Alle radici della politica
di Alessandro Vitale


Cercare di delineare la figura umana e scientifica di Gianfranco Miglio in poche righe è un'impresa ardua, forse impossibile. Egli infatti è stato uno studioso che non solo ha percorso vastissimi e spesso deserti continenti di ricerca ed esplorato praticamente tutte le dimensioni nelle quali si esplica il fenomeno politico, ma che ha anche vissuto fasi di attività scientifica alterne e all'apparenza poco conciliabili fra loro. Inoltre, la partecipazione diretta all'abortita riforma costituzionale di un Paese refrattario ai cambiamenti, con una netta presa di posizione in favore di una soluzione radicale come quella federale (autentica), rende la figura ancora più complessa, per il sovrapporsi di piani e di dimensioni che sembrano distinte e poco coerenti. Per non parlare di quanto spazio occorrerebbe per affrontare i miti e gli innumerevoli luoghi comuni cristallizzatisi sulla sua figura nel corso dell'ultimo decennio. Quello che è certo è che Miglio è stato uno dei maggiori scienziati della politica, conoscitori di istituzioni e di teoria costituzionale che questo Paese abbia avuto. Il suo lungo percorso scientifico però rimane ancora inesplorato, una strada non ancora battuta, disseminata di ricerche, di scritti frammentari e incompiuti, di lezioni universitarie, interventi, folgoranti messe a punto e precisazioni, scritte di suo pugno o risultanti da innumerevoli interviste che spesso, per la loro portata innovativa e per il rovesciamento che provocano di abitudini mentali o di interi castelli concettuali e teorici senza fondamenta ma dati per scontati, si rivelano più importanti di quanto non lo siano intere parti delle sue più antiche e organiche ricerche.

L'opera di Gianfranco Miglio è una miniera inesauribile di conoscenza sulla politica e sulle sue "regolarità", sullo Stato moderno, la sua ideologia e la sua realtà, così come di intuizioni illuminanti spesso non sviluppate fino in fondo, in campi molto eterogenei, lasciate in sospeso in vista di uno studio approfondito e documentato, ma che aprono subito la vista su sterminati orizzonti conoscitivi. Nonostante la relativa esiguità numerica dei volumi che portano il suo nome (dovuta alla sua ferrea onestà intellettuale, al suo distaccarsi continuamente dalla pagina per limare il pensiero e al fatto che scriveva solo dopo aver raccolto una quantità sterminata di dati capaci di comprovare le sue "ipotesi di regolarità"), la ricchezza sterminata del lavoro di Miglio nel campo della ricerca sulla politica e sui suoi meccanismi, affiora in tutta la sua portata primariamente da una lettura fra le righe, dagli spazi bianchi, da tutte quelle cose lasciate intuire e intravedere a chi ne sviluppi l'andamento logico e il lavoro di conferma empirica, che immancabilmente porta anche il più scettico a dover constatare la verità e l'effettiva manifestazione nella realtà dei fatti di quanto si ritrova descritto o previsto nell'opera dello studioso. Non è un caso se le sue ricerche più brevi e più concise si rivelino le più folgoranti e innovative, quelle che riescono a penetrare più a fondo nel nucleo di un problema scientifico. Come se lo sguardo dello studioso fosse stato dotato di una capacità quasi inspiegabile, se non con i lunghi anni di studio nei campi più disparati ed eterogenei e un'intelligenza acutissima capace di operare collegamenti e scoperte, di vedere dietro i paraventi, spesso durissimi e impenetrabili, dei quali la realtà della politica si serve per rendersi insondabile.

