Il Croce rimasto nell'ombra
di Daniela Coli
In un romanzo di Milan Kundera, Ernest Hemingway dopo la morte si
lamenta con Goethe dei critici. "Questa è l'immortalità. Un eterno
processo" risponde Goethe. "Speravo almeno dopo la morte, di poter
vivere in pace" protesta Hemingway. "Lei ha fatto di tutto per
essere immortale", "Sciocchezze. Ho scritto libri. Tutto qui".
"Appunto!", rise Goethe. Chissà quale sarà l'immaginario colloquio
tra Croce e Goethe, visto le dispute sulla sua identità. Infatti,
se di Gentile ve ne sono due, il filosofo generoso e tollerante
con gli antifascisti e il fascista "giustiziato come traditore
della patria", di Croce ancora a cinquant'anni dalla morte ve ne
sono tre. Il primo è il revisore del marxismo, amico di Sorel, il
direttore della Critica amico di Gentile, alleato con i ragazzi
della Voce e del Leonardo, realista politico, critico della
Rivoluzione francese e sostenitore di Mussolini fino al '25. Il
secondo è quello antifascista, "etico-politico", autore della
Storia d'Italia e d'Europa del secolo decimonono. Il terzo, quello
del discorso contro la ratifica del trattato di pace, nel '47, del
Perché non possiamo non dirci cristiani del '42, de "La fine della
civiltà" del '46. Nonostante la fine del comunismo,
l'intellighenzia ha continuato a considerare reazionario il primo
Croce e tabù il terzo, mentre il secondo è considerato più
accettabile anche se, diversamente da quando c'era il muro di
Berlino, i conflitti con Togliatti vengono ora messi in secondo
piano o taciuti. Dopo l'89, la sinistra è divenuta più conciliante
con Croce, anche se, come per i gramsciani degli anni Sessanta e
Settanta, il preferito rimane il Croce adolescente, amico di
Antonio Labriola, il maturo professore romano appassionato di
Marx. Il Croce che visse l'espace d'un matin. Orfano, giunto a
Roma, in casa degli zii Spaventa, austeri liberali del
Risorgimento, incontrò il Labriola, il quale gli passò scritti
rarissimi di Marx, le lettere di Engels, fino al telegramma "General
is died" con cui fu annunciata la morte dell'amico di Marx. Il
giovanissimo Croce pensò per qualche mese ad una palingenesi
dell'umanità ad opera del socialismo, poi ci ripensò, tornò a
Napoli, mise su casa, girò per l'Europa, e si dedicò a studi di
storia locale.
Nel 1896, già noto per la sua polemica sulla storia col
positivista Pasquale Villari, iniziò con la memoria "Sulla
concezione materialistica della storia", la revisione del
marxismo, di cui fu uno dei protagonisti europei insieme a
Bernstein, Sorel e Masarik. Croce fu, insomma, il primo
revisionista italiano. Con questo termine, applicato negli ultimi
anni agli storici che non accettano l'interpretazione
storiografica antifascista e comunista della storia europea del XX
secolo, la sinistra definiva negativamente già alla fine
dell'Ottocento i critici di Marx. Prima dell'89, erano pochi i
libri su Croce nei quali non gli si rinfacciasse di aver ridotto
il marxismo a canone storiografico, e ancora oggi - come i
gramsciani d'antan - i post-comunisti continuano a scrivere libri,
articoli sul giovane Croce amico di Labriola, che aveva inviato le
famose mille lire all'Avanti!. Per cinquant'anni, inoltre,
generazioni di studenti e ricercatori hanno dovuto fare i conti
per ogni autore con le categorie del "giovane" e del "vecchio",
per ogni filosofo, secondo una moda iniziata da Lukács. Mentre si
rimproverava a Croce di aver diviso il "vivo" dal "morto" di Hegel,
uccidendone la dialettica, la divisione tra "giovane" e "vecchio"
di ogni autore e la loro contrapposizione era un topos
storiografico diffuso nella sinistra per revisionare il pensiero
di qualsiasi filosofo e utilizzarne la parte utile a sostenere e
rivitalizzare il marxismo. Ancora oggi la sinistra loda il Croce
amico di Labriola e condanna il Croce revisionista di Marx e
ammiratore della Real-Politik, che dopo la Seconda guerra mondiale
divenne sinonimo di nazismo. Tutta la filosofia tedesca da
Schelling a Dilthey ed anche la filosofia di Croce, fu considerata
un irrazionalismo precursore del nazismo dalla "Distruzione della
ragione" di Lukács, accolto con grandi onori a Milano nel
dopoguerra da Antonio Banfi, professore della Statale e senatore
comunista.
