Perché dirsi Prezzoliniani
conversazione tra Vittorio Mathieu e Anacleto Verrecchia
Vittorio Mathieu – Vent’anni fa
andammo insieme a Lugano, per festeggiare i cento anni di Giuseppe
Prezzolini. Tu forse ricorderai la mia sfuriata contro i doganieri
che (per proteggere il contemporaneo viaggio di Spadolini)
sospettavano in chiunque passasse il confine un potenziale
kamikaze. Io, al contrario, ricordo il pomeriggio che, grazie a
te, passammo con Prezzolini medesimo, che ai festeggiamenti
ufficiali non aveva partecipato, per risparmiarsi. Questa tua
consuetudine con Prezzolini, nonostante la differenza d’età, a che
cosa era dovuta? Solo al fatto che lui apprezzava in te la
capacità di tenere la penna in mano diversamente da un alpenstark?
O anche a qualche altra ragione umana o politica?
Anacleto Verrecchia – Ricordo perfettamente la tua
sfuriata. Ti tremavano le ossa dall’ira come a Don Chisciotte e io
mi divertivo un mondo a vederti. Forse quei doganieri volevano
tenere sgombra la strada, perché altrimenti Spadolini, che era più
grasso e grosso di San Tommaso, non sarebbe riuscito a passare…
Quanto alla mia dimestichezza con Prezzolini, la politica non
c’entrava per niente, dato che né lui né io abbiamo mai avuto in
tasca una tessera di partito. La nostra amicizia nacque
all’insegna di Lichtenberg, il più grande satirico della
letteratura tedesca, sul quale avevo scritto in libro. Egli lo
lesse enchanté, come scrisse; e siccome era anche lui un “patito”
di Lichtenberg, m’invitò a fargli visita. Così i nostri rapporti,
sorti dall’interesse comune per Lichtenberg, si tramutarono, poi,
in amicizia molto affettuosa. Andavamo d’accordo anche quando
eravamo in disaccordo. Ad esempio, lui amava Hegel e io no, ma
questo non ci impediva di passare lunghe ore a discutere
affabilmente di filosofia tedesca e non tedesca. Ma a unirci c’era
anche una reciproca simpatia umana.
C’è una caratterizzazione che mi onoro di
condividere con Prezzolini, (e anche con il Montanelli della
miglior maniera) la qualifica di “anarchico conservatore”. Dice
qualcosa anche a te, questo apparente ossimoro, in cui, in realtà,
i due termini si condizionano a vicenda?
Certo che la qualifica di “anarchico conservatore” dice qualche
cosa anche a me. Anche Lichtenberg e Schopenhaer erano così. Anzi
lo sono tutte le menti geniali. Starei attento, però, a non
mettere Montanelli, compreso quello “della migliore maniera”,
accanto a un Prezzolini. A parte l’enorme divario di cultura e di
intelligenza, c’è che Prezzolini aveva un carattere e una tempra
morale che a Montanelli facevano difetto. C’è bisogno di fare
degli esempi? Non credo. Vorrei dire, piuttosto, che Prezzolini
detestava il fumo dell’incenso, mentre Montanelli allargava le
narici per aspirarlo meglio. E poi, diciamola tutta: Montanelli
era essenzialmente un giornalista, bravo fin che si vuole, ma pur
sempre un giornalista. Prezzolini era qualche cosa di più, non ti
pare? Una volta mi disse: “Sai che Montanelli ha scritto che Vico
e Giordano Bruno non si capiscono? Ma guarda un po’ che cosa mi
tocca di sentire alla mia età! Doveva venire da me, quel testone,
e io glieli avrei spiegati”.
Io sono un uomo d’ordine perché penso che
solo nell’ordine possa fiorire e conservarsi il disordine. Il
disordine vero, strano e significativo, che dice qualcosa appunto
perché è eccezionale (anche se è un’eccezione frequente).