Gianfranco Miglio ha svolto tutta la sua carriera accademica presso l'Università Cattolica di Milano, nella quale, entratovi da laico per le sue brillanti qualità scientifiche, è stato preside della facoltà di Scienze politiche per oltre trent'anni. Con una versatilità impressionante e d'altri tempi, ha insegnato Storia dei trattati e Politica internazionale, Storia delle istituzioni politiche, Dottrina dello Stato, Storia delle dottrine politiche e Scienza della politica. I suoi scritti principali sono dedicati alla teoria pura della politica, alla metodologia scientifica, alla storia delle istituzioni politiche, alla teoria e alla storia dell'amministrazione pubblica, alla storia delle dottrine politiche, alla psicologia politica, alla geografia politica ed economica, alla teoria pura e generale del diritto internazionale, alle relazioni internazionali, alla scienza della politica, al diritto costituzionale e alla teoria e alla storia dello Stato moderno, alla storia politico-istituzionale dell'antichità classica, alla storia istituzionale e politica italiana (in particolare alle contraddizioni dello Stato unitario), alla storia locale e, in ultimo, alla teoria del neo-federalismo, nella quale in Italia rimane il rappresentante indiscusso di maggior rilievo. Se nel 1988 Nicola Matteucci aveva affermato che la presenza di Miglio nella cultura italiana è ben riscontrabile per vie nascoste, sotterranee, discrete, ancor più essa è diventata sensibile, se non prorompente negli anni successivi. Il ventaglio dei suoi interessi scientifici si è rivelato con il passare degli anni di una vastità crescente e sempre più senza confronti. Solitario nella corporazione accademica dei professori di Scienza politica, ha sempre seguito percorsi autonomi di ricerca, gelosamente difesi, molti dei quali colpiscono per il distacco radicale dal dibattito corrente, dalle mode intellettuali contingenti, addirittura per la terminologia innovativa, per i temi di assoluta rilevanza introdotti, per la profondità di analisi e per la diversità di angolo di visuale adottato.

Una delle caratteristiche più macroscopiche della vita di Gianfranco Miglio è stata poi quella del diventare sempre più una persona scomoda, proprio come lo sono tutti i veri scienziati della politica, che non si preoccupano di compiacere chi detiene il potere, né di aderire alle convinzioni più diffuse o di abbellirle con orpelli ideologici o con "omaggi labiali" a princìpi astratti e generalmente diffusi, per essere accettati o osannati dall'opinione pubblica o dal resto della comunità accademica ufficiale. Come ha scritto Angelo Panebianco, i grandi realisti sono sempre personaggi scomodi, irritanti, perché ricordano continuamente quello che dà fastidio sentirsi dire. Quasi sempre poi si imputa loro la responsabilità dell'esistenza di meccanismi e leggi che hanno solo scoperto e che esistono nella realtà. Per questo sono generalmente anche grandi solitari. Una constatazione che anche Edmund Burke (1729-1797), scrivendo di Machiavelli, aveva fatto nella sua Vindication of Natural Society.

Gianfranco Miglio è stato la quintessenza di una persona libera, al servizio di nessuno e di un'indipendenza assoluta. È stato un uomo solitario per il semplice fatto che alle altezze siderali e alle soglie del futuro, alle quali il suo limpido e profondo pensiero si muoveva, nessuno era in grado di seguirlo in modo integrale. Una solitudine e un'indipendenza talmente radicali da produrre anche il grave inconveniente, nonostante i tantissimi semi gettati e fioriti nelle discipline più diverse, di non lasciare una propria scuola strutturata e visibile. Un uomo solitario in questo Paese, poi, anche perché da sempre molto più proiettato verso la cultura, i dibattiti scientifici e le scoperte del mondo germanico e di quello anglosassone, nei quali esiste una comunità scientifica degna di questo nome, che dibatte e fa progredire la conoscenza e non la lascia avvizzire nei soliloqui di chiuse scuole corporate, improduttive e incapaci di comunicare, o nella vacuità-irrilevanza dei temi di studio prescelti, i quali, proprio per l'assenza di confronto, sono i più facili ma anche i più infecondi. Un'analisi esauriente dell'intera opera scientifica di Miglio richiederebbe molti volumi. Sono troppi gli orizzonti, le discipline e i temi che egli ha affrontato ed esplorato. Limitarsi ad alcuni è arbitrario, in quanto si finisce per tralasciare importanti argomenti reciprocamente interrelati. Spesso si è voluto vedere nella sua esperienza scientifica la presenza di discontinuità e di incoerenze e generalmente due periodi nettamente separati: quello precedente alla fine degli anni Ottanta e quello successivo, concomitante con la decisa presa di posizione a favore di un radicale cambiamento costituzionale. Anche se è ancora presto per affermare con decisione definitiva l'esatto contrario, non di meno il problema della continuità logica e teorica del suo lavoro nel campo del realismo politico appare come già oggi largamente risolvibile nel senso della profonda continuità e della coerenza di fondo dell'intera sua opera.

