Tolkien politico
di Carlo Stagnaro e Alberto Mingardi

Quella che Ludwig von Mises chiamava “mentalità anticapitalistica” è particolarmente diffusa fra gli artisti e i romanzieri. La ben oliata macchina della propaganda socialista è riuscita a trasformare in legge i suoi tabù, facendosi astutamente scudo della cultura popolare. E’ così facile capicollare su romanzi e rappresentazioni e film socialisti (o, come s’usa dire, eufemisticamente, d’impianto sociale). Essi, lo sottolineava già l’economista viennese, “descrivono condizioni miserevoli che, insinuano, dovrebbero essere l’inevitabile conseguenza del capitalismo”. Ora, se è vero che un artista può mettere a frutto le sue abilità occupandosi d’un soggetto qualsiasi, è altrettanto vero che questo “pauperismo letterario” tende a espellere miti e leggende e più in generale “grandi storie” (contrapposte alle “piccole storie” della miseria quotidiana di questo immaginario mondo “capitalista”) dal club esclusivo della letteratura. La stessa idea di “bellezza”, per come è stata codificata nella lunga storia dell’Occidente, viene profondamente messa in discussione. Non v’è dubbio che John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) fosse sicuramente uno scrittore controcorrente, rispetto a questa tendenza. Era un cantastorie innamorato dei suoi racconti, un creatore di miti e leggende. Uno studioso delle lingue del passato, che senz’altro non si vergognava delle migliori eredità della civiltà occidentale. Anche per questo, per tutta la sua vita non mostrò alcuna simpatia per la pianificazione centralizzata (concetto che pure, negli anni in cui visse, andò di moda – sventolato dai comunisti o dai loro epigoni occidentali), ma anzi la avversò vigorosamente. Forse questa è una delle ragioni per cui si fatica a riconoscerlo come uno dei grandi scrittori del nostro tempo. Nonostante il suo capolavoro – Il Signore degli Anelli – abbia polverizzato ogni altro libro nelle classifiche di vendita del Novecento.

Non a caso, il film di Peter Jackson, La Compagnia dell’Anello (raro esempio di trasposizione sul grande schermo capace di catturare e preservare lo spirito del romanzo) è stato un clamoroso successo ai botteghini l’altr’anno. Così sarà, in questo 2003, per Le Due Torri. Sono buone notizie. Perché questo successo tolkieniano può rivelarsi un veicolo propizio per portare alle masse cinefile idee e sensibilità diverse da quelle diffuse negl’anni in cui Hollywood s’è rivelata strumento saldamente in mani “progressiste”. Tolkien ha dimostrato in più d’un’occasione di avere idee ben chiare sia sulle origini del socialismo, sia su quello che sarebbe stato il suo inevitabile risultato. E non solo perché, da cattolico devoto, non poteva sopportare chi liquidava la religione come oppio dei popoli. Le sue lettere (pubblicate a cura del figlio Christopher) sono uno strumento essenziale per farsi raccontare ciò che egli pensava del mondo attorno a sé – va ricordato che la genesi de Il Signore degli Anelli, pubblicato per la prima volta nel 1954-55, risale agli anni Trenta. Il futuro guardava indietro: l’alternativa sembrava essere quella fra nazismo e comunismo, cioè – come Tolkien realizzò subito – fra i due gemelli, figli della Rivoluzione francese2.Va inoltre sottolineato quanto Tolkien fosse rimasto impressionato dall’esperienza dei due conflitti mondiali, durante i quali egli provò sulla sua pelle l’infinita tristezza di quell’implacabile processo distruttivo. E’ stato uno dei suoi più acuti lettori, Tom Shippey, ad averlo definito uno “scrittore post-bellico”. Shippey nota inoltre come Tolkien abbia imparato a sue spese la lezione del ventesimo secolo, cioè che “la violenza genera violenza, che (per tornare all’esperienza inglese) la vittoria nella prima guerra mondiale generò solo il desiderio di vendetta che sfociò nel secondo conflitto mondiale. L’intera esperienza bellica inglese della prima guerra mondiale ha teso, inoltre, a mostrare che non c’era una precisa linea di demarcazione tra torto e ragione fra i due opposti schieramenti, a dispetto di quanto poteva dire la propaganda ufficiale […]. In questo contesto, i personaggi di Tolkien buoni, violenti, gentili e assetati di sangue – aggettivi, questi, che si adattano particolarmente a re Théoden – sembrano molto meno eccentrici, paradossali o irruenti di quanto abbiano indicato molti recensori”4.
Ciò che va compreso è che Tolkien non intravide mai, nella sua esperienza di vita, (e quindi non traspose nei suoi romanzi) alcuna possibilità che fosse il Potere ad agire per il bene. Non la trovò nel socialismo di sinistra (nella sua versione hardcore edificata in Russia, o in quella softcore divenuta popolare nelle democrazie a Ovest della cortina di ferro), né nel socialismo “nazionale” tanto caro a certa destra (nella variante interpretata fino in fondo da Hitler e preconizzata, per quanto in una versione smussata agli angoli, da Mussolini). Lo scrittore inglese non aveva alcuna fede in pressoché nessuna forma di organizzazione irregimentata. Quando la gente prova a prevedere il futuro, tende a dimenticare (o a far finta di non sapere) che la vita è assai più complessa di qualsiasi “sistema” si possa progettare: il corso del caso è per definizione impossibile da prevedere. Inoltre, gli esseri umani agiscono seguendo la propria ragione e la propria volontà, ma né l’una né l’altra s’incuneano in percorsi che siano costantemente prevedibili ai pianificatori.

