orgoglio ed il proprio dominio sulla società. Interi Paesi, in tal modo, divengono accampamenti militari e la società stessa adotta, per dirla con Albert J. Nock, “la moralità di un esercito in marcia”. E’ ugualmente chiaro che non vi è alcuna significativa differenza tra polizia ed esercito, dato che entrambi questi apparati dello Stato si giustificano quali strutture monopoliste protettive ed assolvono alle loro funzioni disponendo (diversamente dalle polizie private) di risorse estorte con la tassazione. Oltre a questa, esiste un’altra nota caratteristica del “realismo libertario”. Essa è riconoscibile nella volontà di abbandonare ogni fittizia ed artificiosa distinzione tra le due specie di individui che vengono invece costantemente prese in esame dalla tradizione giuspubblicistica. Secondo la cultura politica dominante, in effetti, vi sarebbe una sorta di alterità ontologica che separerebbe l’individuo investito di un qualsiasi potere statale e quanti non hanno alcun ruolo all’interno delle istituzioni. Mentre l’uomo di Stato può sottrarre risorse (con la tassazione), rapire persone (con la coscrizione obbligatoria) e minacciare il prossimo (con la regolamentazione), gli stessi comportamenti compiuti da una persona priva di ogni investitura ufficiale sono stigmatizzati quali reati e comportano gravi conseguenze per chi li compie.

Qualche esempio può illustrare bene la situazione. Il generale che in guerra ordina un attacco e in questo modo si rende responsabile di uno sterminio è un servitore dello Stato e una persona rispettata, mentre non lo è il capomafia che ordina una strage del tutto analoga; il rapimento è tale se il protagonista del gesto è un cittadino qualunque, ma viene diversamente interpretato se la vittima è un giovane ventenne e l’organizzazione che gestisce il kidnapping è l’esercito di uno Stato, che impone la coscrizione militare; il ladro che entra nelle abitazioni per rubare denaro e gioielli viene indagato e messo in prigione, mentre certo non subiscono questo trattamento coloro che lavorano per l’apparato fiscale e tolgono ai contribuenti una parte considerevole di ciò che essi possiedono. E’ certamente una buona cosa che i criminali comuni siano contrastati, ma è difficile capire per quale motivo non si possa essere ugualmente severi con chi compie azioni del tutto identiche per conto dello Stato.

Se l’universo sociale statizzato è un universo che include uomini con divisa e uomini senza divisa, agli occhi dei libertari appare molto difficile giustificare che il medesimo comportamento possa essere legittimo se compiuto dai primi ed inaccettabile, invece, se ad agire sono i secondi. Quando contestano tutto ciò i libertari non fanno altro che recuperare il senso profondo di quell’espressione lockiana secondo la quale “i monarchi assoluti non sono che uomini” e – nello spirito cristiano che pervade la riflessione del pensatore inglese –fratelli dei loro sudditi. Rothbard chiede quindi che si proceda anche ad un’integrazione metodologica tra Stato e società, grazie ad una reductio ad unum che elimini ogni frontiera artificiosa e imponga di usare lo stesso metro nel giudicare gli uomini che agiscono entro l’apparato statale e quelli che operano al suo esterno. Egli è esplicito nell’ammettere che “il libertario si rifiuta di dare allo Stato quella licenza morale di commettere azioni che quasi tutti ritengono immorali, illegali e criminali se commesse da privati. Il libertario, in sintesi, insiste sull’applicazione della legge morale generale a tutti, senza eccezioni”. Il carattere radicalmente demistificatorio di tali proposte aiuta a capire come il libertarismo sia in condizione di svelare tutta la fragilità della tradizione politica moderna, incapace di spiegare la differente natura del governante e del governato. Quando si sforza di operare una lettura unitaria e integrata della società, Rothbard si rifiuta di prendere per buone le autointerpretazioni ideologiche (nell’accezione marxiana del termine) che le classi politiche ci offrono. Dietro alle maschere della democrazia e del bene pubblico, insomma, vi è solo un gruppo criminale vincente che è riuscito a conquistare il centro della scena e per questa ragione può definire legale la sua posizione e automaticamente illegale quella di tutti coloro che vi si oppongono. Come scrisse Spooner: “I fatti sono questi: il governo, come un bandito, dice all’individuo: “O la borsa o la vita”. E una larga parte, se non la maggior parte, delle tasse viene pagata sotto questa minaccia”.