Gianfranco Miglio è stato un gigante del realismo politico in Italia. Tutti i suoi lavori presentano questa impostazione irriducibile. Come egli stesso amava dire, egli faceva parte della scuola "analitica" europea della Scienza della politica, orientata verso un approccio "classico", fatto di studio concettuale (Begriffspolitik), differente rispetto a quella più matematizzante e formale di conio americano1. Le sue radici scientifiche vanno da Tucidide a Machiavelli, da Hobbes a Edmund Burke, da Gabriel Naudé a Joseph-Emmanuel Sieyes a Mosca e Pareto, da Max Weber a Carl Menger e a Carl Schmitt, da Otto Hintze a Otto Brunner, da Ferdinand Tönnies a Henry Sumner Maine, ai maggiori teorici del diritto di ogni Paese e di ogni epoca, agli studiosi germanici dell'amministrazione e del diritto internazionale, ai grandi federalisti, da Johannes Althusius a Otto von Gierke, da Thomas Jefferson a John C. Calhoun. Autori che egli non ha però mai seguito acriticamente (come a volte è stato sostenuto), ma dei quali ha cercato, criticandoli spesso nelle loro inesattezze e insufficienze, nei loro cedimenti ideologici, di svilupparne la lezione fondamentale e di portarla alle estreme conseguenze logiche. In Miglio sarà sempre centrale infatti il tentativo di tenere fuori dalla porta del laboratorio del politologo i valori che inquinano la ricerca, facendo apparire la politica per quello che non è; ha avuto sempre una dedizione assoluta per lo studio freddo, disincantato e oggettivo della "realtà effettuale". E in Italia è stato lo studioso che più ha lavorato per un'autonoma e libera ricerca sul "politico".

Gli argomenti innovativi che ha affrontato (anticipando tendenze di ricerca che solo oggi si affermano) sono estremamente numerosi e riassumibili solo parzialmente: dall'ideologia e il ruolo che essa gioca in politica come "bandiera" di una classe politica, alla teoria del "ciclo politico", a partire da un esame approfondito delle dottrine e istituzioni politiche del mondo classico, ai rapporti fra politica e diritto, politica ed economia, politica e psicologia, allo studio della formazione e della sopravvivenza della gestione pratica del potere (amministrazione), alla storia delle istituzioni politiche condotta con la mirabile capacità di scoprire l'origine di un sistema giuridico-istiuzionale antico e di vederlo operare anche in altre epoche, in un ripudio completo del formalismo giuridico e delle correnti ideologie. Tutto questo in un periodo nel quale la storicità dello Stato moderno, abbellito dal mito del "progresso" e dall'idea dello "Stato come stupenda creazione del diritto", era data per tutt'altro che scontata. La sua opera è stata distruttiva particolarmente per i paradigmi giuridico-formali ancora dominanti negli anni Cinquanta (anche nel diritto internazionale dogmatico), caduti sotto la scure delle sue serrate demolizioni, demistificazioni, smascheramenti. Inoltre, fra i campi esplorati da Miglio vi sono i processi di formazione dell'autorità e del potere, da una parte e le relazioni internazionali dall'altro (anticipando per una via del tutto autonoma tendenze di ricerca che si affermano solo oggi nel tentativo di risolvere complessi problemi), il campo vastissimo dello studio del tempo e dello spazio, il ruolo dei simboli in politica, il carattere irrazionale della politica stessa e così via.

