Tolkien politico
di Carlo Stagnaro e Alberto Mingardi
Quella che Ludwig von Mises chiamava “mentalità anticapitalistica”
è particolarmente diffusa fra gli artisti e i romanzieri. La ben
oliata macchina della propaganda socialista è riuscita a
trasformare in legge i suoi tabù, facendosi astutamente scudo
della cultura popolare. E’ così facile capicollare su romanzi e
rappresentazioni e film socialisti (o, come s’usa dire,
eufemisticamente, d’impianto sociale). Essi, lo sottolineava già
l’economista viennese, “descrivono condizioni miserevoli che,
insinuano, dovrebbero essere l’inevitabile conseguenza del
capitalismo”. Ora, se è vero che un artista può mettere a frutto
le sue abilità occupandosi d’un soggetto qualsiasi, è altrettanto
vero che questo “pauperismo letterario” tende a espellere miti e
leggende e più in generale “grandi storie” (contrapposte alle
“piccole storie” della miseria quotidiana di questo immaginario
mondo “capitalista”) dal club esclusivo della letteratura. La
stessa idea di “bellezza”, per come è stata codificata nella lunga
storia dell’Occidente, viene profondamente messa in discussione.
Non v’è dubbio che John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) fosse
sicuramente uno scrittore controcorrente, rispetto a questa
tendenza. Era un cantastorie innamorato dei suoi racconti, un
creatore di miti e leggende. Uno studioso delle lingue del
passato, che senz’altro non si vergognava delle migliori eredità
della civiltà occidentale. Anche per questo, per tutta la sua vita
non mostrò alcuna simpatia per la pianificazione centralizzata
(concetto che pure, negli anni in cui visse, andò di moda –
sventolato dai comunisti o dai loro epigoni occidentali), ma anzi
la avversò vigorosamente. Forse questa è una delle ragioni per cui
si fatica a riconoscerlo come uno dei grandi scrittori del nostro
tempo. Nonostante il suo capolavoro – Il Signore degli Anelli –
abbia polverizzato ogni altro libro nelle classifiche di vendita
del Novecento.
Non a caso, il film di Peter Jackson, La Compagnia dell’Anello
(raro esempio di trasposizione sul grande schermo capace di
catturare e preservare lo spirito del romanzo) è stato un
clamoroso successo ai botteghini l’altr’anno. Così sarà, in questo
2003, per Le Due Torri. Sono buone notizie. Perché questo successo
tolkieniano può rivelarsi un veicolo propizio per portare alle
masse cinefile idee e sensibilità diverse da quelle diffuse
negl’anni in cui Hollywood s’è rivelata strumento saldamente in
mani “progressiste”. Tolkien ha dimostrato in più d’un’occasione
di avere idee ben chiare sia sulle origini del socialismo, sia su
quello che sarebbe stato il suo inevitabile risultato. E non solo
perché, da cattolico devoto, non poteva sopportare chi liquidava
la religione come oppio dei popoli. Le sue lettere (pubblicate a
cura del figlio Christopher) sono uno strumento essenziale per
farsi raccontare ciò che egli pensava del mondo attorno a sé – va
ricordato che la genesi de Il Signore degli Anelli, pubblicato per
la prima volta nel 1954-55, risale agli anni Trenta. Il futuro
guardava indietro: l’alternativa sembrava essere quella fra
nazismo e comunismo, cioè – come Tolkien realizzò subito – fra i
due gemelli, figli della Rivoluzione francese2.Va inoltre
sottolineato quanto Tolkien fosse rimasto impressionato
dall’esperienza dei due conflitti mondiali, durante i quali egli
provò sulla sua pelle l’infinita tristezza di quell’implacabile
processo distruttivo. E’ stato uno dei suoi più acuti lettori, Tom
Shippey, ad averlo definito uno “scrittore post-bellico”. Shippey
nota inoltre come Tolkien abbia imparato a sue spese la lezione
del ventesimo secolo, cioè che “la violenza genera violenza, che
(per tornare all’esperienza inglese) la vittoria nella prima
guerra mondiale generò solo il desiderio di vendetta che sfociò
nel secondo conflitto mondiale. L’intera esperienza bellica
inglese della prima guerra mondiale ha teso, inoltre, a mostrare
che non c’era una precisa linea di demarcazione tra torto e
ragione fra i due opposti schieramenti, a dispetto di quanto
poteva dire la propaganda ufficiale […]. In questo contesto, i
personaggi di Tolkien buoni, violenti, gentili e assetati di
sangue – aggettivi, questi, che si adattano particolarmente a re
Théoden – sembrano molto meno eccentrici, paradossali o irruenti
di quanto abbiano indicato molti recensori”4.
