L’illusione tecnocratico-populista
di Alessandro Campi
Quello che segue è un estratto
dell’introduzione al libro di Alessandro Campi, “Il ritorno
(necessario) della politica”, recensito nell’articolo precedente
da Diego Gabutti. Il libro raccoglie una serie di interventi,
alcuni dei quali comparsi in questi anni sulla rivista Ideazione.
Si ha in testa una sola idea. Ovvero, se ne hanno molte, spesso
confuse e contraddittorie, ma solo una è quella che conta,
quell’unica idea che davvero imprime una direzione ed un senso
alle proprie riflessioni e che, in ogni caso, per buona o cattiva
che sia, offre a chi l’abbia e la coltivi l’illusione di una certa
coerenza intellettuale, di una certa linearità nei ragionamenti e
nei giudizi. Il mio chiodo fisso, nel corso degli ultimi anni, è
stato quello ben sintetizzato – credo – dal titolo scelto per
questa raccolta di articoli: Il ritorno (necessario) della
politica. Come spesso capita, non si tratta di un’idea originale o
di una formulazione particolarmente innovativa. Essa ha però un
significato preciso, e presenta dunque un qualche interesse,
soprattutto se inserita nel contesto politico-culturale italiano
dell’ultimo decennio, caratterizzato, a mio giudizio
negativamente, da un processo che ha visto crescere e diffondersi
nel discorso pubblico del Paese, nel giudizio del ceto
intellettuale e finanche nel senso comune, una visione della
politica - e per conseguenza della classe politica e degli attori
politici tradizionali, a partire dai partiti - fortemente critica
e polemica, oscillante tra gli estremi di un qualunquismo spesso
aggressivo ed intellettualmente deprimente e di un più sofisticato
disdegno tipicamente tecnocratico.
Questa visione – chiunque la articoli: un populista greve in lotta
contro i soprusi operati dai “politici di professione” a danno
della gente comune, un inappuntabile manager irritato dalle
inconcludenze degli uomini di governo, un consumato professionista
dell’informazione rotto dal disincanto per come vanno le cose nel
mondo politico - si riassume nell’idea che la politica sia, nella
migliore delle ipotesi, un “male necessario” ovvero un peso che le
società contemporanee, innervate dalla tecnica, governate dalla
logica dell’efficienza e dell’utile, nelle quali il benessere
individuale (concreto ed effettuale) conta più di quello
collettivo (astratto e fumoso), nelle quali i cittadini sanno
ormai cosa è meglio per loro senza più bisogno di tutele
paternalistiche, sono ormai costrette a sopportare, con tutta la
sua ritualità inutile e costosa e con il suo linguaggio da addetti
ai lavori. La politica, secondo quest’immagine, è dunque
un’attività se non inutile e pericolosa, certamente sussidiaria e
subordinata, in ogni caso qualcosa con cui non vale “sporcarsi le
mani” a meno, ovviamente, che non si abbia un qualche personale e
diretto tornaconto che induca a praticarla frequentarla e ad
interessarsene. Sull’universo della politica, sui politici, pesa
di conseguenza la stessa riprovazione che socialmente viene oggi
riservata ai tabagisti: la gente seria, va da sé, non fuma e non
si occupa di politica.
La storia italiana a partire dalla fine degli anni Ottanta, con un
crescendo drammatico determinato dalle vicende giudiziarie che
hanno portato alla liquidazione per via giudiziaria della
cosiddetta Prima Repubblica, è stata caratterizzata proprio da un
tale rigetto della politica, accusata d’iniquità, di corruzione,
di inefficienza, di superficialità, d’immoralità, di
pressappochismo. Alla politica, in crisi e degenerata, incapace di
conseguire i suoi obiettivi, bugiarda e sclerotica, si è quindi
opposta la formula dell’antipolitica: il governo della cosa
pubblica affidato non più a professionisti inclini al compromesso
e preoccupati unicamente di difendere gli interessi della propria
parte, ma agli uomini della società civile, alla forze sane
provenienti dal mondo dell’impresa privata, delle professioni
liberali, dell’accademia. Per oltre un decennio, l’invettiva
contro i “politicanti”, contro una politica ormai priva di ideali
e di scrupoli, ridotta a puro mercimonio, dissipatrice della
ricchezza pubblica, è stata una specie di sport nazionale,
praticato in alcuni momenti senza scrupoli e con una qualche vena
autodistruttiva, gioco nel quale si sono distinti non solo
opinionisti di grido, uomini delle istituzioni, magistrati
elettisi a custodi della moralità pubblica, industriali e
finanzieri dalla coscienza non sempre cristallina, politologi e
costituzionalisti, capipopolo improvvisati, ma anche non pochi
politici di lungo corso, la qual cosa ha impresso a quest’ennesima
variante del “caso italiano” rappresentata da “Mani pulite” un
tocco, al tempo stesso, surreale e tragico.
