Un filosofo italiano
di Vittorio Mathieu
Castore e Polluce, Goethe e Schiller, Croce e Gentile, Armodio e
Aristogitone: i gemelli ideali - "dioscuri" o figli di Zeus -
hanno sempre esercitato un fascino sull'immaginario collettivo,
che ama gli eroi appaiati. Coppi e Bartali. Per la storia del
pensiero, però, i gemellaggi servono poco. Goethe e Schiller, ad
esempio, s'incontrarono tardi, collaborarono poco (a una rivista),
si capirono stentatamente. Croce e Gentile s'incontrarono presto,
collaborarono molto (a una rivista) e si persuasero altrettanto
presto di essere incompatibili. Molto prima che la gente se ne
accorgesse. Gentile prese ad affascinare i filosofi, a cui era in
grado di assicurare una cattedra universitaria (dopo aver fallito
lui stesso un concorso, con sincera indignazione del Croce).
Oppure li affascinava al rovescio, provocandone reazioni spinte,
come quella di Adriano Tilgher (Lo spaccio del bestione
trionfante, 1925). Benedetto Croce, al contrario, affascinò i
letterati, soprattutto quando il regime giudicò opportuno
conservarlo su un piedistallo, per mostrare la propria apertura
mentale.
Ciò non vuol dire che anche Croce non abbia avuto un pensiero
filosofico: spesso ridotto in formule semplicistiche, che lui
stesso amava presentare come "strumenti artigianali" per
esercitare la sola cosa che importava, la critica; ma che poi
copriva di tale autostima da riferirvi il detto di Ettore su
Astianatte: "Non fu sì forte il padre". Il padre, in questo caso,
sarebbe niente meno che Hegel. E poiché secondo Hegel la filosofia
non poteva più andar oltre, perché ciò che aveva scritto
apparentemente lui, in realtà rendeva l'autocoscienza
dell'Assoluto, Croce contestò su questo punto il padre, sostenendo
che l'Assoluto hegeliano è un residuo teologico.
Anche l'Atto puro gentiliano, per lui, era un residuo teologico,
perché la storia reale (di cui la filosofia come storiografia è
teorizzazione, non identità come per Gentile) è "atto impurissimo"
(che passa, cioè, attraverso momenti diversi). Anche la pretesa
"riforma" della dialettica hegeliana da parte di Gentile ne era in
realtà la negazione: proclamava un idealismo senza le idee, dal
momento che le idee sarebbero un pensiero già pensato e quindi
astratto. L'Atto puro è pensiero nell'atto di pensare. Nulla di
simile per Croce, secondo il quale il concreto è il pensato nella
sua individualità, a volta a volta diverso. Di fronte a tali
differenze il contrasto politico (culminato in due opposti
manifesti), scoppiato dopo che Gentile - succeduto al Croce al
ministero dell'Istruzione per compiere la riforma che Croce stesso
aveva progettata - vide nel fascismo il compimento del pensiero
risorgimentale, è del tutto secondario. Del resto (come si divertì
a documentare il giovane Denis Mack Smith), all'inizio il voto
"patriottico" di Croce in Senato fu favorevole al governo
fascista, giudicato dal Croce una parentesi sulla strada della
libertà.
Dappertutto e in nessun luogo
Se Hegel fu essenziale a Gentile per rovesciarlo, per Croce fu, al
contrario, abbastanza accidentale incontrarlo attraverso le
elezioni di Antonio Labriola, durante il soggiorno romano in casa
di Silvio Spaventa. La formazione giovanile di don Benedetto -
rimasto orfano e ricchissimo in verde età, a causa del terremoto
di Casamicciola - era quella di un potenziale erudito e di un uomo
di gusto. La sua lingua ne risulta tra le più perfette del
Novecento italiano; e il premio Nobel per la letteratura (per il
quale fu in predicato) avrebbe coronato non meno giustamente lui
del grande filosofo Henry Bergson (secondo un sondaggio, popolare
in Francia subito dopo Maurice Chevalier e prima del pugile
Carpentier). Come scrittore Gentile è lungi dall'eguagliarlo: ha
pathos intellettuale, ma non la perfezione formale di Croce.