Gli studi su singoli aspetti del "politico" però poggiano tutti sulla sua analisi della realtà profonda di questa dimensione, nella quale è centrale lo studio dell' "obbligazione politica" (sganciata dalle confusioni, presenti anche in campo anglosassone, con la teoria dello Stato) come realtà contrapposta e irriducibile all'obbligazione "contratto-scambio". Il cuore della sua teoria del "politico", ruota infatti tutta attorno al tentativo di mettere in luce le mille facce del "cristallo dell'obbligazione politica": un lavoro condotto particolarmente nelle sue ancora inedite Lezioni di Politica Pura, che implicava lo studio di fenomeni estremamente reali e correlati, quali la "rendita politica" (termine-concetto introdotto da Miglio nella politologia degli anni Sessanta e contrapposto alla "rendita di mercato") nei suoi aspetti teorici e tipologici, la realtà della rappresentanza politica (al di là delle mitologie "democratico-rappresentative") e quella dei partiti politici (macchine per guadagnare le "rendite politiche" e per gestirle): tutto questo in un momento nel quale nella politologia più in voga si disegnavano solo modelli formali e inevitabilmente superficiali ("polarismo-bipolarismo", una concezione ideologica del partito politico e così via), applicati per di più allo sgangherato e poco rilevante caso italiano. Così, ancora, nelle sue esplorazioni va ricordato lo studio dell'amministrazione, guidata dall'abitudine a vedere l'esercizio del potere "dal basso", per svelare la vera storia dello Stato moderno e del suo futuro andando al fondo degli ordinamenti, delle istituzioni e della logica interna del loro funzionamento. Un campo che lo porterà a svelare la realtà storica dell'Italia come "miracolo tecnico" della pura ragion di Stato, al di là dell'ideologia risorgimentale diffusa nella maggior parte degli storici, con una continuità di indagine che vedrà il suo culmine nella ripresa dei suoi studi sul federalismo negli anni Novanta.

Al nome di Miglio viene spesso affiancato quello di Carl Schmitt, scienziato del diritto e della politica di altezza siderale e fra i più fraintesi (ma che dai politologi marxisti italiani, più bisognosi di un bagno di realismo nel momento in cui Miglio lo introdurrà in Italia, verrà compreso in modo singolarmente immediato), che egli ha fatto conoscere in questo Paese all'inizio degli anni Settanta. Quella sua introduzione di Schmitt nella cultura italiana gli valse la fuoriuscita dalla finestra delle chiuse stanze accademiche nostrane e l'assurda definizione di "conservatore": definizioni e ostracismi che verranno però riscattati negli anni seguenti con un rientro dalla porta principale, per aver introdotto in Italia un ormai riconosciuto gigante dell'analisi scientifica del "politico". Tuttavia il realismo di Miglio ha sviluppato la lezione schmittiana spingendosi molto al di là degli orizzonti di declino dello Stato moderno e dello Jus Publicum Europaeum intravisti dallo studioso tedesco. Questo appare già negli studi di Miglio sulla "politica oltre lo Stato", sulla trasformazione della guerra, sul rapporto (reversibile) fra guerra esterna e guerra civile, sulla correlazione fra l'assetto interno delle aggregazioni politiche (fra sfera dell' "obbligazione politica" e area del "contratto-scambio") e la natura dei sistemi internazionali, soggetti ad evoluzione ciclica in base al grado di politicizzazione, sulla relatività assoluta (e loro convertibilità illimitata) dei concetti di "interno" ed "esterno".

Ben oltre Schmitt però Miglio si spingerà ancor più nell'ultimo decennio della sua attività, che è anche il periodo scientifico della sua vita meno conosciuto dagli studiosi, in concomitanza con il crollo del blocco politico-militare orientale e dell'impero sovietico: collasso che secondo Miglio segna una data storica di importanza colossale, che ha prodotto l'inversione di processi politici durati otto secoli. Gli sviluppi epocali di fine secolo erano per lui dati dal fallimento del modello più estremo (e coerente) di Stato moderno (quello collettivista e "amministrato" di tipo sovietico), dall'impossibilità per gli Stati di condurre la guerra "vera" (ricorso ai mezzi ultimi di distruzione), dalla riduzione inevitabile del ceto burocratico (parassitario) estesosi nello Stato a dismisura, deformandolo: crisi e riduzione innescate inesorabilmente dai processi di automazione (accelerazione della gestione delle informazioni) e dall'emergere di un nuovo modo di produzione che fa venire al pettine i nodi della struttura unitaria e accentrata dello Stato moderno. Proprio da qui egli partirà per riprendere in modo totalmente differente e radicalmente innovativo i suoi antichi studi sul federalismo, pur non tradendo affatto, ma anzi portandola alle estreme conseguenze, la sua impostazione realista, continuando a cercare di capire la dinamica evolutiva dei sistemi politici, le forze e i modelli che hanno maggiore probabilità di affermarsi nel futuro.