Di Croce, come di Gentile, l'intellighenzia non poteva però fare a
meno, perché sarebbe rimasta senza il fondatore e teorico Antonio
Gramsci, la cui opera è in gran parte una riflessione su Croce e
Gentile. La strategia di Togliatti per inaugurare una nuova
stagione politica e culturale dopo il '45 fu di liquidare
l'idealismo condannando la sua adesione al fascismo o le sue
collusioni col fascismo e di innestare il marxismo in Italia
attraverso Gramsci, formatosi più su Croce e Gentile che su Marx.
Con questa operazione aprì il partito ai crociani e ai gentiliani
in crisi e sterilizzò l'idealismo. Fu un disegno gattopardesco,
che ebbe un grande successo culturale e politico, ma produsse una
storia della cultura italiana piena di rimozioni e una cultura
incapace di fare i conti col passato. Croce e Gentile, nati nel
'66 e nel '75, appartenevano alle prime generazioni dell'Italia
unita ed erano ancora uomini del Risorgimento. Con la Critica, i
loro articoli, libri, la direzione crociana della Laterza, con
imprese gentiliane come l'Enciclopedia o il rilancio della Normale
a grande centro nazionale di selezione e formazione intellettuale,
con la loro attività politica, essi avevano fatto cinquant'anni di
cultura e storia italiana. Sia pure separati dopo la rottura
dell'amicizia nel '25, scontrandosi direttamente su giornali e
riviste o attraverso i loro allievi, essi avevano, però, anche
nell'Italia divisa in due, in guerra civile, su due diversi
fronti, continuato ad operare per non esasperare i conflitti tra
italiani, con in mente un simile obiettivo: salvare il paese dalla
disfatta o rendere meno grave la sconfitta.
Nell'Italia allo sbando, se Gentile, che aveva aderito alla
Repubblica sociale, mette in gioco la vita a Firenze, invitando
alla pacificazione, Croce, che aveva aderito al Regno del Sud, si
comporta da padre della patria perduta, interrogandosi ansioso sul
destino che gli anglo-americani avrebbero riservato al Paese. Sia
pure nemici, i due vecchi amici, continuavano a ragionare
similmente, realisticamente, su sponde diverse. Se Gentile finisce
giustiziato come traditore della patria, Croce assiste al
fallimento del suo disegno di far riconoscere all'Italia lo status
di alleato ed evitare un trattato di pace punitivo. Nel '47, di
fronte al duro trattato di pace che trattava l'Italia come uno
Stato nemico, Croce affermerà all'Assemblea Costituente di non
aver mai pensato che negli ultimi anni di vita gli sarebbe stato
riservato "un così trafiggente dolore". Sosterrà l'unità di tutti
gli italiani nella sconfitta, anche di coloro che si erano opposti
al fascismo ed erano stati perseguitati o morti per questo, poiché
"non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra patria,
né dalle sue vittorie, né dalle sue sconfitte". Era lo stesso
Croce che nel '14 si era opposto all'ingresso dell'Italia nella
Prima guerra mondiale perché filotedesco e per non tradire
l'alleanza con Austria e Germania, ma che nel '15, dopo l'entrata
in guerra dell'Italia, aveva fatto suo il motto inglese right or
wrong is my country e, nel '19, aveva protestato per il
trattamento riservato all'Italia a Versailles. Patriota, Croce
detestava però il nazionalismo degli intellettuali europei, perché
riteneva che le guerre del Novecento avrebbero segnato la fine
dell'Europa.
Durante la Grande Guerra protestò con gli accademici tedeschi per
il loro nazionalismo, perfino con l'amico Karl Vossler, chiuse con
Bergson che applicò all'esercito francese la teoria dell'élan
vital, accusò gli inglesi - ancora nella Storia d'Europa - di non
di comprendere le aspirazione tedesche, temette la disfatta
italiana. Dopo Caporetto scrisse agli amici di non aver più testa
per lavorare, ma fu accusato per tutta la durata del conflitto di
germanofilìa e difeso dal solo Piero Gobetti.
Croce ebbe sempre un rapporto privilegiato col mondo della Kultur
mentre fu sempre indifferente a quello della Zivilisation. Kultur
e Zivilisation furono nell'Europa del primo quarto del Novecento
due concezioni del mondo diverse che andavano oltre le differenze
nazionali, culturali, politiche. La Kultur era coscienza
dell'imperfezione umana, la Zivilisation era, invece, la
convinzione della perfettibilità dell'uomo attraverso la ragione.
