Miglio, una grande eredità scientifica
di Alessandro Campi
E' trascorso poco più di un anno dalla morte di Gianfranco Miglio,
avvenuta il 10 agosto 2001 dopo una breve ma dolorosa malattia.
All'epoca la sua scomparsa è stata accompagnata da commenti
frettolosi e d'occasione, incentrati nella maggior parte dei casi
su aneddoti, amenità e luoghi comuni interpretativi connessi alla
sua esperienza politico-parlamentare. La situazione, nel
frattempo, può dirsi cambiata? In realtà, sul suo nome continua a
pesare negativamente il ricordo della sua appassionata, ma
tardiva, militanza politica nelle fila della Lega Nord (durata
appena quattro anni). Per la maggior parte degli italiani e per
buona parte del mondo politico-giornalistico egli rimane
l'ideologo del leghismo, il fautore del separatismo ed il
sostenitore della rivolta fiscale. L'opinione pubblica continua a
ricordarlo soprattutto per le sue provocazioni politiche, per la
schiettezza di linguaggio che gli era propria e per quel suo
sguardo vagamente luciferino ed irridente. Quando, nella cultura
politica italiana, si riuscirà ad affermare l'idea che Miglio non
è stato solo un politico bizzarro, ma soprattutto uno studioso di
politica di grandissimo valore scientifico, forse il maggiore che
il nostro Paese abbia avuto nel secondo dopoguerra?
Un primo tentativo per cercare di ricondurre su binari
culturalmente più appropriati la discussione sul nome di Miglio,
che meriterebbe appunto di essere ricordato per quella che è
stata, nel corso di quasi cinquant'anni, la sua vera vocazione,
vale a dire lo studio scientifico della politica e delle
istituzioni, è stato in realtà compiuto nei mesi scorsi grazie
all'impegno di Lorenzo Ornaghi, attuale Rettore dell'Università
Cattolica di Milano ed antico allievo di Miglio. Su suo impulso,
l'11 marzo di quest'anno si è svolta, proprio presso la Cattolica,
dove lo studioso lombardo ha insegnato per tutta la sua vita
(ricoprendovi per decenni la carica di preside della facoltà di
Scienze politiche), un'importante cerimonia di commemorazione alla
quale non hanno partecipato solo familiari, amici, allievi e
colleghi d'università, ma numerosi studiosi che con Miglio hanno
intrattenuto, nel corso degli anni, rapporti intellettuali e
scientifici.
Di là dal tono ufficiale e severo dell'incontro - sollecitato
dallo stesso luogo: l'aula Pio XI della Cattolica - si è trattato,
occorre dire, di un'importante occasione di discussione e di
approfondimento: il primo passo di un lavoro critico-analitico che
dovrebbe tendere, da qui in avanti, a collocare nel giusto quadro
il lavoro di questo studioso, mostrandone le radici ed i possibili
sviluppi, i limiti ed i pregi, le contraddizioni e gli elementi di
coerenza. Le relazioni presentate in quest'occasione hanno offerto
utili materiali in questa direzione. Alberto Quadrio Curzio, ad
esempio, ha richiamato l'importanza che per il Miglio storico
delle istituzioni politiche ha sempre avuto l'istituzione
accademico-universitaria, da lui considerata non un semplice luogo
di trasmissione del sapere, ma l'ambito privilegiato di
costruzione e selezione delle classi dirigenti di un Paese.
Dell'università Miglio ha dunque sempre difeso - a costo di
prestare il fianco ad accuse di conservatorismo - il carattere
gerarchico-selettivo e l'autonomia scientifica e statutaria. Al
tempo stesso egli ha ricordato l'importanza sempre annessa dallo
studioso lombardo ai rapporti tra economia e politica: in che
misura il ciclo politico influenza il ciclo economico (e
viceversa)? In che misura economia e politica interferiscono l'una
con l'altra ovvero stabiliscono un punto di equilibrio tra di
loro? Lorenzo Ornaghi, che più di altri è stato vicino a Miglio
nel corso della sua attività di docente, ha invece ricordato
alcuni dei tratti salienti della sua ricerca sul "politico", in
particolare la sua ambizione ad estrarre "scienza dalla storia", a
considerare la politica un soggetto da sottoporre al vaglio di
un'analisi oggettiva empiricamente fondata.
Miglio, ha ricordato il suo allievo di un tempo e poi suo
successore sulla prestigiosa cattedra di Scienza della politica,
ha avuto un'attenzione particolare per i processi di
trasformazione e di cambiamento politico-istituzionale; in
particolare è sempre stato affascinato non da ciò che sparisce
dalla scena storica, ma da ciò che nasce portandosi sempre dietro
qualcosa del vecchio. Che Miglio abbia avuto la vocazione del
grande maestro è stata invece l'idea espressa da Massimo Cacciari,
secondo il quale tipico di questi ultimi è proporre domande
radicali che spingono chi le affronti a riflettere e, se del caso,
a mettere in discussione i propri convincimenti. Particolarmente
radicali, a giudizio di Cacciari, sono state le questioni
sollevate dallo studioso lombardo, in una prospettiva fortemente
influenzata da Carl Schmitt, in merito al declino dello Stato, cui
egli ha opposto una prospettiva neo-federalista fondata sul
contratto-scambio che tuttavia, secondo Cacciari, non appare in
grado di configurarsi come una reale alternativa politica al
modello statuale, del quale essa riprende l'ambizione, rivelatasi
storicamente fallimentare, alla spoliticizzazione dei rapporti
sociali ed alla loro riduzione alla sfera degli interessi privati
ed alla sfera del diritto.