Ciò che va compreso è che Tolkien non intravide mai, nella sua
esperienza di vita, (e quindi non traspose nei suoi romanzi)
alcuna possibilità che fosse il Potere ad agire per il bene. Non
la trovò nel socialismo di sinistra (nella sua versione hardcore
edificata in Russia, o in quella softcore divenuta popolare nelle
democrazie a Ovest della cortina di ferro), né nel socialismo
“nazionale” tanto caro a certa destra (nella variante interpretata
fino in fondo da Hitler e preconizzata, per quanto in una versione
smussata agli angoli, da Mussolini). Lo scrittore inglese non
aveva alcuna fede in pressoché nessuna forma di organizzazione
irregimentata. Quando la gente prova a prevedere il futuro, tende
a dimenticare (o a far finta di non sapere) che la vita è assai
più complessa di qualsiasi “sistema” si possa progettare: il corso
del caso è per definizione impossibile da prevedere. Inoltre, gli
esseri umani agiscono seguendo la propria ragione e la propria
volontà, ma né l’una né l’altra s’incuneano in percorsi che siano
costantemente prevedibili ai pianificatori.
L’anima “malefica” della pianificazione
Per quanto attiene la vita in battaglia, Tolkien parla con voce
chiara al figlio Christopher: “Tuttavia è quasi inevitabile, dato
che gli esseri umani sono quello che sono, e l’unico rimedio
(oltre a una conversione universale) è che non ci siano più guerre
– né programmazione, né organizzazione, né irregimentazione […].
Ma tutte le grandi cose programmate dall’alto danno questa
impressione alla rotellina di un ingranaggio, benché in un quadro
più generale abbiano la loro funzione. Una funzione il cui fine
ultimo è malefico. Perché noi stiamo tentando di conquistare
Sauron utilizzando l’Anello. E ci riusciremo (sembra). Ma lo
scotto sarà, come tu ben sai, di nutrire nuovi Sauron e di
trasformare lentamente uomini ed elfi in orchi. Non che nella vita
reale le cose siano così definite come in una storia, e noi siamo
partiti con un gran numero di orchi al nostro fianco… Bé, eccoti
qua: un hobbit in mezzo agli Urukhai. Conserva nel cuore la tua
hobbitudine, e pensa che tutte le storie sono così quando ci sei
in mezzo5. Tu sei dentro una storia molto grande!”.
Da questo passaggio, possiamo dedurre che Tolkien fosse alquanto
pessimista nel suo atteggiamento verso la storia, fatta salva la
sua infinita fiducia nella Provvidenza. Egli era certo che ogni
forma di pianificazione, messa in atto da esseri umani ambiziosi e
presuntuosi, che s’immaginavano del tutto in sella alle proprie
fortune, fosse impossibile e destinata a fallire. Tuttavia, non
bisogna dimenticare che egli era sicuro che l’umanità agisse
secondo un piano più alto, che si rivelerà al termine della
storia, quando Dio ritornerà e dividerà i giusti dagl’ingiusti. Da
un certo punto di vista, Tolkien non era lontano da certe
sfumature millenariste: “io penso che ci sarà un “millennio”, i
mille anni profetizzati di governo dei Santi, cioè di quelli che
nonostante tutte le loro imperfezioni non hanno mai piegato il
loro cuore e la loro volontà al mondo o allo spirito del male (in
termini moderni ma non universali: alla tecnica, al materialismo
“scientifico”, al socialismo in uno qualunque dei suoi aspetti che
oggi sono in guerra)”. Non solo la pianificazione non può
funzionare: essa è una sorta di “rivolta contro la natura” (così
Murray N. Rothbard dirà dell’egualitarismo), nel senso che per
mezzo di essa gli uomini tentano di prendere il posto dello stesso
Dio. Quando essi si sentono in grado di controllare completamente
il proprio destino, diventano tanto presuntuosi da “uccidere Dio”.