Esse furono anche due posizioni culturali e ideologiche diverse.
La Zivilisation rimandava all'illuminismo, alla Rivoluzione
francese e ai suoi princìpi ideali. La Kultur rimandava al
romanticismo e all'idealismo tedesco, alla Real-Politik, all'idea
che la civiltà è una lotta costante con noi stessi per reprimere
le pulsioni più aggressive, perché lasciati a se stessi gli uomini
si sbranerebbero come lupi. Perciò la civiltà comportava anche una
buona dose di disagio, nevrosi, e perfino crudeltà, perché per
difenderla occorre anche combattere chi la mette in pericolo o
vuole eliminarla. "Civilizzazione e cultura - secondo la celebre
definizione di Thomas Mann - non sono soltanto un'unica e stessa
cosa, ma termini antitetici; formano una delle molteplici
manifestazioni dell'eterna discordanza della nostra umanità e del
contrasto tra spirito e natura. Nessuno vorrà negare, per esempio,
che il Messico, al tempo in cui venne scoperto possedeva una sua
cultura, ma nessuno potrà sostenere che fosse civilizzato.
Evidentemente la cultura non è l'opposto della barbarie; essa è
più verosimilmente e abbastanza spesso una primitività stilizzata,
e d'altronde civilizzati furono solo i cinesi. Cultura significa
unità, stile, forma, compostezza, gusto; è una certa
organizzazione spirituale del mondo, sia pur tutto ciò che è
avventuroso, scurrile, selvaggio, sanguinoso, pauroso". Croce
scrisse nel 1945, polemizzando con azionisti e comunisti, che la
gioia della cultura non è l'illusione di una società perfetta, ma
la coscienza di aver operato, tra aride lotte, per creare età di
splendore che senza i fatti bruti, i guadagni economici e le
vittorie delle armi non sarebbero mai nate.
Dalla parte della Mitteleuropa
Per Croce, la Kultur era anche la Germania, la sua forza,
disciplina, senso dell'organizzazione. Per questo fu contrario
alla Prima guerra mondiale, temendo il crollo degli Imperi
centrali e la destabilizzazione dell'Europa, oltre alla
possibilità che la guerra fosse utilizzata dai socialisti
rivoluzionari per fare la rivoluzione, come poi avvenne in Russia
nel '17. La Prima guerra mondiale e l'emergere dell'egemonia
americana sull'Europa occidentale, mentre all'est dominava ormai
la Russia bolscevica, produssero in Europa un clima ben
rappresentato da un libro destinato a suscitare passioni di ogni
tipo, Der Untergang des Abendlandes di Spengler. Il libro non
conteneva solo una profezia apocalittica, ma l'ammissione della
sconfitta della Kultur e la coscienza che l'Europa non era più in
grado di stabilire una sua Weltanschauung: senza più certezze,
avrebbe vissuto alla giornata, senza futuro. Nel '19, Croce reagì
con fastidio al libro di Spengler e rispose all'amico Vossler
entusiasta del Tramonto dell'Occidente che il libro era inutile,
stravagante e pericoloso. Nel '46, nella Fine della Civiltà, si
chiese se Spengler non avesse avuto ragione nella profezia della
fine della civiltà, che egli identificava con l'Europa. Ma anche
ne La fine della civiltà, Croce continuava a sperare che l'Europa
devastata e lacerata, potesse superare la grave crisi e ritornare
protagonista della storia. Di nuovo tornava a guardare con
tristezza alla nazione che aveva amato e idealizzato, la Germania,
distrutta dai bombardamenti e smembrata.