Già prima della caduta del sistema bipolare in tutto il mondo il pendolo della storia aveva incominciato a muoversi, come Miglio stesso aveva ampiamente previsto, verso una prevalenza della dimensione del contratto-scambio e del "privato". Il federalismo appare a Miglio presente nelle cose come una conseguenza inevitabile del declino dell'"obbligazione politica", del tramonto dello Stato moderno, dello Jus Publicum Europaeum, con tutto il suo ormai obsoleto apparato concettuale e come conseguenza della crisi del modello parlamentare. Il problema della decisione, tema eminentemente schmittiano, connaturato alla politica, imbocca così per forza di cose secondo Miglio canali differenti rispetto a quelli rigidi e stabiliti una volta per tutte dallo Stato moderno e dalla tradizione costituzionale a partire dal XVII secolo (ed esplosa nel XIX), legata ad una visione semplicistica, basata su riduzioni estremamente semplificate della politica (la sovranità, i confini, la fiscalità, ecc.) e dottrinariamente coerente con quella stessa struttura, che sta uscendo dal processo storico e della quale Miglio approfondisce sempre più la vera natura e le ragioni della sua crisi.

Per lo studioso lombardo, sempre identificato come "decisionista" di stampo schmittiano, la decisione non ha mai avuto la portata trascendente che hanno sembrato attribuirgli Carl Schmitt o Hermann Heller. Essa per Miglio svolge solo un ruolo gestionale e amministrativo. Quello decisionale infatti "È solo un momento del processo politico, necessario ma inserito nel complesso tessuto di relazioni e di esperienze, a cui serve con la sua portata meramente funzionale". L'irriducibilità della dimensione politica, in quanto connaturata alla stessa convivenza interumana in gran parte per ragioni biologiche, per Miglio non implicava affatto una glorificazione dello Stato, della coercizione, della violenza monopolisticamente organizzata. Il contratto, per sua natura un rapporto volontario continuamente rinegoziato, imponendosi nelle cose tende a scavalcare l'importanza del vincolo politico e delle conseguenze di quest'ultimo, innervando il rapporto federale di una costante mutabilità, a seconda dei bisogni dei soggetti che compongono la federazione, costantemente rinegoziabile. Fra realismo e logica, lo studio dell' "obbligazione politica" negli ultimi dieci anni di vita di Gianfranco Miglio prosegue così con una continuità sorprendente, giungendo a esiti di una coerenza adamantina, smantellando anche sue insufficienti (a suo stesso dire) analisi precedenti ed aprendo vie che negli anni Ottanta sarebbero parse azzardate e contraddittorie.

La visione dell'autorità e del potere, del loro manifestarsi sul piano istituzionale, nel realismo di Miglio fuoriesce sempre più da quella codificata dalle categorie dello Stato moderno e recupera una dimensione pluralistica simile a quella precedente al consolidamento della sovranità assoluta, gerarchico-accentrata, di marca statuale moderna. Di qui il suo crescente interesse per il ritorno di attualità di strutture politiche flessibili, come quelle dell'Hansa tedesca, delle Province unite olandesi, della Confederazione elvetica prima del suo compromesso deturpante e contraddittorio con le categorie statuali moderne, delle costituzioni delle città libere contrapposte ai Principati prima e allo Stato assoluto poi. Tutte strutture "a basso tasso di politicità", che avrebbe voluto descrivere nel libro progettato ma rimasto incompiuto, Contro lo Stato, e che hanno prodotto livelli di civiltà e di crescita economica straordinari. È l'"altra metà del cielo" della storia europea, come egli la definisce, a tornare di attualità con le sue straordinarie ed esemplari strutture di marca althusiana, ricche e complesse, progenitrici del neo-federalismo contemporaneo. La teoria neo-federale di Miglio non vede più così la garanzia della pluralità in un ambito statuale moderno, ma fuoriesce da essa, sulla falsariga di Schmitt ma spingendosi infinitamente più lontano di quanto non avesse fatto lo scienziato tedesco, dalla visione e dall'armamentario dello Stato moderno (dirà infatti e non a caso nel 1992: "Schmitt non condividerebbe quello che sostengo e cerco di dimostrare in questi anni"), intravedendo convivenze extrastatuali in fieri, ormai sempre più lontane dall'impossibile "quadratura del cerchio" (come la definiva Otto von Gierke) fra Stato e federalismo, tentata nella sintesi incoerente dello "Stato federale", un autentico ossimoro come lo "Stato liberale". Non solo: il nuovo federalismo (che egli studia tornando alle ragioni del federalismo delle origini) diventa qualcosa di diverso dalle strutture basate sul patto politico. Del resto, secondo Miglio è la stessa massa crescente di negoziati, confronti, pattuizioni, contrattazioni, che imperversano oggi a tutti i livelli, a superare nelle cose il vecchio modello dello Stato sovrano e del diritto come atto d'imperio, trasformando quest'ultimo in frutto di una decisione interpersonale e diffusa, generatrice di altre decisioni "a cascata".