Nel complesso, l'incontro milanese (al quale hanno anche
partecipato con interessanti interventi Angelo Panebianco, Guido
Vestuti, Enzo Balboni, Angelo Mattioni e Pietro Zerbi) è servito a
stabilire alcune semplici verità. Per cominciare, che Miglio non è
mai stato, genericamente, un intellettuale, ma uno studioso. Egli
non è mai stato, come si usa dire di molti commentatori alla moda,
un politologo, bensì uno scienziato della politica. Come ogni
scienziato che si rispetti, ha dunque avuto una grande capacità
d'osservazione, un forte spirito analitico ed una mentalità
fortemente classificatrice. Ciò che ha sempre ricercato,
attraverso l'analisi dei fatti storici e lo studio dei grandi
classici del pensiero politico, sono state le costanti (o, come
preferiva definirle, le "regolarità") della politica. Le
istituzioni si trasformano, i regimi politici cambiano, le classi
dirigenti scompaiono: ciò che invece permane sono le motivazioni
profonde che spingono gli uomini a comportarsi quasi sempre allo
stesso modo. Ciò spiega perché, per comprendere l'agire politico,
egli abbia preso così sul serio la socio-biologia e la psicologia
sociale, senza tuttavia mai scadere nel determinismo e nel
riduzionismo. Come scienziato della politica, Miglio teneva la
storia in grande considerazione: la storia, per lui, non era solo
un magazzino dal quale attingere esperienze, esempi e
testimonianze, ma un vero e proprio laboratorio nel quale
verificare (per vederle magari smentite) le proprie ipotesi di
ricerca.
Da buon realista politico, Miglio è stato un autentico
dissacratore di luoghi comuni. Ed è proprio da questo aspetto
della sua dottrina politica che occorre partire, per comprenderne
il carattere al tempo stesso critico ed edificante. Egli ha sempre
messo in guardia dal potere mistificante delle ideologie e
dall'uso retorico dei valori. In politica, gli interessi, spesso
non confessati e non dichiarati, contano quanto gli ideali e le
passioni. In politica, la forza è solo l'altra faccia della
persuasione. A partire da queste basi, si comprende perché gli
uomini politici, magari condividendone intimamente gli assunti, lo
abbiano sempre tenuto pubblicamente in scarsa considerazione o
addirittura temuto alla stregua di un guastafeste. Il bisogno di
fare luce sulla complessa personalità di questo studioso è
testimoniato, a ben vedere, anche da altri segnali. Ad esempio,
dal bel fascicolo monografico dei Quaderni padani, curato da Carlo
Stagnaro, che è stato dedicato allo studioso lombardo nei primi
mesi di quest'anno.
Ciò che emerge dagli scritti dei diversi autori, molti dei quali
suoi allievi e collaboratori diretti, è ancora una volta
l'immagine di una personalità libera e forte, di un vero
anticonformista; di un uomo profondamente legato alla sua terra ed
alle sue tradizioni, ma con un orizzonte intellettuale tutt'altro
che limitato; di un docente serio e scrupoloso, sicuro di sé ma
sempre pronto a mettersi in discussione, aperto soprattutto al
dialogo con in giovani; di un organizzatore culturale infaticabile
(si pensi alla collana di testi "Arcana Imperii"), animatore di
grandi imprese scientifiche (la Fondazione italiana per la storia
amministrativa, il mitico Gruppo di Milano per lo studio delle
riforme costituzionali, la Fondazione per un'Italia federale).
Dalla lettura dei diversi contributi esce confermato il ritratto
di uno studioso originale e di grande carattere, che non ha mai
avuto paura di percorrere in solitudine strade intellettualmente
impervie e di sfidare i luoghi comuni, che nei suoi scritti
(sempre lungamente meditati) ha disseminato una massa enorme di
suggestioni ed ipotesi di ricerca che meritano ora di essere
sviluppate ed approfondite, se possibile con la stessa libertà che
ha caratterizzato Miglio durante tutta la sua attività di
ricercatore.
Si è parlato molto, negli ultimi mesi, del rapporto tra politica
ed intellettuali. In particolare del rapporto tra cultura e Casa
della Libertà. Miglio, come è noto, è stato per tre legislature
senatore eletto (come indipendente) nel centro-destra, svolgendovi
spesso un ruolo apertamente critico, a tal punto da aver dovuto
scontare più di un'incomprensione e, come nel caso delle sua
esperienza leghista, anche una cocente delusione. In realtà, le
sue provocazioni non erano mai fini a se stesse, non nascevano da
ansia di protagonismo o dalla volontà di prendere partito a favore
di una parte contro un'altra. Erano piuttosto frutto del desiderio
di comprendere la realtà, di sollevare il velo dell'ipocrisia, di
cogliere il lato profondo e spesso oscuro della politica, anche al
prezzo di risultare sgradevole ed inopportuno agli occhi dei suoi
stessi compagni di strada. Proprio questo dovrebbe essere in fondo
un intellettuale (o, nel caso di Miglio, uno studioso) che si
rispetti: un uomo libero, forte solo delle proprie idee.
27 settembre 2002
(da Ideazione 5-2002, settembre-ottobre).
|