Alla fine della Prima guerra mondiale aveva scritto all'amico
Vossler di essere addolorato per quanto era accaduto al popolo
tedesco, ma fiducioso nella sua capacità di ripresa, aveva fatto
tradurre e pubblicare da Laterza gli scritti politici di Max Weber
sulla trasformazione politica tedesca e di Walter Rathenau,
presentandoli come gli uomini della nuova Germania. Croce aveva
impiegato il periodo della guerra a difendere Treitschke e a fare
l'elogio del realismo politico tedesco, consigliando agli italiani
d'imparare semmai dai tedeschi la Real-Politik. Per Croce, la
teoria dello Stato come potenza degli scienziati politici tedeschi
derivava dalla tradizione dei politici italiani della Rinascenza e
non poteva essere accusata di immoralità, perché la politica, come
l'economia, aveva proprie leggi indipendenti dalla morale, e per
questo portava ad esempio il motto inglese right or wrong is my
country. Dissentì sempre da Hegel, "il quale concepiva ancora lo
Stato e la lotta per lo Stato come "superiore" alla morale,
laddove la teoria da me difesa la concepisce, se mai, come
"inferiore". La distinzione tra politica e morale rimarrà costante
in tutto il suo pensiero politico anche nel periodo
dell'antifascismo e del Croce etico-politico. Croce contesterà al
fascismo la teoria hegeliana dello Stato etico, perché lo Stato
politicamente inteso coincide per lui col governo, amministra i
cittadini con l'autorità e la legge, ma non può dare le tavole
della morale, ben distinta dal diritto. Per il Croce
etico-politico l'uomo morale non attua la sua moralità se non
attraverso l'azione politica, accettandone la sua logica. Ma ne
"l'operare politico, nel conseguire un determinato fine, tutto
diventa mezzo di politica, tutto, non escluse in certa guisa la
moralità e la religione, ossia le idee, i sentimenti e gli
istituti morali e religiosi. [….] gli uomini coi quali si ha
inizialmente a che fare, sono inizialmente quello che sono; i loro
concetti, preconcetti, le loro buone o cattive predisposizioni, le
loro virtù e i loro difetti porgono il materiale sul quale e col
quale bisogna operare, e non c'è modo di commutarlo con altro che
piaccia meglio. Se bisognerà, per accordarsi con essi in una
comune azione, per muoverli al consenso, carezzare le loro
illusioni, lusingare la loro vanità, fare appello alle loro
credenze più superstiziose e puerili, per esempio il miracolo di
San Gennaro, o ai loro concetti più superficiali o più
superficialmente intesi, per esempio l'eguaglianza, libertà e
fratellanza e gli altri cosiddetti "principi dell'89" (che quale
che sia il loro valore teoretico, sono nondimeno grosse realtà
passionali), converrà adoperare questi mezzi". Quindi, per il
Croce antifascista, per l'uomo di Stato , così come per coloro che
avversano lo Stato, la politica è l'unico mezzo per attuare la
morale, ma "la vita morale abbraccia in sé gli uomini di governo
come i loro avversari, i conservatori e i rivoluzionari, e questi
forse più degli altri, perché meglio degli altri aprono le vie
all'avvenire e procurano l'avanzamento delle società umane. Per
essa non vi sono altri rei che coloro i quali ancora non si sono
elevati alla vita morale; e spesse volte loda e ammira e ama
celebrare i reietti dai governi, i condannati, i vinti, e li
santifica martiri dell'idea".
Realista politico contro le Nazioni Unite
I sostenitori del realismo politico ritengono la morale superiore
alla politica e per questo la distinguono dalla politica, che è
dominio dell'utile. Le stesse leggi sono convenzionali e mutevoli,
secondo gli interessi degli uomini e degli Stati. Dopo la fine
della Prima guerra mondiale, Croce si opporrà alla Società delle
Nazioni, così come dopo il '45 si opporrà all'Onu. Il 4 ottobre
del '43 aveva scritto nel suo diario: "Stanotte mi sono svegliato
poco dopo le tre e non ho potuto ripigliare sonno. Sono stato a
rimuginare la guerra, il diritto internazionale e altri concetti
affini, cercando sotto la stretta della terribile passione di
questi giorni la parte da condannare moralmente, ma la conclusione
è stata la rassodata conferma della vecchia teoria che la guerra
non si giudica moralmente, né giuridicamente, e che quando c'è la
guerra non c'è altra possibilità, né dovere che cercare di
vincerla". Il Croce, che aveva aderito al Regno del Sud, non era
molto diverso dal Croce del 1916, che affermava: "La storia mostra
che gli Stati sono perpetuamente in lotta vitale per la
sopravvivenza e per la prosperità di tipo migliore, e uno dei casi
più acuti di questa lotta è ciò che comunemente viene chiamato
guerra. Quando la guerra scoppia (e che scoppi o no è tanto morale
o immorale quanto un terremoto o altro assestamento tellurico), i
componenti dei vari gruppi non hanno altro dovere che di
schierarsi alla difesa della patria, per sottomettere
l'avversario, o limitarne la potenza, o soccombere gloriosamente,
gettando il seme di future riscosse".
