Libri. Mario Scelba, la politica come professione
di Pino Bongiorno


Strano destino quello di Mario Scelba. Il suo nome, se si prova a farlo riemergere dal discredito in cui è stato seppellito, suona ancora sinistro ed evoca metodi coercitivi per mantenere l’ordine pubblico ed escamotages elettorali (la cosiddetta “legge truffa”) per non alienare il potere. Eppure egli ha goduto della considerazione e dell’appoggio di alcuni degli uomini migliori che ha espresso la storia italiana novecentesca, cioè Sturzo, Einaudi e De Gasperi. Del primo è stato una sorta di “figlioccio” e ne ha travasato la concezione politica e il rigore morale dal Partito popolare alla Democrazia cristiana; degli altri due ha costituito uno stimato e fedele collaboratore negli anni in cui essi guidavano le massime istituzioni dello Stato. E’ stato antifascista fin dalla prima ora, quando ad esserlo si aveva solo da rimetterci; giovane avvocato era appena diventato uno dei legali esterni della Banca Nazionale del Lavoro, quando, nel 1932, una circolare di Starace impone a tutti gli enti statali e parastatali di non dare incarichi a professionisti senza la tessera del Partito Nazionale Fascista: Scelba non ha esitazioni e si riconsegna alla disoccupazione, o quasi. Ha tenuto a battesimo la Democrazia Cristiana – insieme a De Gasperi, Spataro, Gonella, Pastore, Tupini, Jervolino e altri- di cui ha preparato anche lo statuto. Come ministro delle Poste del governo Parri (19 giugno –22 novembre 1945) ha già modo di mostrare di che pasta è fatto, ostacolando in tutti i modi la concessione di una commessa sconveniente per il paese, anche se estremamente conveniente per la Dc, che sarebbe stata beneficiata con una tangente di un miliardo di lire.

Repubblicano convinto in mezzo a colleghi di partito perplessi e, in fondo in fondo, per varie ragioni, monarchici; tra questi anche De Gasperi che è preoccupato per la civiltà cristiana e ritiene che per salvarla “la monarchia può servire più che la repubblica”. Anticomunista negli anni in cui esserlo non era un mero esercizio intellettuale e poteva costare caro, mentre era in gioco il futuro democratico del paese e anche le menti più illuminate avevano la rivoluzione del proletariato nella testa. Esempio di coerenza e lealtà, inflessibile nel tenersi dietro alle sue idee, senza mai smettere però di essere un servitore responsabile dello Stato e un correttissimo uomo di partito. Da ministro degli Interni, tra il 1947 e il 1953, ha avuto il coraggio di impedire alle piazze di cancellare quelle libertà tanto faticosamente riconquistate e lo ha fatto nell’unico modo possibile, ossia con l’uso della forza e il rispetto della legge. Nel dicembre 1953 ha parole di fuoco contro il premier Pella, di cui attacca “l’isterismo antinglese e antioccidentale che rivela soltanto la povertà di una concezione politica e di una visione dei problemi che già condussero l’Italia alla sconfitta”. Quasi un anno dopo, da nuovo presidente del Consiglio, recupera all’Italia Trieste, la città di cui suo padre Gaetano, reduce dalla guerra, gli parlava da ragazzo. Ha preferito farsi da parte appena è iniziata la stagione del centro-sinistra, preoccupato non solo dal pensiero che i socialisti potessero essere il “cavallo di Troia” dei comunisti, ma anche dalla nuova politica economica che già si intravedeva nella nazionalizzazione dell’energia elettrica (“siamo contro lo Stato gestore dell’economia”, sostiene in un suo intervento del 1962).

Ha vissuto sessant’anni nella stessa modesta abitazione, in via Orazio 3, a Roma, prima da squattrinato avvocaticchio e poi da affermato uomo di governo. Montanelli, che non lo ha perso di vista nemmeno negli ultimi anni della sua vita quando era ignorato da tutti, parla in proposito di “appartamentino da impiegato di serie B”. Ha avuto anche uno studio, messo su in un locale a via Barberini, ma non riesce a tenerlo fino all’ultimo, perché nel 1989, a due anni dalla morte, l’ente previdenziale che ne è proprietario gli chiede sei milioni di lire mensili per la locazione, costringendolo ottantottenne e con poche consolazioni a rinunciare alle sue carte traslocandole a casa del nipote. Di questo politico puro e duro, di cui di recente si è occupato Vincenzo La Russa nel suo “Il Ministro Scelba” (Rubbettino, Soveria Mannelli 2002), occorre recuperare la memoria autentica, soprattutto in un paese come il nostro, avaro di percorsi esistenziali così lineari e netti.

6 dicembre 2002
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