Simenon, cent'anni di giallo d'autore
di Carlo Roma

Quattrocento romanzi pubblicati nel corso di una lunga ed inesausta carriera: racconti avvincenti, capaci di lasciare il segno, scritti utilizzando una lingua semplice e disarmante. Novecento articoli dati alle stampe durante la sua attività giornalistica. Un numero infinito di donne conquistate (oltre diecimila, secondo quanto raccontano le sue biografie più attente) e tre moglie con le quali trascorrere un’esistenza placida e benestante. Sono questi i numeri di Georges Simenon, il celeberrimo papà del commissario Maigret, del quale ricorre, il prossimo 13 febbraio, il centenario della nascita. In un’intervista concessa ad un giornalista italiano dalla sua ultima residenza svizzera, nella primavera del 1985, quattro anni prima di spegnersi, egli disse a proposito della sua feconda vena narrativa: “Ho usato meno di duemila parole”. Poche, si potrebbe pensare. Duemila parole, però, sufficienti per mettere in scena, sin dal suo primo romanzo, "Le roman d’une dactylo", redatto all’età di ventidue anni, una carrellata di personaggi ora oscuri e fragili, ora affabili e intriganti.

Attraverso le sue descrizioni sempre precise e calibrate, emergono, infatti, delle figure spoglie da ogni parvenza o finzione. Immagini nitide, tagliate con l’accetta, di uomini e donne comuni che si possono incontrare ogni giorno per la strada. Uomini di mezza età come, appunto, il buon Jules Maigret. Commissario al Quai des Orfèvres, la storica sede della polizia giudiziaria parigina, Maigret è alto, ben piazzato, avvolto in un pesante cappotto e nascosto da un cappello a larghe falde. Non manca mai, entrando nel suo ufficio da cui si domina il lento e pigro fluire della Senna, di scegliere una fra le sue tante pipe che adornano la vetrina di un vecchio e polveroso armadio. Non esita mai di consumare, alla brasserie Dauphine, una birra fresca o un sorso di vino con cui bagnarsi il gargarozzo e sciogliere le idee ancora nebulose che lo agitano quando fervono le indagini. Dalla sua scrivania, dietro il massiccio telefono nero che squilla in continuazione, riscaldato dal tepore che emana la stufa accesa ogni mattina, Maigret ha visto sfilare ogni sorta di criminale. Povera gente, per lo più, spinta a commettere un reato per necessità. Ma anche oculati e navigati habitué del misfatto magari a caccia d’eredità e avidi di quattrini, smascherati con le mani ancora sporche di sangue innocente. 

Per acciuffare gli uni e gli altri il commissario sguinzaglia per i quartieri popolari della Capitale la sua squadra composta dai fidi agenti Lucas, Janvier, Lapointe e Torrence. Le informazioni che gli pervengono si aggiungono alle conclusione che trae dai tanti interrogatori condotti setacciando, porta dopo porta, lo stabile in cui si è verificato l’omicidio. Le portinaie, le vicine di casa, e gli anziani del palazzo, sono la fonte principale delle sue deduzioni per raggiungere la verità. Ogni particolare, anche quelli più ingarbugliati, viene meditato nella pace dell’appartamento borghese di boulevard Richard -Lenoir nel quale il commissario si rifugia alla fine di una dura giornata di lavoro, atteso dalle cure rigeneranti della discreta e assertiva signora Maigret.

Simenon, per così dire, costruisce il prototipo del poliziotto mediterraneo. Jules Maigrat apparve, per la prima volta, nel 1929 in una storia ambientata in un piccolo porto olandese. Al contrario degli investigatori anglosassoni (soprattutto Auguste Dupin, la creazione letteraria di Edgar Allan Poe) la sua indole registra un alto tasso di umanità e di immediatezza. Il suo metodo è rigoroso e la volontà di perseguire la verità è ferrea. Il suo senso di giustizia, nondimeno, lo guida di frequente alla comprensione umana del reo: i suoi gesti così familiari, le sue abitudini di tutti i giorni, lo rendono accessibile e lineare. Maigret appartiene ad una classe sociale piuttosto elevata ma rientra a pieno titolo fra le persone comuni. Sono gli aspetti più pittoreschi del suo carattere, fra i quali spicca la sua passione per i piaceri della buona tavola, a renderlo ancora vicino al lettore di oggi come a quello di ieri.