Per questo motivo, mentre la violenza aggressiva dello Stato è illegittima, agli occhi dei libertari (che non sono necessariamente pacifisti assoluti) è del tutto legittima la resistenza operata da gruppi armati che combattano il potere istituito e non coinvolgano soggetti innocenti nella loro lotta. Scrive Rothbard: “la guerriglia possiede l’antica e onorata virtù di bersagliare solo il nemico, risparmiando i civili innocenti”. Egli non manca di aggiungere che i guerriglieri, “per guadagnarsi ancor più il sostegno dei civili, spesso rinunciano alla coscrizione e alla tassazione, e contano, per procurarsi uomini e materiali, sugli aiuti volontari”.

Proprio perché è segnato fin dalle sue origini dall’aggressione e dall’ingiustizia, lo Stato non può in alcun modo essere considerato garante della pace e della giustizia. In fondo, nell’etica libertaria il diritto di resistere alla violenza si esprime anche e soprattutto nel diritto di resistere allo Stato. Proprio per questo motivo la prospettiva integralmente liberale adottata da Rothbard implica una fondamentale condizione: che il sistema giuridico e protettivo sia anch’esso parte del mercato e quindi si lasci alle spalle la logica coercitiva che è propria degli odierni sistemi statizzati. Bisogna chiedersi come sia possibile difendersi dalla criminalità e dare vita ad una società ordinata, però, in assenza di un apparato pubblico di protezione. Nessuno può dire esattamente come davvero opererebbe un mercato concorrenziale della sicurezza e della giustizia quando esso dovesse vedere la luce, ma certo è già ora possibile avanzare alcune congetture in merito a come sarebbe un universo sociale liberato anche in questo ambito particolare dal monopolio pubblico. In primo luogo, Rothbard evidenzia come in una società libera ogni individuo vedrebbe riconosciuto il diritto a possedere armi: un diritto che non è più nemmeno rivendicato dalle popolazioni europee (da secoli abituate ad elevati standard di coercizione), ma che invece è fortemente sentito negli Stati Uniti, dove è tutelato dal secondo emendamento alla Costituzione e dalla forte opposizione popolare che si costituisce ogni volta che ne viene proposta l’abolizione.

L’ordine libertario permetterebbe, inoltre, il costituirsi di milizie volontarie (locali, professionali o di altro genere) e di iniziative imprenditoriali miranti proprio a soddisfare la domanda di sicurezza e anche ad offrire protezione, in forma no profit, a quanti sono privi dei mezzi economici necessari per acquistarla sul mercato. Già oggi numerose industrie e banche ricorrono a compagnie private per tutelarsi di fronte alla delinquenza: a dispetto dell’alta tassazione subìta per finanziare le polizie statali, molti ritengono necessario rivolgersi a soggetti privati al fine di proteggere la propria attività e i propri beni. Questa offerta concorrenziale di sicurezza dimostra meglio di tanti discorsi cosa intende Rothbard quando sostiene che nemmeno la protezione è un bene pubblico. Pure essa, infatti, è caratterizzata da rivalità nel consumo (se alcuni poliziotti pattugliano un quartiere, non potranno essere presenti in un altro) ed escludibilità (le guardie giurate impegnate a difendere una banca non sono interessate ad intervenire contro un ladro che stia per entrare in un negozio che non è loro cliente), così da non corrispondere affatto a quei criteri individuati da Paul Samuelson nel noto articolo del 1954 sui beni pubblici.