Quanto all'altro filosofo a cui Croce paragonava volentieri se
stesso, il Vico, usava un italiano vernacolare, geniale nei suoi
etimologismi, ma talmente arduo che è un miracolo se oggi qualche
straniero riesce a capirlo. Di Vico Croce è la negazione anche
concettualmente, perché la poesia non è per lui "sapienza
poetica": il concetto sorge solo a un livello superiore a quello
dell'immagine. Detto ciò, dove collocare il pensiero di Benedetto
Croce? il pensiero in senso forte, come riflessione specificamente
filosofica? Lui stesso non avrebbe avuto difficoltà a rispondere:
"Dappertutto e in nessun luogo"; purché gli fosse concesso che
esser filosofo significa riflettere concettualmente su qualsiasi
altra forma dell'attività umana.
Io penso, però, che una collocazione nel pensiero specificamente
filosofico Croce l'abbia. Quando la espressi, nel completare per
il Novecento italiano la Storia della filosofia del Lamanna,
l'opinione poteva apparire paradossale, ma ormai penso che non lo
sia più. Croce appartiene effettivamente alla tradizione
filosofica italiana: ma alla tradizione rinascimentale, non
risorgimentale, a cui si aggancia per contro il Gentile. Bertrando
Spaventa aveva fantasticato una nascita della filosofia moderna in
Italia, di dove sarebbe stata cacciata più a Nord dalla
controriforma. Questa trovata per agganciare la nuova Italia
all'Europa non regge; ma che il pensiero del rinascimento italiano
abbia effettivamente una risonanza mondiale è un fatto. Il suo
esponente - sia pure popolare più grazie al martirio che a letture
dirette - è Giordano Bruno. E l'essenza del pensiero italiano
rinascimentale è l'identificazione di Dio con la natura. Con una
lettura, però, ancora lontana da quella di Spinoza (che sarà la
lettura che influirà sull'idealismo tedesco).
Tutti i fatti sono fatti storici
Il naturalismo italiano del rinascimento è una visione grandiosa,
che non nega punto il divino, anzi, se ne inebbria. Nega la
trascendenza del divino. Nega che a Dio si arrivi con metafore
pseudo-aristoteliche e con le tematiche del pensiero teologico. A
Dio né si arriva né ci si avvicina: in esso si è. Di discutere
tale veduta qui non è il caso, bensì di vedere come essa si
romanticizzi, identificando il finito con l'infinito. Per ottenere
ciò, sembrerebbe che si debba rinunciare alla storia perchè
infinito e storia sono incompatibili: la storia non è mai tutta,
dunque non è l'infinito.
Ma romanticamente si aggira la difficoltà dicendo che l'infinito è
la storia presa tutta insieme. Questo è l'unico aspetto del
pensiero di Hegel ("la verità è l'intero") che il Croce abbia
effettivamente assimilato. Ed è essenziale per spiegare il
romanticismo crociano, tipicamente neoclassico, come quello di
Hegel. In particolare, l'identificazione tra filosofia e
storiografia.Che cosa ha a che fare ciò col positivismo, contro
cui Croce e Gentile combatterono insieme? Il positivismo italiano
non è punto lontano da questo ideale. Anzi, ne è un'affiliazione
esso stesso, anche se mette se stesso in correlazione con la
scienza, per la quale al contrario l'idealismo ha un complesso di
superiorità.