D’altra parte i tanti racconti di Simenon costituiscono davvero una rassegna invidiabile di volti, di esperienze di vita e di vicende intrise di delusioni e speranza nel futuro. A lungo considerato solo in virtù del piacevolissimo contributo che ha offerto al giallo, arricchendone le linee di sviluppo, Simenon è stato in qualche modo emarginato nel limbo degli scrittori di genere. In realtà, non è così. La sua cifra stilistica ed i contenuti che si nascondono dietro le sue narrazioni valicano i confini dell’ambientazione poliziesca. Mentre il commissario, delitto dopo delitto, scandaglia i bassifondi dell’anima di tanti delinquenti, il suo autore osserva con l’occhio attento di chi conosce il cuore dell’uomo la parabola di oscuri personaggi spesso in preda all’ossessione, al turbamento e alla noia. 

L’ultima avventura del commissario Maigret risale al 1979. Quell’anno Simenon scrive al suo compagno di viaggio una lettera nella quale gli ricorda che “ricorre il cinquantesimo anniversario del giorno in cui ci siamo conosciuti. Lei aveva quarantacinque anni io venticinque” . Nel frattempo, in più di cinquant’anni, la sua penna continua a rappresentare con mano sicura un numero ininterrotto di ritratti umani come ad esempio quello contenuto ne "Lettera al mio giudice" pubblicato nel 1951 e riproposto da Adelphi nel 2001. Charles Alavoigne è una delle tante espressioni in cui si manifesta la genialità senza regole e a tutto tondo di Simenon. Charles è un medico. Vive un’esistenza senza colore alla quale la bella e minuta Martine, incontrata per caso in una stazione di provincia sotto una pioggia battente, restituisce la tensione perduta. Una tensione che sfocia in una progressiva ossessione, in una volontà di possesso e nella definitiva determinazione a porre fine, con la morte, alla presunta libertà della giovane. 

Uomini cupi e soli, dunque, sconfitti dalla vita, alla ricerca di ascolto ed indulgenza. Ma anche donne accattivanti, sensuali e disponibili. Come quella che compare ne "La vedova Couderc", romanzo partorito nel 1942 e presentato da Adelphi. La signora Couderc accoglie nella sua fattoria un ex galeotto appena uscito di prigione. Gli garantisce un riparo di pura carnalità. Un destino tragico dietro l’angolo, ancora una volta, imprimerà il suo segno sulla conclusione della vicenda.

Il centenario della nascita di Georges Simenon è un’occasione utile per riscoprire la varietà e la profondità di uno narratore spesso sottovalutato. André Gide nutriva un’autentica ammirazione per la lucida leggerezza con cui si dispiegano le trame e si mettono in scena le vite semplici tanto apprezzate dallo scrittore belga. Commentando proprio La vedova Couderc, Gide non esitava a scrivere, forse con una punta d’invidia, in una lettera indirizzata a Simenon: “Trovo che il suo libro si spinga molto oltre, pur senza averne l’aria, e quasi inavvertitamente, il che coincide con il livello più alto dell’arte. Quell’anno, era il 1942, uscì anche "Lo straniero" di Albert Camus. Il paragone fra le due opere mise sullo stesso piano due grandi delle lettere francesi. Il prossimo 6 maggio, con la pubblicazione di 21 romanzi composti fra il 1931 e il 1967, Simenon farà il suo ingresso nella Pleiade, il Gotha delle lettere francesi, e verrà consacrato fra i grandi. Gli verrà riconosciuto, finalmente, ciò che gli spetta di diritto da molto tempo. 

31 gennaio 2003

crlrm72@hotmail.com


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