Resta ancora da chiarire come si possa evitare il caos hobbesiano o, in termini moderni, l’esplodere di una criminalità organizzata che prenda il sopravvento sulla società civile e sugli individui rispettosi dei diritti altrui. E’ il caso di chiedersi cosa ci permetta di ritenere che in una futura società libertaria variamente organizzata non emergerà, al di là di ogni migliore intenzione, un inferno disordinato in cui saranno i più violenti e spregiudicati, alla fine, a prevalere. Rothbard sottolinea come vi siano molte esperienze storiche, soprattutto prima dell’avvento della statualità moderna (si pensi all’ordinatissima “anarchia medievale”, per usare la nota espressione di Jean Baechler), che ci permettono di avanzare ragionevoli congetture su come potrebbe essere, oggi, una società senza monopolio statale. Da americano, per giunta, egli non può ignorare la libertà radicale del West, dove – in contrasto con quanto ci è stato spesso raccontato in film e romanzi d’avventure – l’assenza del monopolio legale della violenza permise la nascita di un ordine basato sull’autotutela e sulla libera coordinazione volontaria: grazie ai servizi di mercato offerti da sceriffi, bounty killers, società di protezione privata (la più nota fu la Pinkerton), e così via. E’ anche interessante rilevare come numerosi studi storici abbiano non solo evidenziato gli altissimi tassi di crescita dell’economia della Frontiera (verso la quale per decenni affluirono grandi masse di coloni), ma anche che la criminalità era meno significativa nel West – in rapporto al numero degli abitanti – rispetto alle aree “statizzate” dell’Est.

Di fronte all’ipotesi di una completa scomparsa dello Stato molte perplessità sono infatti avanzate da quanti ritengono che un sistema di protezione e giustizia di tipo privato difficilmente potrebbe essere in grado di assicurare un’efficiente difesa militare, ovvero un’adeguata tutela di fronte a eserciti e gruppi terroristici. Ma a tale proposito non si deve trascurare il fatto che un’occupazione militare, come rileva Rothbard, è del tutto priva di quella pur parziale legittimazione di cui ora godono normalmente gli Stati. Gli occupanti potrebbero insomma dover fare i conti con una conflittualità endemica e quindi con costi crescenti. Ricordando le molte guerriglie popolari contro gli eserciti stranieri, Rothbard evidenzia che “il ventesimo secolo ci ha dato una lezione (una lezione data per la prima volta al potente Impero britannico dai rivoluzionari americani vittoriosi): nessuna forza di occupazione può sottomettere troppo a lungo un popolo determinato a resisterle”10. La stessa eventualità di dover fare i conti con tale resistenza, allora, rappresenterebbe di per sé un forte disincentivo a lanciarsi in simili imprese.

Quanti ritengono che una difesa comune non potrebbe emergere volontariamente trascurano che in una società di mercato ogni piccola realtà (agenzia di protezione, comunità, county privata e così via) sarebbe portata a sottoscrivere accordi ed intese con altre entità simili o anche di taglia maggiore: prenderebbero corpo, insomma, federazioni e consorzi capaci di garantire i vantaggi delle istituzioni di grandi dimensioni senza che necessariamente gli individui siano costretti a subire l’aggressione dello Stato. Come è stato mostrato da Hummel e Lavoie in un loro articolo consacrato proprio alla difesa nazionale11, non è affatto vero che a causa dell’interesse personale gli individui non sono in grado di collaborare. Questi due economisti hanno infatti mostrato come un Dilemma del Prigioniero iterato (e quindi l’adozione di un modello meno lontano dalla realtà di quanto non sia il semplice gioco a due usato, ad esempio, da Joan Robinson per mettere in discussione la società di mercato) ci faccia comprendere che perfino individui razionali ed utilitaristi possono essere motivati a partecipare alla produzione di un bene di cui anche altri beneficeranno. Tali considerazioni trovano un’ulteriore conferma nell’attenzione crescente che i libertari riservano al tema delle comunità volontarie, ai fenomeni secessionisti contemporanei, ma anche a quell’insieme di elaborazioni neo-federali che stanno progressivamente rivoluzionando il nostro stesso modo di guardare al rapporto tra le istituzioni e il territorio.

