Libri. Il lungo corso di una democrazia incompiuta
di Pino Bongiorno

Quella italiana è stata finora una democrazia incompiuta, mai in grado di dispiegarsi pienamente e tenuta in vita dalle ragioni emergenziali che il “lungo” Novecento le ha via via sottoposto. E’ questa la tesi che ispira l’ultimo libro, intitolato appunto “La democrazia incompiuta” (Marsilio, Venezia 2002, pp. 359, € 26), di Piero Craveri, in cui sia nel saggio iniziale, l’unico peraltro del tutto inedito, sia nei profili di alcuni dei principali protagonisti della nostra vita politica (tra questi, Sturzo, De Gasperi, La Malfa, Carli, Berlinguer, ecc.), si sottolinea la sostanziale “anomalia” del percorso democratico del nostro paese, un’anomalia dovuta all’incapacità di rispondere adeguatamente, e perciò politicamente, alle sfide della modernizzazione. Si comincia con l’età giolittiana, a inizio secolo, durante la quale l’insieme dei conflitti sociali rimane all’esterno della sfera politico-rappresentativa e neppure l’introduzione del suffragio universale maschile, nel 1913, cambia lo stato delle cose, anche perché il sopraggiungere della grande guerra impedisce al provvedimento di esplicare i suoi effetti. A partire dal 1922 si assiste alla “modernizzazion” fascista. 

“I tratti salienti della 'modernizzazione' del sistema politico e sociale italiano, con cui il fascismo chiuse la crisi del primo dopoguerra, sono essenzialmente due: da un lato, la statizzazione dei partiti e d’ogni forma di organizzazione sociale, col partito unico e la corporativizzazione della società, e dall’altro, dopo la crisi del ’29, la stabilizzazione dei caratteri fondamentali dell’ 'economia mista' italiana. Quanto al primo, apparentemente, si chiudeva un cerchio e le forme organizzate della società entravano a pieno titolo nel recinto più interno della struttura pubblica. La natura non democratica del sistema faceva tuttavia sì che, se il giolittismo le aveva confinate, attraverso l’azione amministrativa, all’esterno dello Stato, il fascismo le congelava al suo interno, e se l’Italia di inizio secolo aveva postulato, senza dare ad essi la forma necessaria, i principi di una moderna democrazia di massa, il fascismo dava forma per la prima volta a un regime di massa bloccato in una cornice totalitaria in cui il partito era insieme garante e referente” (pp. 21-22).

Questi tratti peculiari del ventennio fascista sono ereditati, nel secondo dopoguerra, dai partiti che danno vita alla democrazia repubblicana. La politica liberista del centrismo degasperiano incorpora e rafforza il sistema di “economia mista”, mentre il regime di massa è trasformato dalle maggiori forze politiche (democristiani, comunisti e socialisti) in una forma nuova di democrazia di massa. Una democrazia, però, che si rivela subito “bloccata”, e quindi incompiuta, perché il Pci non assicurava il rispetto e la continuità, nel caso avesse guidato una maggioranza di governo, degli ordinamenti istituzionali storicamente determinatisi. Una democrazia, pertanto, senza alternative, o meglio senza alternanza, imperniata sulla Dc e chiusa alle estreme, il Movimento sociale e il Partito comunista, come i governi postunitari, trasformisticamente arroccati al centro per impedire ai clericali e ai radical-repubblicani di mandare all’aria quanto ottenuto con le lotte risorgimentali.

Nella seconda metà degli anni Cinquanta le contrapposizioni si allentano e inizia a prendere forma una particolare dialettica tra maggioranza e opposizione, passata alla storia col nome di “consociativismo”, che troverà una configurazione istituzionale negli anni Settanta. Nel mezzo l’esperienza del centrosinistra, di cui è artefice soprattutto Amintore Fanfani, il gollista in sedicesimo, cui si deve la metamorfosi della Democrazia cristiana, che abbandona il vecchio collateralismo per aprirsi alla società e inizia l’occupazione sistematica delle strutture di potere pubblico. Con i governi di “unità nazionale”, successivi alle affermazioni elettorali del Pci nelle amministrative del 1975 e nelle politiche del 1976, lo snaturamento della democrazia rappresentativa raggiunge l’apice, anche se nelle questioni più delicate, euromissili o rientro dell’Italia nel serpente monetario europeo, le differenziazioni rimangono nette. 

All’indomani delle elezioni del 1979, Bettino Craxi, nuovo segretario del Psi, pone il problema, ancora oggi all’ordine del giorno, di una “grande riforma” istituzionale (Ottava legislatura, in “Avanti!”, 28 settembre 1979) in senso presidenzialista o per rafforzare i poteri del premier. Può essere la svolta necessaria per “sbloccare” il sistema, avviandolo a una compiutezza mai raggiunta. Non è così e anche Craxi si doroteizza e arriva a “condividere la convinzione, che era anche dei democristiani e di pressoché tutte le forze politiche, che il sistema fosse solido, malgrado le sue anomalie, i suoi costi abnormi, sia in termini di spesa pubblica, con un debito nel bilancio statale che nella sua inarrestabile crescita era funzionale alla raccolta di consenso nella competizione politica, sia per le distorsioni nel sistema di finanziamento della politica a cui tutti di fatto partecipavano, ma che diveniva sempre più lesivo di un normale svolgimento della vita democratica” (p. 59). 

Dieci anni dopo va in cortocircuito il sistema politico internazionale e nel 1992 anche quello interno, con le conseguenze devastanti che tutti conoscono. Finalmente si arriva, con le elezioni del 1996 e del 2001, a una democrazia dell’alternanza, che non è ancora però una “democrazia compiuta” perché per esserlo dovrebbe avere le necessarie e condivise regole del gioco.

31 gennaio 2003

Piero Craveri, La democrazia incompiuta, Marsilio, 2002, pp. 359, € 26
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