L’anima “malefica” della pianificazione

Per quanto attiene la vita in battaglia, Tolkien parla con voce chiara al figlio Christopher: “Tuttavia è quasi inevitabile, dato che gli esseri umani sono quello che sono, e l’unico rimedio (oltre a una conversione universale) è che non ci siano più guerre – né programmazione, né organizzazione, né irregimentazione […]. Ma tutte le grandi cose programmate dall’alto danno questa impressione alla rotellina di un ingranaggio, benché in un quadro più generale abbiano la loro funzione. Una funzione il cui fine ultimo è malefico. Perché noi stiamo tentando di conquistare Sauron utilizzando l’Anello. E ci riusciremo (sembra). Ma lo scotto sarà, come tu ben sai, di nutrire nuovi Sauron e di trasformare lentamente uomini ed elfi in orchi. Non che nella vita reale le cose siano così definite come in una storia, e noi siamo partiti con un gran numero di orchi al nostro fianco… Bé, eccoti qua: un hobbit in mezzo agli Urukhai. Conserva nel cuore la tua hobbitudine, e pensa che tutte le storie sono così quando ci sei in mezzo5. Tu sei dentro una storia molto grande!”.

Da questo passaggio, possiamo dedurre che Tolkien fosse alquanto pessimista nel suo atteggiamento verso la storia, fatta salva la sua infinita fiducia nella Provvidenza. Egli era certo che ogni forma di pianificazione, messa in atto da esseri umani ambiziosi e presuntuosi, che s’immaginavano del tutto in sella alle proprie fortune, fosse impossibile e destinata a fallire. Tuttavia, non bisogna dimenticare che egli era sicuro che l’umanità agisse secondo un piano più alto, che si rivelerà al termine della storia, quando Dio ritornerà e dividerà i giusti dagl’ingiusti. Da un certo punto di vista, Tolkien non era lontano da certe sfumature millenariste: “io penso che ci sarà un “millennio”, i mille anni profetizzati di governo dei Santi, cioè di quelli che nonostante tutte le loro imperfezioni non hanno mai piegato il loro cuore e la loro volontà al mondo o allo spirito del male (in termini moderni ma non universali: alla tecnica, al materialismo “scientifico”, al socialismo in uno qualunque dei suoi aspetti che oggi sono in guerra)”. Non solo la pianificazione non può funzionare: essa è una sorta di “rivolta contro la natura” (così Murray N. Rothbard dirà dell’egualitarismo), nel senso che per mezzo di essa gli uomini tentano di prendere il posto dello stesso Dio. Quando essi si sentono in grado di controllare completamente il proprio destino, diventano tanto presuntuosi da “uccidere Dio”. Non è soltanto un’affascinante analisi, ma qualcosa di empiricamente vero. Tipicamente, i regimi socialisti tentarono di sbarazzarsi di ogni forma di religione fuorché l’adorazione del “sistema” – come oggi le socialdemocrazie “laiche”. Quanto successo abbiano avuto tali tentativi, è ancora cosa dubbia.