Altrimenti ci si disperde in un disordine “entropico”, in cui
effettivamente si trova di tutto, ma in una tale confusione che
non si distingue più niente, come non si distinguono le
diversissime velocità delle molecole in un moto browniano. Pensi
che questo possa essere un’interpretazione possibile
dell’atteggiamento “aristocratico” di Prezzolini?
Sì penso che Prezzolini avrebbe sottoscritto volentieri quello che
dici sull’ordine. Non dimenticre che egli, nel 1968, abbandonò per
la seconda volta l’Italia proprio per il disordine che vi regnava
e se ne andò in volontario esilio a Lugano. Spesso diceva, come
Goethe, che il disordine è peggiore dell’ingiustizia. E credo che
questo sia la miglior risposta alla tua domanda.
Una società in cui è (o, almeno, era)
tipicissima la coesistenza di convenzioni rigidissime e di
eccentricità estrose è la società inglese. La grandezza di Oscar
Wilde è possibile grazie all’Inghilterra vittoriana, a Bernard
Shaw è un irlandese universale grazie al fatto che scrive in
inglese (e forse anche Joyce). Pensi che su Prezzolini abbia
influito, non questo o quell’esemplare letterario, ma l’atmosfera
culturale in cui quegli esemplari sono fioriti?
Premetto che Prezzolini era anzitutto un Selbstdenker, si direbbe
in tedesco, vale a dire uno che pensa da sé e per sé. La sua
filosofia se la costruiva da solo, anziché farsela costruire dagli
altri, come fanno i filosofi libreschi. Con un uomo siffatto,
dunque, è difficile parlare di influssi. Tuttavia egli era più
orientato verso la cultura tedesca che verso quella inglese, che
pure gli era familiare. Penso, tato per fare un esempio, a Hume e
Swift. Ma Prezzolini visse per buona parte della sua vita in
America; ed è naturale che, se si vive per tanto tempo in un Paese
straniero e se ne respira l’atmosfera culturale, si finisca per
subirne, in un modo o nell’altro, l’influsso. Dell’America gli
piaceva soprattutto il fatto che l’uomo, a differenza di quello
che accade in Italia e in altri Paesi europei, non viene
considerato tanto per quello che rappresenta nella concezione
sociale, ma solo e sempre per quello che vale come individuo.
L’anglicità, intesa nel senso che hodetto,
oggi negli States è solo un’isola felice (o infelice): pensi che
ai tempi di Prezzolini fosse ancora dominante, in particolare alla
Columbia? E, oggi, pensi che sia colà in grado di resistere,
almeno in qualche roccaforte alla sciagura del “politicamente
corretto”?
Penso che l’anglicità, come la chiami tu, al tempo di Prezzolini
fosse ancora dominante, almeno alla Columbia. Come avrebbero
potuto, altrimenti, dargli una cattedra universitaria, a lui che
non aveva neppure la licenza liceale? Insomma lì seppero
valutarlo. Ma credo che oggi le cose siano cambiate e che
cambieranno ancora di più nel futuro. Oggi la cultura americana,
per usare un’espressione di Lichtenberg, mi sembra una “dotta
barbarie”. In una delle più grandi librerie di New York ho trovato
montagne di romanzi e di romanzacci, ma nessun classico della
letteratura e della filosofia. Aggiungo che noi italiani abbiamo
una vera e propria sudditanza psicologica verso tutto quello che è
straniero, anglicità compresa. Lasciatelo dire da uno che è
vissuto per molto tempo all’estero.
C’è qualche relazione tra la tua amicizia
con Prezzolini e il fatto che tu ti sia accostato alla Germania
attraverso Gòttinger, l’Università inglese di quel ducato di
Hannover che aveva dato la casa regnante all’Inghilterra, e aveva
reso “antitedeschi” i più grandi spiriti tedeschi, a cominciare
dal tuo Lichtenberg?
A questa domanda ho già risposto all’inizio, quando ho parlato
appunto di Lichtenberg. Non credo, però, che Lichtenberg ci unisse
perché era “antitedesco”. Ci piaceva perché era Lichtenberg, non
perché era antitedesco e filoinglese. Bada che Lichtenberg amava
anche l’Italia, che considerava ancora più progredita, in campo
scientifico, dell’Inghilterra.