Perché un libertario deve opporsi all’imperialismo

Alcune interessanti analisi di Rothbard sul tema della guerra si trovano in un saggio che egli scrisse nel 1963 sulla rivista The Standard, avviando una delle sue caratteristiche polemiche con il più celebre opinion-maker dell’universo conservatore americano, William F. Buckley Jr., che aveva accusato i libertari di entusiasmarsi magari su questioni marginali come la privatizzazione dei rifiuti urbani, salvo poi ignorare i grandi problemi politici: quelli, in particolare, che concernono la pace e la guerra. La tesi di Buckley era che i libertari potevano certo divertirsi a fare gli utopisti su questa o quella questione, ma solo perché di fatto seguivano una logica conservatrice “ortodossa” su ogni tema cruciale. A partire, appunto, dalla questione della difesa. Rothbard coglie qui l’occasione per opporre alle accuse di Buckley una riflessione molto rigorosa sul tema delle relazioni internazionali. Il suo punto di partenza, ovviamente, è il rifiuto di ogni azione lesiva dei diritti naturali. Nel linguaggio rothbardiano, “il fondamentale assioma della teoria libertaria è che nessuno può minacciare o commettere violenza (“aggredire”) la persona o la proprietà altrui”. Da questo egli non fa affatto discendere un pacifismo assoluto, poiché è persuaso che sia possibile usare la violenza, ma solo contro chi attacca per primo: per evitare l’aggressione o per porvi rimedio.

La riflessione di Rothbard sulla guerra rinvia costantemente a questa premessa, essenzialmente etica. Quando Smith aggredisce Jones, quest’ultimo ha diritto di reagire, ma egli non può certo mettere in discussione la vita, l’incolumità e la sicurezza di altre persone (innocenti ed incolpevoli). E come queste considerazioni generali possano avere immediate traduzioni sulle questioni della pace e della guerra lo si comprende immediatamente. Abbiamo già rilevato che alla luce degli assiomi rothbardiani tutti i conflitti che abbiamo conosciuto nell’età moderna e contemporanea appaiono illegittimi ed ingiusti. Non è lecito bombardare civili; non è moralmente ammesso distruggere città, campi e fabbriche; non è possibile neppure bloccare le attività economiche di quanti appartengono ad un Paese il cui governo è in guerra con un altro. L’aggredito ha diritto di difendersi e fare guerra, ma unicamente se resta entra i limiti dettati da quelle norme di giustizia che lo obbligano a reagire soltanto nei riguardi dell’aggressore.

Come già sarà risultato chiaro, Rothbard è erede di una lunga riflessione – soprattutto medievale e scolastica – sulla guerra giusta (bellum justum) e sulle condizioni da rispettare, se attaccati, per non passare a propria volta dalla parte della colpa. In questo senso, per lo studioso americano non esiste solo una differenza di grado tra i conflitti del passato e quelli dell’età presente: la differenza è pure una differenza di genere. Secondo Rothbard, molti strumenti bellici contemporanei – le bombe nucleari come quelle “convenzionali” sganciate dagli aerei – sono infatti intrinsecamente illegittimi dal momento che “tali armi sono ipso facto macchine di distruzione indiscriminata di massa”, che non possono non uccidere e ferire un gran numero di innocenti. Per questo motivo, “l’uso di armi nucleari, o anche la minaccia di farvi ricorso, rappresenta un peccato ed un crimine contro l’umanità per il quale non ci può essere alcuna giustificazione”. E’ sulla base di tali considerazioni, quali discendono da elementari ed incontestabili valutazioni morali, che Rothbard fu sempre – al tempo stesso – un deciso partigiano del disarmo nucleare ed un fiero difensore del diritto di avere e portare armi (tutelato, in America, dal secondo emendamento del Bill of Rights). Ma anche quanti hanno il diritto di difendersi non possono – neppure in questa loro azione di auto-tutela – mettere a rischio i diritti di persone innocenti. Questa considerazione aiuta a comprendere perché, per Rothbard, nessun conflitto legittimo può vedere protagonista lo Stato, dato che esso è in definitiva costituito da una piccola organizzazione che dispone del monopolio della violenza aggressiva in un dato territorio e in tal modo ottiene il controllo delle persone che vivono in quell’area e delle loro risorse. Anche in tempo di “pace”, allora, lo Stato è lo strumento di un’aggressione ingiusta (una specie di guerra anch’essa, in definitiva) contro soggetti innocenti, a cui viene negato il legittimo diritto di ribellarsi.