Un non-economista decisamente anti-socialista

Il grande pensatore che più d’ogni altri ha combattuto, e vinto, i dogmi socialisti, è l’economista austriaco Ludwig von Mises – uno studioso, si può rilevare en passant, che rubò alle pagine di Virgilio un motto che avrebbe calzato bene addosso a Tolkien: Tu ne cede malis sed contra audentior ito. Mises (come Tolkien) vi tenne sempre fede. In un suo classico saggio del 1920, rielaborato in libro nel 1922 (Socialismo, appunto), Mises sostiene la tesi che la socializzazione dei mezzi di produzione rende impossibile il calcolo economico: la pianificazione centralizzata finisce per disorientare e spezzare l’efficacia dei piani individuali. Non solo l’eliminazione della proprietà privata distrugge quella impalcatura di incentivi e gratificazioni su cui si regge il progresso economico: ma, accentrando competenze, sposta le decisioni su un singolo problema a livelli improbabili. L’abolizione dei prezzi, veicolo di conoscenza in un’economia libera, rende impossibile il calcolo economico. Messo ai margini dall’accademia, le tesi di Mises hanno trovato soddisfazione col crollo dell’Urss – quando ci è stato rivelato che alcuni “pianificatori” non facevano che passare la giornata sfogliando cataloghi per corrispondenza di provenienza occidentale, nel tentativo di spiare i prezzi altrui e tentare così di assegnare un “valore”, per quanto approssimativo, alle cose.

Sarebbe azzardato sostenere che Tolkien avesse una qualche familiarità con le analisi di Mises, così come lo sarebbe sostenere che il professore oxoniense avesse mai frequentato letture d’economia. Ma sembra che egli abbia acquisito, in virtù della propria esperienza di vita, una comprensione piuttosto sofisticata di come il socialismo (non) possa funzionare. Parlando del desiderio di sapere e della genuina curiosità nell’organizzazione universitaria egli disse: “Non è solo una questione della degenerazione della genuina curiosità ed entusiasmo in una “economia di piano”, sotto la quale così tanto tempo destinato alla ricerca viene raccolto entro maschere più o meno standardizzate e impiegato per produrre zuppe di dimensioni e forma regolate dal nostro stesso ricettario. Anche se questa fosse una descrizione dettagliata del sistema, io esiterei ad accusare chicchessia di pianificarlo con saggezza, o di approvarlo in toto ora che lo abbiamo. È cresciuto, in parte per caso, in parte per l’accumulazione di espedienti temporanei. Molti pensieri vi sono stati dedicati, e molto lavoro appassionato e poco remunerato è stato speso nella sua amministrazione e nel tentativo di mitigarne i mali”.

La Contea come metafora politica

In un’altra occasione, Tolkien aggiunse: “Io non sono un socialista – dato che sono contrario alla “pianificazione”, soprattutto perché i “pianificatori”, quando ottengono il potere, diventano malvagi – ma non direi che qui abbiamo sofferto a causa della malizia di Sharkey e dei suoi ruffiani. Benché lo spirito di Isengard, se non quello di Mordor, salti sempre fuori. L’attuale progetto di distruggere Oxford per far posto alle macchine è un esempio. Ma il nostro principale avversario è un membro del governo conservatore. Ma questo accade dappertutto ai giorni nostri”. Da tali parole è chiaro che Tolkien non avesse simpatia alcuna verso il socialismo. Egli seppe vedere chiaramente come le idee socialiste s’incuneavano e a destra e a sinistra, e in entrambi i casi questo significava un rigetto del cristianesimo e dei valori occidentali da parte delle forze politiche. Comprendeva inoltre come il socialismo non fosse soltanto un male in sé, ma anche in quanto presupponeva un’immensa classe di burocrati (pianificatori), il cui lavoro è in ultima analisi foriero di sempre più mali per la società intera: non è una mera questione d’(in)efficienza, ma anche d’(im)moralità. In un sistema in cui gli individui non sono chiamati a provvedere per se stessi, ma piuttosto s’affidano al potere politico, gareggiando per accaparrarsene le grazie, l’ossatura morale della società comincia a sfarinarsi. A Tolkien non sfuggì, inoltre, come il socialismo avesse conquistato l’opinione pubblica: sia gli intellettuali, sia la gente comune l’avrebbero abbracciato come la via migliore per produrre benessere (in parte a causa del fatto che l’alternativa, totalmente screditata proprio da una propaganda truffaldina, sembrava essere ormai stata consegnata al dimenticatoio della storia). Ogni seria critica del socialismo si fonda sulla comprensione dell’impossibilità della pianificazione: il comportamento degli individui non può essere “previsto” in alcun modo che possa essere davvero significativo. Sfuggono i dettagli. Come scrisse Tolkien, “un uomo non è soltanto un seme che si sviluppa secondo uno schema definito, bene o male in base alla sua situazione o ai suoi difetti in quanto esemplare della sua specie; un uomo è allo stesso tempo un seme e per certi versi anche un giardiniere, nel bene o nel male. Io sono colpito da come lo sviluppo del “carattere” possa essere il prodotto di un’intenzione consapevole, della volontà di modificare tendenze innate nella direzione desiderata […]. In ogni caso, io personalmente trovo la maggior parte della gente imprevedibile in situazioni particolari di emergenza”.