Croce riteneva un dovere morale combattere per la difesa dello
Stato di cui si è cittadini, ma era anche convinto - come scrisse
nel Saggio sullo Hegel - che per la salvezza dello Stato si può
anche vendere l'anima al diavolo come asserivano i nostri politici
della Rinascenza e Machiavelli, ma non rinunciare a quella
moralità che è superiore a Cesare e alle sue leggi. Per questo, il
24 luglio 1947 Croce protestò contro il tribunale di Norimberga:
"Segno inquietante di turbamento spirituale sono (bisogna pure che
qualcuno abbia il coraggio di confessarlo), i tribunali senza
alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituiti per
giudicare, condannare ed impiccare, sotto nomi di criminali di
guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti, abbandonando
la diversa pratica, esente di ipocrisia, onde un tempo non si dava
quartiere ai vinti o ad alcuni dei loro uomini e se ne richiedeva
la consegna per metterli a morte, proseguendo e concludendo con
ciò la guerra.
Giulio Cesare non mandò davanti ad un tribunale ordinario o
straordinario l'eroico Vercingetorige, ma, esercitando vendetta o
reputando pericolosa alla potenza di Roma la vita e l'esempio di
lui, poiché gli si fu nobilmente arreso, lo trascinò per le strade
di Roma, dietro il suo carro trionfale e indi lo fece strozzare
nel carcere. Parimente si è preso oggi il vezzo, che sarebbe
disumano se non avesse del tristemente ironico, di tentar di
calpestare i popoli che hanno perduto una guerra, con l'entrare
nelle loro coscienze e col sentenziare sulle loro colpe e
pretendere che le riconoscano e promettano di emendarsi: che è
tale pretesa che neppure Dio, il quale permette nei suoi ascosi
consigli la guerra, rivendicherebbe per sé, perché egli non scruta
le azioni dei popoli nell'ufficio che il destino o l'intreccio
storico di volta in volta a loro assegna, ma unicamente i cuori e
i reni, che non hanno segreti per lui, dei singoli individui.
Un'infrazione della morale qui indubbiamente accade, ma non da
parte dei vinti, sì piuttosto dei vincitori, non dei giudicati, ma
degli illegittimi giudici". La protesta di Croce contro il
tribunale di Norimberga, generalmente rimossa dalla cultura
italiana, dà la misura di quanto poco ancora Croce sia conosciuto
in Italia. Con la caduta del fascismo, Croce aveva vinto la sua
battaglia di cittadino, ma - come egli stesso avvertì con dolore -
il suo Paese era uscito sconfitto dalla Seconda guerra mondiale,
l'Europa non era più artefice della storia del mondo e sarebbe
stata a lungo occupata dalle due potenze vincitrici. E' chiaro che
il Croce del '47, non è il Croce ministro del secondo governo
Badoglio ancora convinto di poter ottenere dagli Alleati lo status
di alleato per l'Italia. E' un Croce politicamente sconfitto, come
il suo paese, ridotto a colonia secondo Gaetano Salvemini, ma con
il coraggio intellettuale di dichiararlo.
Il Croce politico, come il Croce filosofo, va contestualizzato
altrimenti alcuni suoi giudizi sulla storia italiana risultano
incomprensibili. Il Croce, che sul New York Times del 28 novembre
1943 definisce il fascismo un pericolo mondiale, un morbo dal
quale neppure gli americani potevano dirsi esenti, aveva obiettivi
e interlocutori diversi dal Croce per il quale il fascismo era
soltanto un virus su un corpo essenzialmente sano, una parentesi -
come affermò nel discorso contro il trattato di pace - iniziata
con la Prima guerra mondiale che aveva collassato l'Europa e
l'Italia. Lo spirito dell'articolo sul New York Times è però lo
stesso col quale concluse la protesta contro il trattato di pace:
"Noi siamo stati vinti, ma noi siamo pari, nel sentire e nel
volere, a qualsiasi più intransigente popolo della terra". Croce
aveva sempre ironizzato sui vanti pomposi di una certa retorica
patriottica, ma nella sconfitta rivendica l'orgoglio di essere
italiano. Croce, che non lasciò mai il Paese durante l'opposizione
al fascismo, amava dire con Danton che la patria non si porta
sotto le suole delle scarpe. Nel momento peggiore della storia
dello Stato italiano, mostrò il significato dell'amore per la
patria. Le prossime celebrazioni autunnali dovrebbero incoraggiare
a riscoprire il significato dell'impegno politico di un filosofo
che ha fatto mezzo secolo di cultura italiana.
6 dicembre 2002
(da Ideazione 5-2002, settembre-ottobre)
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