Come John Locke nel suo celebre passo sull’appello al Cielo (e come i monarcomachi cattolici e protestanti del sedicesimo secolo), Rothbard giudica legittimo il tirannicidio. Al tempo stesso, ogni guerra condotta dagli Stati è illegittima perché utilizza risorse estorte con la violenza (tassazione) e aggredisce persone del tutto innocenti (i cittadini dello Stato “nemico”). Se quindi vi sono certamente ribellioni che possono essere legittime, non vi sono guerre condotte da Stati che possano pretendere di essere considerate tali. In questo senso, l’estraneità di Rothbard a buona parte del pensiero contemporaneo non viene tanto e solo dal rigetto del paradigma statuale di origine hobbesiana, ma anche e soprattutto dalla fedeltà al realismo filosofico aristotelico-tomista e, in particolare, ad una concezione “etica” delle relazioni sociali. Per tanti aspetti, Rothbard è l’anti-Machiavelli del ventesimo secolo: egli non solo ha rige ttato l’idea che la politica possa essere sottratta ad ogni relazione con l’etica ed i suoi imperativi, ma più di ogni altro si è sforzato di restare fedele a tutto ciò. Ma di fronte alla realtà attuale delle relazioni internazionali e ai problemi che oggi essa solleva come può atteggiarsi un libertario?

La risposta di Rothbard è chiara. Nel momento in cui vi sono entità straniere che vorrebbero aggiungere la loro minaccia all’aggressione già messa in atto dal “proprio” Stato (come era in passato di fronte al pericolo sovietico ed oggi dinanzi al terrorismo fondamentalista), il solo modo per ampliare gli spazi di libertà consiste nel “fare pressione sul proprio Stato al fine di limitare le sue attività all’area che esso monopolizza e non aggredisca altri Stati monopolisti”15. Più in generale, la tesi libertaria è che si deve cercare di evitare ogni guerra tra Stati, ingiusta per definizione. In un contesto come quello presente, dominato da relazioni internazionali che ancora oggi sono essenzialmente relazioni tra Stati, per lo studioso americano l’obiettivo dei libertari “è impedire ad ognuno di essi di estendere la propria violenza alle altre nazioni, affinché la tirannia di ogni Stato possa essere se non altro confinata alla propria giurisdizione”. Ogni conflitto militare reale o potenziale (come ai tempi della Guerra Fredda) offre alle classi politiche nazionali il pretesto per continuare una politica estera interventista e, di fatto, imperialista. Con la conseguenza che l’odio e l’ingiustizia, in tal modo, rischiano di causare altri risentimenti ed ulteriori reazioni. Tanto più che nessuna potenza desiderosa di dominare il mondo (dalla Roma antica all’Unione Sovietica) è mai stata amata da popoli costretti ad ubbidire.

Questa posizione non sempre è stata compresa al punto che proprio Rothbard (il più strenuo difensore, nel corso del Novecento, della libertà individuale e della proprietà privata) è stato ripetutamente accusato – da parte conservatrice – di essere un fiancheggiatore o un simpatizzante dell’Unione Sovietica. Ovviamente non è così e qualcuno certo può essere stato indotto ad esprimere questo giudizio dal fatto che, nella sua attiva e spregiudicata militanza in difesa della pace e dell’isolazionismo, egli ha sempre cercato le “alleanze” più eterodosse: dalla sinistra radical di Noam Chomsky alla destra populista di Pat Buchanan. Rothbard era pronto ad allearsi con tutti pur di difendere la libertà e quindi la pace stessa. Sapeva che la sua personale “compromissione” con questo o quel personaggio poco contavano di fronte all’obiettivo che egli perseguiva. Oggi sappiamo che aveva ragione e che certo l’America attuale sarebbe molto migliore se il suo insegnamento non fosse stato ignorato e se egli non fosse stato vittima di un’emarginazione da cui solo ora, dopo la morte, inizia ad uscire.

14 febbraio 2003

(da Ideazione 1-2003, gennaio-febbraio)
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