Perfino Nietzsche (che tu hai reso “umano,
troppo umano”, ma con ragione) era contro la Germania ufficiale,
sia di Bismarck, sia di Guglielmo II. Ma pensiamo ad un altro
grande altrettanto tuo, Schopenhauer; e perfino a Goethe, anche
lui antitedesco e, al tempo stesso, esaltatore dello spirito
tedesco fino al vertice più alto: non può darsi che anche
Prezzolini abbia avuto un atteggiamento analogo verso tutto ciò
che era – o diveniva via via – “ufficiale” in Italia, compreso
Mussolini?
Questa è una bella domanda. Lasciamo stare Nietzsche, che era
“antidesco” per partito preso, per civetteria, ma che sotto sotto
era più tedesco dei tedeschi. Le sue sparate contro Bismarck e
Guglielmo II risalgono all’ultima fase della sua follia. Non
bisogna però dimenticare che in una delle sue lettere folli,
scritta a Torino il 30 dicembre 1888, si lascia scappare questa
frase: “Alla mia corte si parlerà tedesco, perché le più alte
opere dell’umanità sono scritte in tedesco”. In breve, Nietzsche
non esce dall’ambito della cultura tedesca. Tutto diverso è il
discorso per Schopenhauer e Goethe. Questi sì che erano spiriti
universali, uno spirito universale difficilmente è nazionalista o
sciovinista. Lo stesso dicasi di Prezzolini. Nel libro che ho
scritto su di lui (G Prezzolini, l’eretico dello spirito italiano,
edizioni Fogola) dico più di una volta del suo amore-odio per
l’Italia. Avrebbe voluto cambiare il carattere degli italiani, ma
il carattere è innato e immodificabile: ognuno di noi è quello che
è per invincibile natura. Schopenhauer scrisse: “In previsione
della mia morte faccio questa dichiarazione: disprezzo la nazione
tedesca per la sua stupidità e mi vergogno di appartenervi”
Prezzolini non disse la stessa cosa, ma quasi. Detestava
l’approssimazione, la faciloneria, la corruzione e la tromboneria
dei suoi compatrioti. Non ho mai conosciuto un uomo meno retorico
di lui.
Di Schopenhauer potremmo condividere
entrambi con Prezzolini un motto: oportet philosophos hereticos
esse. Ma tu ed io lo interpretiamo diversamente. Secondo me, per
essere eretici, occorre una teologia ufficiale, contro la quale
(o, addirittura in nome della quale) essere eretici (pensa all’
“eretico” Tommaso d’Aquino). Secondo te si può essere eretici come
Giordano Bruno, anche se la teologia ufficiale è una
verbigerazione che non dice esattamente nulla. Se avessimo
sottoposto questa differenza a Prezzolini, che posizione pensi che
avrebbe preso?
Lo so, lo so che non ami Giordano Bruno. Ma con te è come con
Prezzolini: andiamo d’accordo anche quando non siamo d’accordo. Ma
cerchiamo di capirci. Tu rimproveri a Bruno la sua prosa aspra e
rocciosa delle sue opere italiane. Lo diceva anche Montanelli, che
però non capiva un’acca di filosofia. Ripeto qui quello che ho
scritto nel mio libro: Giordano Bruno, la falena dello spirito,
uscito da poco in edizione italiana (l’originale è in tedesco)
presso l’editore Donzelli: “I libri di Bruno non sono proprio di
facile lettura, sia per gli argomenti che trattano, sia per la
prosa rupestre in cui sono scritti. Perseguitato e sempre alle
prese con i bisogni primari della vita, il filosofo doveva fare
come la marmotta, che con un occhio guarda l’erba da brucare e con
l’altro i pericoli che la circondano. Per dirla con un proverbio
piemontese, doveva nello stesso tempo cantare e portare la croce.
In tali condizioni, è facile a capirsi, egli fu costretto a
scrivere di getto e senza badare troppo alla forma. Non ebbe mai
né il tempo né la tranquillità di rivedere e limare la pagina
scritta. Così si spiegano certe asperità e certe prolissità.