Non è soltanto un’affascinante analisi, ma qualcosa di
empiricamente vero. Tipicamente, i regimi socialisti tentarono di
sbarazzarsi di ogni forma di religione fuorché l’adorazione del
“sistema” – come oggi le socialdemocrazie “laiche”. Quanto
successo abbiano avuto tali tentativi, è ancora cosa dubbia.
Un non-economista decisamente
anti-socialista
Il grande pensatore che più d’ogni altri ha combattuto, e vinto, i
dogmi socialisti, è l’economista austriaco Ludwig von Mises – uno
studioso, si può rilevare en passant, che rubò alle pagine di
Virgilio un motto che avrebbe calzato bene addosso a Tolkien: Tu
ne cede malis sed contra audentior ito. Mises (come Tolkien) vi
tenne sempre fede. In un suo classico saggio del 1920, rielaborato
in libro nel 1922 (Socialismo, appunto), Mises sostiene la tesi
che la socializzazione dei mezzi di produzione rende impossibile
il calcolo economico: la pianificazione centralizzata finisce per
disorientare e spezzare l’efficacia dei piani individuali. Non
solo l’eliminazione della proprietà privata distrugge quella
impalcatura di incentivi e gratificazioni su cui si regge il
progresso economico: ma, accentrando competenze, sposta le
decisioni su un singolo problema a livelli improbabili.
L’abolizione dei prezzi, veicolo di conoscenza in un’economia
libera, rende impossibile il calcolo economico. Messo ai margini
dall’accademia, le tesi di Mises hanno trovato soddisfazione col
crollo dell’Urss – quando ci è stato rivelato che alcuni
“pianificatori” non facevano che passare la giornata sfogliando
cataloghi per corrispondenza di provenienza occidentale, nel
tentativo di spiare i prezzi altrui e tentare così di assegnare un
“valore”, per quanto approssimativo, alle cose.
Sarebbe azzardato sostenere che Tolkien avesse una qualche
familiarità con le analisi di Mises, così come lo sarebbe
sostenere che il professore oxoniense avesse mai frequentato
letture d’economia. Ma sembra che egli abbia acquisito, in virtù
della propria esperienza di vita, una comprensione piuttosto
sofisticata di come il socialismo (non) possa funzionare. Parlando
del desiderio di sapere e della genuina curiosità
nell’organizzazione universitaria egli disse: “Non è solo una
questione della degenerazione della genuina curiosità ed
entusiasmo in una “economia di piano”, sotto la quale così tanto
tempo destinato alla ricerca viene raccolto entro maschere più o
meno standardizzate e impiegato per produrre zuppe di dimensioni e
forma regolate dal nostro stesso ricettario. Anche se questa fosse
una descrizione dettagliata del sistema, io esiterei ad accusare
chicchessia di pianificarlo con saggezza, o di approvarlo in toto
ora che lo abbiamo. È cresciuto, in parte per caso, in parte per
l’accumulazione di espedienti temporanei. Molti pensieri vi sono
stati dedicati, e molto lavoro appassionato e poco remunerato è
stato speso nella sua amministrazione e nel tentativo di mitigarne
i mali”.