Fu acuto Abbagnano nel dire che il positivismo è il romanticismo
della scienza. Il positivismo italiano, poi, è opera soprattutto
di preti spretati, mentre Croce aveva avuto, bensì, un'educazione
religiosa, ma non proprio di seminario. Di seminario, ma
protestante, erano usciti gli idealisti tedeschi. Perfetto,
quindi, Roberto Ardigò quando riassume il proprio pensiero in una
frase, che corrisponde esattamente alla frase con cui riassume il
proprio pensiero il Croce. "Tutti i fatti sono divini", dice
Ardigò. E Croce: "Tutti i fatti sono fatti storici". (Anche i più
insignificanti: è noto il sonetto di Trilussa in cui i bevitori
all'osteria prendono crocianamente coscienza che anche loro, in
quel momento, si trovano nella storia). Ora, dire che i fatti sono
storici o dire che sono divini è lo stesso, dal momento che non
c'è altro Dio che la storia. Dunque, il positivismo italiano e
l'idealismo crociano, a cavallo del Novecento, sono due facce
della stessa dottrina, le cui radici non si trovano né in Vico né
in Hegel, né in Spencer né in Comte, bensì nel rinascimento.
Sembra, questa, una diversa rivendicazione della tesi di Bertrando
Spaventa. E lo sarebbe, se soltanto per dioscuri potessimo
prendere Croce e Ardigò, anziché Croce e Gentile; e se - come il
Croce pensava - il culmine della filosofia europea fosse
consistito appunto nella sua filosofia.
Per il classicismo contro il sentimentalismo
Croce stesso si avvicina a riconoscere la propria origine quando,
in luogo dei quattro distinti in cui circola lo Spirito, colloca
da ultimo come categoria suprema la vitalità. Pù cautamente, del
resto, aveva espresso lo stesso concetto quando, nell'estetica del
secondo periodo, aveva chiarito che l'intuizione poetica (che
nella prima estetica si presentava come identica a ciò che i
kantiani chiamano "rappresentazione") non era pura immagine, bensì
intuizione lirica, trasfigurazione del sentimento. Con ciò si
dimostrava perfettamente in linea con quel romanticismo
neoclassico che, dagli inizi dell'Ottocento, aveva caratterizzato
buona parte della cultura, della poesia e della musica dei Paesi
latini. In linea altresì con i suoi stessi giudizi di critico (se
si prescinde da quelli che gli erano preclusi dal pregiudizio
antiteologico, come nel caso del Manzoni). Croce disapprovava,
infatti, ogni comunicazione troppo immediata del sentimento o,
peggio, della sensazione. La disapprovava, in particolare, in
D'Annunzio. Ma apprezzava che la forma fosse animata dalla
passione, purché purificata (direbbe il detestato Freud:
sublimata).
Lui stesso si trovava a dover provvedere a tale purificazione,
nella sua qualità di abruzzese: sia pure abruzzese del monte,
mentre D'Annunzio era un abruzzese del mare. A questo riguardo non
posso non ricordare un aneddoto, che non deve andar perduto. Mi
viene dall'italianista Citanna, che nella facoltà di Trieste mi
aveva accolto come incaricato, a preferenza di un altro
concorrente, più vicino a lui, quando aveva scoperto che il
concorrente aveva cercato di coprir di ridicolo Benedetto Croce.
Citanna era un appassionato di Croce, che lo ammetteva nel suo
studio napoletano. Una mattina si presentò con altri studiosi a
Palazzo Filomarino, e il maggiordomo, che li accolse ossequioso,
li introdusse in salotto dicendo: "Abbiano lor signori la cortesia
di aspettare un po', perché il Senatore è a letto con una donna".
Questo aneddoto, osservava Citanna, gettava sul Croce una luce di
umanità. Per noi è il ricordo di un'età lontanissima, in cui tutti
i senatori erano senatori a vita, e qualcuno disponeva anche di un
maggiordomo, che accoglieva rispettosamente i visitatori in un
palazzo, divenuto tutto una biblioteca.
6 dicembre 2002
(da Ideazione 5-2002, settembre-ottobre)
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