Bisogna anche dire che le sue opere italiane, che costituisono
meno di un terzo della sua produzione, sono il primo esempio
europeo di prosa filosofica in volgare, anziché in latino. Ricordo
che di questo parlai anche con Prezzolini, il quale si dichiarò
d’accordo con me. Anche Schopenhauer, una volta, riprovera a Bruno
una certa prolissità, ma questo non gli impedisce di scrivere, nel
Mondo come volontà e rappresentazione, che fra tutti i filosofi
moderni Bruno è l’unico che si possa in qualche modo paragonare a
Platone. E si riferisce, in particolare, a quel capolavoro che è
il De la causa, principio e uno. E ora rispondo alla tua domanda.
Certo che, per essere eretici, occorre una teologia ufficiale.
Sono perfettamente d’accordo con te. Ma Bruno era un filosofo, non
un teologo. E lo dichiarò lui stesso ai giudici veneti. Quando
infatti gli chiesero se fosse versato in teologia, lui rispose di
no. E proprio per questo era uscito dall’ordine domenicano. A
rigori di logica, dunque, è sbagliato definirlo eretico. Eretico
di che, visto che rifiutava la teologia ufficiale? Bruno esce
completamente dalla cultura occidentale. Cusano, Copernico e
Galilei vi sono e vi restano impiantati, ma Bruno no. Anche questo
ho scritto nel mio libro.
Ma Prezzolini che cosa ammirava, in modo
particolare, di Giordano Bruno?
Ti sembrerà stano, ma ne ammirava soprattutto la lingua. Una volta
mi disse. “Uno degli aspetti più interessanti nelle opere italiane
di Giordano Bruno è la lingua. Mi riferisco in modo particolare al
Candelaio”. Faceva qualche riserva sul pensiero filosofìco e
scientifico, però confessava che era passato molto tempo da quando
lo aveva letto l’ultima volta e che non ricordava bene tutto. Però
ne ammirava la saldezza del carattere, e diceva: “Certamente per
la Chiesa era molto più faciee bruciare vivo Giordano Bruno che
confutarlo”. E non dimenticare che per Prezzolini quello che
contava veramente, in un uomo, era il carattere.
Parlami di Prezzolini che ama Hegel.
Una volta, da Berlino, avevo scritto un aritcolo contro Hegel.
Prezzolini reagì così: “Non sono affatto d’accordo con te sullo
stile di Hegel. E’ un magnifico scrittore, non puoi immaginare
quale entusiasmo destò nel mio animo la Fenomenologia quando, nel
1909, la ricevetti in dono con dedica nella nuova edizione
personalmente dal professor Lasson, allora il più competente degli
hegeliani. Una mia allieva scrisse una tesi nutrita su Hegel e la
letteratura italiana. I suoi giudizi son ancora vivi e sempre
brillanti. Riapri la Fenomenologia e sentirai che ritmo: è un
poema. Si può combatterlo, ma intanto da più di un secolo domina.
Ieri l’altro a Mosca c’erano 175 hegeliani provenienti da varie
parti del modo per ricordarlo. Spero che non perderai l’amicizia
con me per quel che ti dico”. Perdere l’amicizia con Prezzolini a
causa di Hegel? Mai e poi mai! L’ho forse persa con te, che ami
Hegel ancor più di Prezzolini? Ma la cosa strana è un’altra:
Prezzolini, in filosofia, era molto più vicino a Schopenhauer che
a Hegel, anche se non lo voleva ammettere. Credo che non avrebbe
mai sottoscritto la folle frase di Hegel: “Ciò che è razionale è
reale, e ciò che è reale è razionale”. Io la chiamerei una frase
di andata e ritorno. A parte questo, Hegel è l’assolutizzatore
dello Stato nel trascendente, nentre per Prezzolini lo Stato è un
semplice espediente per far vivere insieme gli uomini e impedire
che si scannino l’un l’altro. E questo, sia pure con parole
diverse, lo dice anche Schopenhauer. Per finire, Hegel è
ottimista, Prezzolini è pessimista. Tutti i veri filosofi sono
pessimisti, non è vero?