La Contea come metafora politica
In un’altra occasione, Tolkien aggiunse: “Io non sono un
socialista – dato che sono contrario alla “pianificazione”,
soprattutto perché i “pianificatori”, quando ottengono il potere,
diventano malvagi – ma non direi che qui abbiamo sofferto a causa
della malizia di Sharkey e dei suoi ruffiani. Benché lo spirito di
Isengard, se non quello di Mordor, salti sempre fuori. L’attuale
progetto di distruggere Oxford per far posto alle macchine è un
esempio. Ma il nostro principale avversario è un membro del
governo conservatore. Ma questo accade dappertutto ai giorni
nostri”. Da tali parole è chiaro che Tolkien non avesse simpatia
alcuna verso il socialismo. Egli seppe vedere chiaramente come le
idee socialiste s’incuneavano e a destra e a sinistra, e in
entrambi i casi questo significava un rigetto del cristianesimo e
dei valori occidentali da parte delle forze politiche. Comprendeva
inoltre come il socialismo non fosse soltanto un male in sé, ma
anche in quanto presupponeva un’immensa classe di burocrati
(pianificatori), il cui lavoro è in ultima analisi foriero di
sempre più mali per la società intera: non è una mera questione
d’(in)efficienza, ma anche d’(im)moralità. In un sistema in cui
gli individui non sono chiamati a provvedere per se stessi, ma
piuttosto s’affidano al potere politico, gareggiando per
accaparrarsene le grazie, l’ossatura morale della società comincia
a sfarinarsi. A Tolkien non sfuggì, inoltre, come il socialismo
avesse conquistato l’opinione pubblica: sia gli intellettuali, sia
la gente comune l’avrebbero abbracciato come la via migliore per
produrre benessere (in parte a causa del fatto che l’alternativa,
totalmente screditata proprio da una propaganda truffaldina,
sembrava essere ormai stata consegnata al dimenticatoio della
storia). Ogni seria critica del socialismo si fonda sulla
comprensione dell’impossibilità della pianificazione: il
comportamento degli individui non può essere “previsto” in alcun
modo che possa essere davvero significativo. Sfuggono i dettagli.
Come scrisse Tolkien, “un uomo non è soltanto un seme che si
sviluppa secondo uno schema definito, bene o male in base alla sua
situazione o ai suoi difetti in quanto esemplare della sua specie;
un uomo è allo stesso tempo un seme e per certi versi anche un
giardiniere, nel bene o nel male. Io sono colpito da come lo
sviluppo del “carattere” possa essere il prodotto di un’intenzione
consapevole, della volontà di modificare tendenze innate nella
direzione desiderata […]. In ogni caso, io personalmente trovo la
maggior parte della gente imprevedibile in situazioni particolari
di emergenza”.
Parlando del “fallimento” di Frodo nel gettare l’Anello nel
cratere del Monte Fato, egli aggiunge: “Non approvo l’uso della
“politica” in un simile contesto; mi sembra falso. Per me è chiaro
che il dovere di Frodo era “umano” non politico. Lui naturalmente
ha pensato per prima cosa alla Contea, dato che le sue radici
erano là, ma la ricerca aveva come obiettivo non tanto il
mantenimento di questa o quella politica, come la mezza repubblica
mezza aristocrazia della Contea, bensì la liberazione di tutta
l’umanità [compresi Elfi, Hobbit e tutte le altre creature
“parlanti”] da una malefica tirannia […]. Denethor era contaminato
dalla politica: da qui il suo fallimento e la sua sfiducia in
Faramir. L’obiettivo principale per lui era quello di conservare
l’assetto politico di Gondor, così com’era, contro un’altra
potenza, che era diventata più forte e quindi incuteva timore e
doveva essere combattuta per quel motivo più che per il fatto che
era corrotta e malvagia. Denethor disprezzava gli uomini deboli e
si può star sicuri che non faceva distinzioni fra orchi e alleati
di Mordor. Se fosse sopravvissuto come vincitore, anche senza
usare l’Anello, si sarebbe avviato a grandi passi sulla strada
della tirannia, e il trattamento che avrebbe riservato alle
popolazioni sconfitte dell’Est e del Sud sarebbe stato crudele e
vendicativo. Era diventato un leader “politico”: Gondor contro
tutti gli altri”. Tolkien, inoltre, riconosce la bontà della
“causa di chi ora si oppone al Dio-Stato12 e al maresciallo Tizio
o Caio come alto sacerdote, anche se è vero (sfortunatamente) che
molte delle loro azioni sono sbagliate, anche se fosse vero (e non
è così) che gli abitanti dell’Ovest, tranne che una minoranza di
ricchi padroni, vivono nella paura e nella miseria, mentre gli
adoratori del Dio-Stato vivono in pace e in abbondanza e in piena
stima e fiducia reciproche”. Ma, e noi oggi lo sappiamo bene, gli
adoratori del Dio-Stato hanno costretto interi popoli a
sperimentare la più nera povertà che l’umanità abbia mai
conosciuto, dovuta interamente a ragioni politiche (l’intreccio
tra carestia e collettivizzazioni in Urss, in particolare, è stato
indagato a fondo da Robert Conquest).