Parlando del “fallimento” di Frodo nel gettare l’Anello nel cratere del Monte Fato, egli aggiunge: “Non approvo l’uso della “politica” in un simile contesto; mi sembra falso. Per me è chiaro che il dovere di Frodo era “umano” non politico. Lui naturalmente ha pensato per prima cosa alla Contea, dato che le sue radici erano là, ma la ricerca aveva come obiettivo non tanto il mantenimento di questa o quella politica, come la mezza repubblica mezza aristocrazia della Contea, bensì la liberazione di tutta l’umanità [compresi Elfi, Hobbit e tutte le altre creature “parlanti”] da una malefica tirannia […]. Denethor era contaminato dalla politica: da qui il suo fallimento e la sua sfiducia in Faramir. L’obiettivo principale per lui era quello di conservare l’assetto politico di Gondor, così com’era, contro un’altra potenza, che era diventata più forte e quindi incuteva timore e doveva essere combattuta per quel motivo più che per il fatto che era corrotta e malvagia. Denethor disprezzava gli uomini deboli e si può star sicuri che non faceva distinzioni fra orchi e alleati di Mordor. Se fosse sopravvissuto come vincitore, anche senza usare l’Anello, si sarebbe avviato a grandi passi sulla strada della tirannia, e il trattamento che avrebbe riservato alle popolazioni sconfitte dell’Est e del Sud sarebbe stato crudele e vendicativo. Era diventato un leader “politico”: Gondor contro tutti gli altri”. Tolkien, inoltre, riconosce la bontà della “causa di chi ora si oppone al Dio-Stato12 e al maresciallo Tizio o Caio come alto sacerdote, anche se è vero (sfortunatamente) che molte delle loro azioni sono sbagliate, anche se fosse vero (e non è così) che gli abitanti dell’Ovest, tranne che una minoranza di ricchi padroni, vivono nella paura e nella miseria, mentre gli adoratori del Dio-Stato vivono in pace e in abbondanza e in piena stima e fiducia reciproche”. Ma, e noi oggi lo sappiamo bene, gli adoratori del Dio-Stato hanno costretto interi popoli a sperimentare la più nera povertà che l’umanità abbia mai conosciuto, dovuta interamente a ragioni politiche (l’intreccio tra carestia e collettivizzazioni in Urss, in particolare, è stato indagato a fondo da Robert Conquest).

Non solo, dunque, Tolkien era perfettamente a conoscenza dei problemi connaturati al socialismo: egli desiderava esprimere la propria posizione in termini così chiari, da dedicare al tema uno dei più importanti (e meno studiati) capitoli del suo capolavoro: l’ottavo capitolo del sesto libro, “Percorrendo la Contea”. Dopo la guerra dell’Anello, gli Hobbit ritornano a casa, giusto per imbattersi in una terribile sorpresa: il malvagio Saruman (il filosofo che sogna di diventare re secondo Tolkien) ha preso il potere e imposto un regime socialista. Per comprendere fino a che punto egli abbia modificato la situazione economica e politica della Contea, val la pena di ricordare come stessero le cose prima del suo arrivo. La Contea era un fazzoletto di terra i cui abitanti sapevano appena cosa significasse la parola “coercizione”. Era una sorta di confederazione fra quattro entità politiche (i “decumani”). Essa “non aveva in quel tempo un vero e proprio “governo”. Ogni famiglia si occupava dei suoi affari. I lavori agricoli necessari per produrre i generi alimentari ed i continui pasti occupavano interamente le loro giornate. Negli altri settori non erano, in linea di massima, avidi ed ingordi, bensì generosi e moderati, tanto che le dimensioni dei fondi, fattorie e botteghe rimanevano immutate per intere generazioni”. Se una volta c’era stato un re, al tempo della guerra dell’Anello la Contea non aveva sovrano. Gli Hobbit “attribuivano al re dei tempi antichi tutte le leggi fondamentali, e generalmente le osservavano di loro spontanea iniziativa, considerandole regole antiche e giuste”.