Lascio a te il compito di concludere. Perché
io sono risalito a Prezzolini – prima che attraverso di te – solo
attraverso la filosofia non ufficiale dei volumetti di Carabba
(Lanciano); o attraverso i “classici del ridere” di Formiggini; ma
tu di Prezzolini eri un amico del cuore, benché tanto più giovane.
E questo devi spiegarci senza ritegni, remore o inibizioni…
Ho avuto la fortuna di conoscere, soprattutto a Vienna, alcuni
vegliardi geniali, ad esempio Konrad Lorenz, Karl Popper, il tuo
amico Gadamer, che quando parlava di Torino nominava solo te, ma
nessuno ha lasciato in me un’impronta così profonda come
Prezzolini. Me lo avevano descritto come un uomo difficile e
intrattabile, ma era solo una delle tante calunnie messe in giro
per denigrarlo. Quando lo vidi per la prima volta, mi ritornarono
alla mente le parole che Hebbel scrisse alla moglie, l’attrice
Christine Enghaus del Burgtheater di Vienna, dopo aver fatto
visita a Schopenhauer che viveva a Francoforte: “Il filosofo passa
per un uomo rude e scostante. Ma io, per esperienza personale,
sapevo troppo bene da quale gentaglia vengono messe in giro certe
voci per lasciarmi intimorire: si tratta di quelle persone vuote
che dall’uomo di spirito potrebbero mandare i loro vestiti,
anziché andarci esse stesse, e che, se egli alla fine indica loro
la porta, perché ha atteso invano una qualche manifestazione di
vita, ne cercano naturalmente la ragione non in se stesse, ma in
lui. Io ho trovato un vecchio signore estremamente gioviale”. E
così era anche Prezzolini: gioviale, umano, pieno di spirito,
simpatico e ospitalissimo. Nei dotti, di solito, si trova più
scienza che sapienza. Non così in Prezzolini, la cui sapienza
affiorava anche nei discorsi occasionali. E come rideva
volentieri! A fargli da accompagnamento c’erano la moglie
americana, la simpaticissima Jakie, che rideva ancora più
volentieri e in maniera più contagiosa. Sì, il pessimista
Prezzolini, che i malevoli hanno cercato di far passare per un
orco arcigno e intrattabile, rideva. Una volta, parlando dei suoi
nemici, mi disse: “Io mi sono sempre divertito, loro no”. Mi
voleva molto bene, anzi ci volevamo molto bene, e spesso mi dava
consigli su come impostare e scrivere un articolo. Quale fortuna,
avere un simile maestro. Guai, però, a chiamarlo maestro. Diceva
che era una parola consumata dai servili italiani. Gli piaceva il
mio modo di scrivere scanzonato e aniconvenzionale, ma non saprei
dire se fosse solo questo il motivo che fece sorgere la nostra
amicizia così affettuosa. L’amicizia ha vie misteriose che non
sempre conosciamo. Permettimi di citare un passo di ciò che mi
scrisse la moglie Jakie in una lettera del 3 marzo 1976:
“Prezzolini ha molto molto apprezzato la tua lettera, Anacleto.
Continuava a dire che bella lettera da Anacleto! Ti vuole molto
bene ed è così contento che ha avuto l’opportunità di conoscerti
durante questi anni. Dice che sei una delle pochissime persone con
cui può parlare e con cui si sente spiritualemnte vicino. Gli hai
fatto un gran bene”. Jakie, pur essendo tanto più giovane, morì
prima di lui. Quando, il 14 luglio del 1982, morì anche
Prezzolini, io ero a Vienna. Die Presse, il più autorevole
giornale austriaco, mi pregò di rievocarne la figura e mise a mia
disposizione quasi un’intera pagina del supplemento letterario. E
basta questo per capire quanto egli fosse conosciuto all’estero.
11 ottobre 2002
(da Ideazione 4-2002, maggio-giugno) |