Non solo, dunque, Tolkien era perfettamente a conoscenza dei
problemi connaturati al socialismo: egli desiderava esprimere la
propria posizione in termini così chiari, da dedicare al tema uno
dei più importanti (e meno studiati) capitoli del suo capolavoro:
l’ottavo capitolo del sesto libro, “Percorrendo la Contea”. Dopo
la guerra dell’Anello, gli Hobbit ritornano a casa, giusto per
imbattersi in una terribile sorpresa: il malvagio Saruman (il
filosofo che sogna di diventare re secondo Tolkien) ha preso il
potere e imposto un regime socialista. Per comprendere fino a che
punto egli abbia modificato la situazione economica e politica
della Contea, val la pena di ricordare come stessero le cose prima
del suo arrivo. La Contea era un fazzoletto di terra i cui
abitanti sapevano appena cosa significasse la parola
“coercizione”. Era una sorta di confederazione fra quattro entità
politiche (i “decumani”). Essa “non aveva in quel tempo un vero e
proprio “governo”. Ogni famiglia si occupava dei suoi affari. I
lavori agricoli necessari per produrre i generi alimentari ed i
continui pasti occupavano interamente le loro giornate. Negli
altri settori non erano, in linea di massima, avidi ed ingordi,
bensì generosi e moderati, tanto che le dimensioni dei fondi,
fattorie e botteghe rimanevano immutate per intere generazioni”.
Se una volta c’era stato un re, al tempo della guerra dell’Anello
la Contea non aveva sovrano. Gli Hobbit “attribuivano al re dei
tempi antichi tutte le leggi fondamentali, e generalmente le
osservavano di loro spontanea iniziativa, considerandole regole
antiche e giuste”.
Di ritorno dal viaggio che ha portato alla distruzione
dell’Anello, i quattro Hobbit (Frodo, Sam, Merry e Pipino)
scoprono terribili mutamenti nella vita della Contea. Saruman
(noto agli Hobbit di laggiù come “Sharkey”) ha fatto in modo di
creare un potere centralizzato e un’economia pianificata. Egli
inoltre ha messo sul “trono” Lotho, che si rivela al tempo vittima
e predatore. In realtà, a un certo punto egli viene segretamente
ucciso e, se dobbiamo dar retta alla voce melliflua di Saruman,
addirittura mangiato dai suoi scagnozzi. È interessante apprendere
come Sharkey sia riuscito a cambiare persino il paesaggio della
Contea. Nonostante l’anno sia stato clemente, gli Hobbit
sperimentano drammatiche carestie: “Noi coltiviamo un sacco di
roba, ma non sappiamo esattamente dove vada a finire. Sono tutti
questi “raccoglitori” e “spartitori”, suppongo, che girano
misurando e contando e portando tutto ai magazzini. Più che
spartire raccolgono, e non vediamo mai più la maggior parte della
roba”. Inoltre, “le uniche cose che crescevano erano le Regole, e
gli Uomini andavano in giro raccogliendo tutto “per un’equa
distribuzione”: il che significava che loro prendevano tutto e noi
niente”. Una moltitudine di nuovi “pubblici ufficiali” viene
reclutata dal governo, poiché ovviamente tante regole hanno
bisogno di altrettanti “tutori dell’ordine” che le facciano
rispettare. La pianificazione centralizzata riesce a rovinare del
tutto il paesaggio della Contea. La burocrazia abbisogna di nuovi,
sporchi edifici nei quali serrare i ranghi: gli alberi vengono
abbattuti, e le industrie inquinano terra e acqua. Il vecchio
mulino, ad esempio, viene tirato giù per costruirne al suo posto
“uno più grosso”, subito riempito “di ruote e aggeggi stranieri”.