Di ritorno dal viaggio che ha portato alla distruzione dell’Anello, i quattro Hobbit (Frodo, Sam, Merry e Pipino) scoprono terribili mutamenti nella vita della Contea. Saruman (noto agli Hobbit di laggiù come “Sharkey”) ha fatto in modo di creare un potere centralizzato e un’economia pianificata. Egli inoltre ha messo sul “trono” Lotho, che si rivela al tempo vittima e predatore. In realtà, a un certo punto egli viene segretamente ucciso e, se dobbiamo dar retta alla voce melliflua di Saruman, addirittura mangiato dai suoi scagnozzi. È interessante apprendere come Sharkey sia riuscito a cambiare persino il paesaggio della Contea. Nonostante l’anno sia stato clemente, gli Hobbit sperimentano drammatiche carestie: “Noi coltiviamo un sacco di roba, ma non sappiamo esattamente dove vada a finire. Sono tutti questi “raccoglitori” e “spartitori”, suppongo, che girano misurando e contando e portando tutto ai magazzini. Più che spartire raccolgono, e non vediamo mai più la maggior parte della roba”. Inoltre, “le uniche cose che crescevano erano le Regole, e gli Uomini andavano in giro raccogliendo tutto “per un’equa distribuzione”: il che significava che loro prendevano tutto e noi niente”. Una moltitudine di nuovi “pubblici ufficiali” viene reclutata dal governo, poiché ovviamente tante regole hanno bisogno di altrettanti “tutori dell’ordine” che le facciano rispettare. La pianificazione centralizzata riesce a rovinare del tutto il paesaggio della Contea. La burocrazia abbisogna di nuovi, sporchi edifici nei quali serrare i ranghi: gli alberi vengono abbattuti, e le industrie inquinano terra e acqua. Il vecchio mulino, ad esempio, viene tirato giù per costruirne al suo posto “uno più grosso”, subito riempito “di ruote e aggeggi stranieri”. Sharkey è sempre al corrente di quanto pensano gli Hobbit, grazie alle sue spie sguinzagliate nei villaggi (molte delle quali sono, esse stesse, Hobbit: il socialismo mette gli uni contro gli altri). “Questo è peggio di Mordor! – dice Sam – Molto peggio, in un certo senso. Ti colpisce dritto al cuore, come si suol dire, perché questa era la casa del cuore, e ce la ricordiamo come era prima”. “Sì, questo è Mordor. – replica Frodo – Una delle sue opere. Saruman lavorava per Mordor, anche quando credeva di fare i propri comodi. E lo stesso è accaduto per coloro che furono ingannati da Saruman, come Lotho”. Così, essi organizzano una rivolta e riescono finalmente a scacciare Sharkey (che, in realtà, viene ucciso dal suo stesso servo, Vermilinguo). Dopo, c’è la restaurazione: “Prima di Capodanno non rimaneva in piedi più un solo mattone delle nuove case dei Guardacontea e delle altre costruzioni degli “Uomini di Sharkey”; ma i mattoni servirono a riparare molte antiche caverne, rendendole più asciutte e accoglienti”20. Il che ci sembra indicare come Tolkien avesse capito che il socialismo è non solo ingiusto, ma anche inefficiente: persino un mattone può essere usato in maniera più appropriata grazie ad un regime di istituzioni libere e decentrate.

