Abraham Lincoln, il grande accentratore
di Alberto Mingardi
Poche figure hanno assunto, nell'immaginario popolare, la statura
di Abraham Lincoln. Ci sono, però, storici coraggiosi, pierini con
le stimmate della genialità, che si sono divertiti a mettere a
testa in giù il mito. Thomas J. Di Lorenzo fa parte di questa
pattuglia di studiosi e l'ha dimostrato con il suo "The Real
Lincoln", che in America ha riacceso l'eterna contrapposizione fra
lincolniani e no. La prefazione al libro è firmata da Walter
Williams, nome noto nel mondo libertario e conservatore, sudista
convinto, di quelli che nel suo ufficio ha issato, enorme e
orgoglioso, un bandierone dixie. Usanza, laggiù in Virginia, tutto
fuorché inusuale. Sergio Ricossa, al ritorno da un ciclo di
conferenze, raccontava di essersi imbattuto (con suo grande
diletto) in "un'aula pavesata di bandiere sudiste, che si trovano
in vendita ovunque, per cui chiesi ai ragazzi se ancora soffrivano
di aver perduto la guerra di secessione più di un secolo prima.
Non abbiamo perduto la guerra, mi risposero, ma abbiamo perduto
solo una battaglia. La guerra continua".
E se prosegue, e se è salutare "guerra ideologica", Walter
Williams ne è senz'altro un generale, di quelli col vizio
dell'eroismo, che si trovano bene in prima fila. Un piccolo
dettaglio: Williams è nero. Eppure, anziché cantare le lodi del
"liberatore" Lincoln, ammonisce come "i veri costi della guerra
fra gli Stati (che è dizione più appropriata del buonista "guerra
civile", ndr) non furono "soltanto" quei 620.000 americani che
morirono sui campi di battaglia, su una popolazione totale di 30
milioni di persone (fatte le debite proporzioni, è come se oggi si
spezzassero all'unisono 5 milioni di vite). Quel che è peggio è
che gli Usa si evolsero nella direzione che Jefferson, Monroe,
Jackson e Calhoun avevano cercato di scongiurare - i singoli Stati
persero la loro sovranità a vantaggio di Washington". Ecco perché
Di Lorenzo, e Williams con lui, definiscono Lincoln non "the Great
Emancipator" ma "the Great Centralizer".
Liberare gli schiavi non era nella sua "agenda" politica. L'ha
spiegato molto bene, nella sua magistrale "Storia della guerra
civile americana", Raimondo Luraghi ricordando come, nella
piattaforma programmatica con la quale egli vinse le elezioni, "i
motivi ideologici dell'abolizionismo erano stati praticamente
liquidati". Piuttosto, è bene ricordare che "il Sud intendeva
difendere quella indipendenza che aveva guadagnato pacificamente
con la secessione, affermare il suo diritto all'esistenza quale
corpo separato ed autonomo fuori ed accanto alla vecchia Unione".
"La politica confederata non mirava né a distruggere né a
sottomettere né meno che mai a conquistare gli Stati Uniti". Ben
altro l'obiettivo del presidente. Cioè il consolidamento dello
Stato, la fortificazione del Potere. Non solo facendo piazza
pulita dei diritti dei singoli "states", ma parallelamente
allungando le mani sull'economia: erede di Henry Clay, Lincoln già
nel 1832 sosteneva la necessità di alte tariffe protezionistiche,
"a tutto vantaggio delle industrie del Nord, colluse con il potere
politico", come ricorda Di Lorenzo. Egli "non lanciò un'invasione
militare del Sud per liberare gli schiavi [...]. La ragione per
cui egli la promosse era di "salvare l'Unione", che, tradotto
dalla sua oscura retorica, significa che egli desiderava usare
l'esercito per distruggere una volta per tutte la dottrina del
federalismo e del diritti degli Stati che si era rivelata così
frustrante per i politici come lui che desideravano uno Stato più
centralizzato e ingombrante".
22 novembre 2002
Thomas J. Di Lorenzo, "The Real Lincoln. A New Look at Lincoln, His
Agenda, and an Unnecessary War", Forum Publishing - New York, 2002,
pp. 336 - $ 24.95.
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