Sharkey è sempre al corrente di quanto pensano gli Hobbit, grazie
alle sue spie sguinzagliate nei villaggi (molte delle quali sono,
esse stesse, Hobbit: il socialismo mette gli uni contro gli
altri). “Questo è peggio di Mordor! – dice Sam – Molto peggio, in
un certo senso. Ti colpisce dritto al cuore, come si suol dire,
perché questa era la casa del cuore, e ce la ricordiamo come era
prima”. “Sì, questo è Mordor. – replica Frodo – Una delle sue
opere. Saruman lavorava per Mordor, anche quando credeva di fare i
propri comodi. E lo stesso è accaduto per coloro che furono
ingannati da Saruman, come Lotho”. Così, essi organizzano una
rivolta e riescono finalmente a scacciare Sharkey (che, in realtà,
viene ucciso dal suo stesso servo, Vermilinguo). Dopo, c’è la
restaurazione: “Prima di Capodanno non rimaneva in piedi più un
solo mattone delle nuove case dei Guardacontea e delle altre
costruzioni degli “Uomini di Sharkey”; ma i mattoni servirono a
riparare molte antiche caverne, rendendole più asciutte e
accoglienti”20. Il che ci sembra indicare come Tolkien avesse
capito che il socialismo è non solo ingiusto, ma anche
inefficiente: persino un mattone può essere usato in maniera più
appropriata grazie ad un regime di istituzioni libere e
decentrate.
Tom Shippey nota a proposito che “c’è qualcosa di suggestivo anche
nella nota “voce“ di Saruman, che sembra sempre “saggia e
ragionevole”, e risveglia negli altri il desiderio di “sembrare
anche loro saggi, accondiscendendo rapidamente”. La rudezza di
Gandalf rappresenta il rigetto dell’Utopia e l’insistenza sul
fatto che nulla è gratis. Persino Lotho “Pustola”, parente di
Frodo, ha un suo ruolo poiché egli è così manifestamente […] avaro
e arrogante, ma sempre a posto con la legge, almeno fino a quando
i suoi superiori non si sbarazzano di lui […]. Ciò nonostante
Saruman ha un tratto distintivo, che è la sua associazione col
socialismo”. In precedenza, Saruman aveva tentato di convincere
Galdalf che azioni malvagie possono servire a raggiungere un fine
virtuoso: “Si tratterebbe soltanto di aspettare, di custodire in
cuore i nostri pensieri, deplorando forse il male commesso cammin
facendo, ma plaudendo all’alta meta prefissa: Sapienza, Governo,
Ordine; tutte cose che invano abbiamo finora tentato di
raggiungere, ostacolati anziché aiutati dai nostri amici deboli o
pigri. Non sarebbe necessario, anzi non vi sarebbe un vero
cambiamento nelle nostre intenzioni; soltanto nei mezzi da
adoperare”. Come sottolinea, ancora, Tom Shippey “ciò che Saruman
dice incapsula molte delle cose che il mondo moderno ha imparato a
temere di più: l’abbandono degli alleati, la subordinazione dei
mezzi ai fini, la conscia accettazione della colpa in un omicidio
“necessario”. Ma il modo in cui egli lo dice è significativo
anch’esso. Nessun altro personaggio nella Terra di Mezzo possiede
la malizia di Saruman nel bilanciare le frasi l’una con l’altra
così che le incompatibilità sembrino risolversi, e nessun altro
utilizza parole vuote come “deplorando”, “l’alta meta prefissa”.