Tom Shippey nota a proposito che “c’è qualcosa di suggestivo anche nella nota “voce“ di Saruman, che sembra sempre “saggia e ragionevole”, e risveglia negli altri il desiderio di “sembrare anche loro saggi, accondiscendendo rapidamente”. La rudezza di Gandalf rappresenta il rigetto dell’Utopia e l’insistenza sul fatto che nulla è gratis. Persino Lotho “Pustola”, parente di Frodo, ha un suo ruolo poiché egli è così manifestamente […] avaro e arrogante, ma sempre a posto con la legge, almeno fino a quando i suoi superiori non si sbarazzano di lui […]. Ciò nonostante Saruman ha un tratto distintivo, che è la sua associazione col socialismo”. In precedenza, Saruman aveva tentato di convincere Galdalf che azioni malvagie possono servire a raggiungere un fine virtuoso: “Si tratterebbe soltanto di aspettare, di custodire in cuore i nostri pensieri, deplorando forse il male commesso cammin facendo, ma plaudendo all’alta meta prefissa: Sapienza, Governo, Ordine; tutte cose che invano abbiamo finora tentato di raggiungere, ostacolati anziché aiutati dai nostri amici deboli o pigri. Non sarebbe necessario, anzi non vi sarebbe un vero cambiamento nelle nostre intenzioni; soltanto nei mezzi da adoperare”. Come sottolinea, ancora, Tom Shippey “ciò che Saruman dice incapsula molte delle cose che il mondo moderno ha imparato a temere di più: l’abbandono degli alleati, la subordinazione dei mezzi ai fini, la conscia accettazione della colpa in un omicidio “necessario”. Ma il modo in cui egli lo dice è significativo anch’esso. Nessun altro personaggio nella Terra di Mezzo possiede la malizia di Saruman nel bilanciare le frasi l’una con l’altra così che le incompatibilità sembrino risolversi, e nessun altro utilizza parole vuote come “deplorando”, “l’alta meta prefissa”. Saruman, quindi, non rappresenta soltanto il socialismo, ma anche quella vocazione tutta moderna al compromesso, la disponibilità a rinunciare ai princìpi per il potere – e si potrebbe sospettare che la sua funzione nell’economia del romanzo sia proprio di mostrare che quando si accetta di “dialogare” col male, si finisce per giocare sotto le sue regole. Così ogni successo diventerà temporaneo, e ogni vittoria sarà una vittoria di Pirro, poiché alla fine il male finirà per imporsi – a meno che chi è forte abbastanza (come Gandalf, e in parte Frodo, Sam e gli altri membri della Compagnia dell’Anello eccetto Boromir) si rifiuti di seguire il male sin dall’inizio. I mezzi sono il fine.

Tolkien coscienza civile del Novecento?

Possiamo concluderne che Tolkien fosse un romanziere anti-socialista? Certo che lo era e, assieme, era molto di più. Jessica Yates ha senz’altro ragione nel sottolineare come le critiche mosse da Tolkien al nazismo s’applichino anche al socialismo. La Yates per questo lo definisce un “anti-totalitario”24. Sta bene, ma bisogna capire cosa sia un “anti-totalitario”. Se l’opposizione al totalitarismo s’intende come, in positivo, un’acritica adesione agli “ideali” della democrazia, abbiamo dimostrato in altra occasione come Tolkien non cadesse in questa trappola punto. Egli sapeva che la democrazia è di per sé un mezzo attraverso il quale alcuni governano altri, e per questo è potenzialmente pericolosissima. Infatti, scriveva, “Io non sono “democratico” solamente perché l’ “umiltà” e l’eguaglianza sono princìpi spirituali corrotti dal tentativo di meccanizzarli e formalizzarli, con il risultato che non si ottengono piccolezza e umiltà universali, ma grandezza e orgoglio universali, finché qualche orco non riesce a impossessarsi di un anello di potere, per cui noi otteniamo e otterremo solo di finire in schiavitù”. L’opposizione di Tolkien al totalitarismo, insomma, non assunse mai i contorni (peraltro di per sé vaghi) dell’ideologia “democratica”. Piuttosto, gli va riconosciuta la sensibilità e l’intelligenza d’aver compreso come ogni forma di governo sia di per sé distruttiva – e, parafrasando Thomas Jefferson, il governo che governa di più è quello che governa peggio.

La coerenza di Tolkien è cristallina: esce preponderantemente dalle lettere, ma anche dalla sua stessa simbologia. L’Anello come Potere, che può e dev’essere distrutto ma non “riformato”: non se ne può fare un buon uso, perché l’Anello è il suo uso, il mezzo è il fine, il Potere agisce per il Potere stesso. Tolkien ha visto da vicino il Leviatano spiegare le ali. Lo conobbe da cattolico inglese, erede di una storia di incomprensioni quando non di soprusi. Lo conobbe da uomo, spedito al fronte e ridotto a carne da cannone, e poi da padre, in vigile apprensione per il destino analogo patito dai figli. Non si fatica a comprendere da dove gli veniva quella straordinaria capacità di cogliere la ragione crudele degli ingranaggi dello Stato. Quel che dovrebbe stupire, piuttosto, è ch’egli sia stato l’eccezione più che la regola. Una generazioni di intellettuali, che visse la stessa vita, scelse il silenzio se non la complicità, si rifugiò consapevolmente in illusioni sanguinose e ne cantò le lodi. E’ in questo inventore di miti che va cercata la vera “coscienza civile” del Novecento.

17 gennaio 2003

(da Ideazione, 1-2003, gennaio-febbraio)

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