Al di là delle facili critiche e della presunta profonda svolta che avrebbe caratterizzato l'evoluzione della teoria di Miglio negli anni Novanta, quello che importa sono le impressionanti convergenze scientifiche con autori stranieri e teorie estremamente distanti, temporalmente e spazialmente, rispetto a Miglio stesso e largamente sconosciute in Italia: convergenze evidenti, sebbene raggiunte per vie autonome e differenti, che rafforzano la portata del pensiero innovativo di Miglio, le sue conclusioni e che sono in gran parte ancora da studiare. Degli ultimi dieci anni della sua vita e del suo ininterrotto lavoro, della logica evoluzione del suo pensiero scientifico e del suo studio quasi nessuno sa particolari precisi. Da una parte perché ad un livello molto triviale, l'assordante tamburo massmediatico ha trasformato lo studioso, che lo stesso Schmitt aveva definito "Il maggior tecnico delle istituzioni e l'uomo più colto d'Europa" in una figura irreale, caricaturale, paradossale. Dall'altra perché, laddove si tenti un'analisi approfondita della sua opera, vengono stabiliti collegamenti impropri e arbitrari, vengono tratte conclusioni non rispondenti alla realtà. Anche in ambito accademico, a causa dell'indifferenza, delle semplificazioni e dell'ostracismo che Miglio ha ripetutamente subìto, soprattutto nella sua fase di elaborazione della sua teoria neo-federale, si è perso il senso dell'evoluzione più che decennale di una ricerca ininterrotta.

L'attenzione rivoltagli solo fino agli anni Ottanta infatti porta alla visione distorta di uno studioso "dogmatico", fermo sulle sue posizioni acquisite e sui risultati dei suoi studi o addirittura legato a convinzioni e a ricerche da lui condotte, ma ormai invecchiate. Definizioni paradossali se riferite a uno scienziato che nell'ultimo decennio della sua vita, fino a 82 anni, oltre che ad augurarsi di vedere invecchiare molte tappe intermedie del suo cammino conoscitivo, ha continuato a sostenere la necessità di rivedere o addirittura di buttare a mare alcune sue ricerche fra le più note, come quella sull' "impersonalità del comando", rivelatasi al diradarsi di molte delle nebbie ideologiche nelle quali si protegge lo Stato moderno, pura ideologia, o gran parte delle sue Lezioni di Politica Pura, basate su anni di corsi universitari preparati con cura e precisione impressionanti e con documentazione teorico-empirica tratta e sviluppata solo da prime edizioni e originali di lavori scientifici di tutte le epoche. Lezioni condotte seguendo un ragionamento duro come il diamante e tagliente come un rasoio, in uno stile seicentesco anglosassone (con assonanze molto forti con la teorizzazione di un Hobbes o di un Locke), che Miglio riteneva avrebbero dovuto oggi (dopo la fine del periodo di estrema politicizzazione dello scontro internazionale bipolare) essere svolte in maniera molto diversa e con l'aggiunta di capitoli decisivi, come ad esempio quello sulla teoria del parassitismo politico, del declino dello Stato moderno, dell'evoluzione della burocrazia e della sovranità.