Cosa abbia prodotto questo modo di intendere la politica è oggi
sotto gli occhi di tutti. Per cominciare, un assurdo logico: nel
nome dell’antipolitica, infatti, si è continuato comunque a fare
politica nel più tradizionale dei modi. Nella sostanza, seppure
cambiati i protagonisti sulla scena, il bilanciamento degli
interessi, le divisioni di campo indotte dalla diversità dei
valori e delle credenze, i giochi di alleanze, le camarille e le
mediazioni, le lotte di potere ed i contrasti tra fazioni, hanno
continuato a tenere banco, anche se all’interno di una cornice
dominata da un insopportabile moralismo di facciata, da una
retorica denuncia dei mali della politica e, quel che è peggio, da
uno spirito di improvvisazione e da un dilettantismo rivelatisi
alla lunga più pericolosi dei tanti vizi imputati alla politica
vecchio stile. L’ulteriore conseguenza è stata quella di non aver
compreso come la posta in gioco di questa battaglia contro la
politica e le sue regole giudicate ormai obsolete sia stata
rappresentata dal più politico degli obiettivi: il potere ovvero,
meno enfaticamente, il governo della macchina pubblica ovvero, più
prosaicamente, l’accesso alle risorse pubbliche che deriva dalla
conquista legale delle leve del comando politico. Si è finito per
scambiare uno scontro tra forze - quindi tra gruppi sociali ognuno
portatore di specifici interessi e valori - per una contesa
morale. Combattuto al di fuori del suo terreno naturale, quello
propriamente politico-istituzionale, questo scontro ha dunque
assunto i caratteri propri di un’ordalìa, di un giudizio
inappellabile sul bene e sul male. La lotta politica si è
trasformata in lotta per l’affermazione di valori ultimi, di
visioni dell’agire sociale giudicate fondamentalmente
inconciliabili. Con l’idea di affermare, secondo le diverse
prospettive, una “nuova politica”, una “politica buona”, una
“politica bella”, una “politica dei valori”, una “politica
giusta”, una “politica pulita”, nella cultura politica italiana si
è dunque andata radicando una concezione della politica
depotenziata ed irrealistica, riduttiva e minimalista. La politica
è stata così privata delle sue attribuzioni fondamentali e
lasciata pericolosamente in bilico tra tecnica economia e morale,
presa all’interno di una micidiale morsa: da un lato,
l’efficientismo tecnico-manageriale di coloro che, con l’idea di
superarne le lentezze e le incongruenze, hanno finito per
considerarla un’appendice della cultura d’impresa o, più
semplicemente, una semplice forma d’agire amministrativo, come
tale alla portata di qualunque mediocre burocrate; dall’altro, lo
spirito di crociata ed il “virtuismo” di coloro che, pensando di
difenderla dal degrado morale cui essa è destinata per colpa di
politicanti corrotti e senza scrupoli, hanno finito per annegarla
nel pietismo, nella retorica umanitaria e nel linguaggio, per
definizione fumoso ed incontestabile, dei “grandi principi” e dei
“valori ultimi”.
Ma il risultato peggiore di questa crociata all’insegna
dell’antipolitica (che ha avuto fautori e sostenitori a destra e a
sinistra) è stato quello di aver diffuso il convincimento errato
secondo cui, oltre una certa soglia di sviluppo storico sociale ed
economico, la politica possa davvero considerarsi un’eccentrica
perdita di tempo, un’attività residuale, che se mai è stata in
grado di garantire la libertà, di perseguire un qualche ideale di
eguaglianza, di assicurare lo sviluppo economico ed una pacifica
coesistenza (per il passato lo si può anche concedere), ha
tuttavia smesso ai giorni nostri di esercitare tali funzioni,
travolta dalle trasformazioni di un mondo che si è lasciato alle
spalle le complicazioni ideologiche connaturate alla politica,
fattosi troppo grande e complesso, e che quindi richiede, per
essere governato, regole e criteri diversi da quelli tradizionali
del vecchio gioco politico.
17 gennaio 2003 |