Saruman, quindi, non rappresenta soltanto il socialismo, ma anche
quella vocazione tutta moderna al compromesso, la disponibilità a
rinunciare ai princìpi per il potere – e si potrebbe sospettare
che la sua funzione nell’economia del romanzo sia proprio di
mostrare che quando si accetta di “dialogare” col male, si finisce
per giocare sotto le sue regole. Così ogni successo diventerà
temporaneo, e ogni vittoria sarà una vittoria di Pirro, poiché
alla fine il male finirà per imporsi – a meno che chi è forte
abbastanza (come Gandalf, e in parte Frodo, Sam e gli altri membri
della Compagnia dell’Anello eccetto Boromir) si rifiuti di seguire
il male sin dall’inizio. I mezzi sono il fine.
Tolkien coscienza civile del Novecento?
Possiamo concluderne che Tolkien fosse un romanziere
anti-socialista? Certo che lo era e, assieme, era molto di più.
Jessica Yates ha senz’altro ragione nel sottolineare come le
critiche mosse da Tolkien al nazismo s’applichino anche al
socialismo. La Yates per questo lo definisce un
“anti-totalitario”24. Sta bene, ma bisogna capire cosa sia un
“anti-totalitario”. Se l’opposizione al totalitarismo s’intende
come, in positivo, un’acritica adesione agli “ideali” della
democrazia, abbiamo dimostrato in altra occasione come Tolkien non
cadesse in questa trappola punto. Egli sapeva che la democrazia è
di per sé un mezzo attraverso il quale alcuni governano altri, e
per questo è potenzialmente pericolosissima. Infatti, scriveva,
“Io non sono “democratico” solamente perché l’ “umiltà” e
l’eguaglianza sono princìpi spirituali corrotti dal tentativo di
meccanizzarli e formalizzarli, con il risultato che non si
ottengono piccolezza e umiltà universali, ma grandezza e orgoglio
universali, finché qualche orco non riesce a impossessarsi di un
anello di potere, per cui noi otteniamo e otterremo solo di finire
in schiavitù”. L’opposizione di Tolkien al totalitarismo, insomma,
non assunse mai i contorni (peraltro di per sé vaghi)
dell’ideologia “democratica”. Piuttosto, gli va riconosciuta la
sensibilità e l’intelligenza d’aver compreso come ogni forma di
governo sia di per sé distruttiva – e, parafrasando Thomas
Jefferson, il governo che governa di più è quello che governa
peggio.
La coerenza di Tolkien è cristallina: esce preponderantemente
dalle lettere, ma anche dalla sua stessa simbologia. L’Anello come
Potere, che può e dev’essere distrutto ma non “riformato”: non se
ne può fare un buon uso, perché l’Anello è il suo uso, il mezzo è
il fine, il Potere agisce per il Potere stesso. Tolkien ha visto
da vicino il Leviatano spiegare le ali. Lo conobbe da cattolico
inglese, erede di una storia di incomprensioni quando non di
soprusi. Lo conobbe da uomo, spedito al fronte e ridotto a carne
da cannone, e poi da padre, in vigile apprensione per il destino
analogo patito dai figli. Non si fatica a comprendere da dove gli
veniva quella straordinaria capacità di cogliere la ragione
crudele degli ingranaggi dello Stato. Quel che dovrebbe stupire,
piuttosto, è ch’egli sia stato l’eccezione più che la regola. Una
generazioni di intellettuali, che visse la stessa vita, scelse il
silenzio se non la complicità, si rifugiò consapevolmente in
illusioni sanguinose e ne cantò le lodi. E’ in questo inventore di
miti che va cercata la vera “coscienza civile” del Novecento.
17 gennaio 2003
(da
Ideazione, 1-2003, gennaio-febbraio) |