Miglio, da autentico scienziato, non si è mai innamorato delle sue opere scientifiche e delle sue scoperte parziali, che ha sempre considerato solo tappe provvisorie, intermedie, di un lavoro inesausto, soltanto gradini per raggiungere la conoscenza che devono essere rifatti dallo stesso costruttore quando sono riusciti male o ha impiegato incautamente un materiale troppo friabile. Miglio è sempre stato aperto al dialogo e agli apporti più disparati, in quanto formulatore di problemi e non fornitore di soluzioni precostituite. In questo senso è stato uno dei più grandi e rigorosi studiosi della politica che questo Paese abbia avuto. Negli ultimi dieci anni inoltre non ha mai abbandonato lo studio e l'approfondimento, anche se il tentativo infruttuoso ma nobile di incidere sul cambiamento politico-costituzionale italiano ha bruciato molto tempo dedicabile alla ricerca. Di questo periodo rimane l'exemplum morale di un uomo solo nella sua lucida visione della realtà, il coraggio delle sue scomode e anticonformiste prese di posizione, la sua lotta solitaria per una radicale riforma costituzionale di un Paese corrotto, degenerato in tirannide partitocratica e in centralizzato assolutismo parlamentare, di uno studioso restìo a chiudersi nella sua comoda torre d'avorio e pronto a opporsi, anche solitariamente, senza cercare vantaggi personali ma con il solo fine di non veder lasciare alle generazioni future l'eredità di un crollo verticale e irreversibile di civiltà.

Fino agli ultimi anni di vita comunque egli ha continuato a formulare ipotesi folgoranti sulla natura del neo-federalismo, sulla degenerazione dei sistemi federali esistenti e sulle loro cause, sulla politica oltre lo Stato, sulla trasformazione della politica internazionale e sulle sue ricadute sulle dinamiche politiche in atto, sulle origini europee e althusiane del federalismo americano, sull'influenza delle trasformazioni internazionali nell'Europa orientale e su molti altri temi. Ipotesi di vasta portata, che sono rimaste a costellare un lavoro immenso, purtroppo in gran parte rimasto incompiuto e disseminato in percorsi sconfinati di ricerca tracciati nelle sue schede, negli appunti, ancora da scoprire, così come negli inediti mai incompiuti degli ultimi anni: una mole di lavoro che avrebbe avuto bisogno ancora forse di almeno un secolo… Nell'evoluzione teorica del pensiero di Gianfranco Miglio, nonostante le discontinuità dovute al fisiologico processo scientifico di accrescimento della conoscenza e alla correzione o all'abbandono di ipotesi rivelatesi insufficienti o sbagliate, non c'è comunque rottura, ma coerente continuità.

Gianfranco Miglio è stato una meteora di luce sull'oceano, ricoperto di tenebre e per questo così difficile da studiare, della realtà della politica. Con il suo immenso talento creativo ed esplorativo, la sua straordinaria acutezza intellettuale, dagli anni Quaranta fino alla fine del XX secolo e affacciandosi nel Terzo millennio, esplorando senza soluzione di continuità e con grande coerenza tutte le dimensioni del "politico", è riuscito ad aprire strade di studio e di ricerca che, se non domani, dopodomani verranno seguite, proprio grazie alla luce che su di esse la sua limpida teoria realista e la sua sconfinata cultura hanno proiettato. Perché i grandi political scientists, quelli veri, come lo stesso Miglio faceva notare spesso, sono sempre postumi. A volte occorrono venti o trent'anni perché ci si accorga della portata della loro opera, della produttività di una loro ipotesi o della validità di una loro scoperta, che potevano inizialmente sembrare poca cosa. Soltanto allora, quando le nebbie ideologiche, le fazioni politiche che hanno dominato un'epoca si diradano e si sciolgono senza lasciare traccia (si pensi alla distinzione, storicamente connotata e sempre meno significante, fra "destra" e "sinistra"), appare il filo d'acciaio della dura e, per quanto comprimibile, ineliminabile realtà della politica e tutti possono constatare il contributo di questi studiosi, riconoscere la loro grandezza.

27 settembre 2002

(da Ideazione 5-2002, settembre-ottobre).


 
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