| Un secolo di rivoluzioni sconfitte dalla
              storia di Luciano Pellicani
 
 Vi presentiamo l'introduzione al volume di André Ropert, La 
              sconfitta delle rivoluzioni, pubblicato da Ideazione Editrice.
 
 Agli inizi del secolo, Vilfredo Pareto osservava, con la sua 
              tipica sferzante ironia, che i rivoluzionari, pur giudicando tutte 
              le rivoluzioni del passato dei colossali fallimenti, attendevano, 
              armi in pugno, un rivolgimento generale dal quale sarebbe 
              scaturita la "società dei liberi e degli eguali". Una tale 
              aspettativa era così manifestamente illogica da indurre Pareto a 
              scorgere dietro l'apparente razionalità delle ideologie 
              rivoluzionarie il credo quia absurdum su cui era nato e si era 
              sviluppato il cristianesimo e a descrivere i rivoluzionari come 
              dei "veri credenti", assetati di assoluto e fanaticamente convinti 
              di possedere la formula alchimistica grazie alla quale si sarebbe 
              compiuta la rigenerazione dell'umanità. André Ropert non cita 
              Pareto; ciò non di meno, il suo libro può essere letto come 
              un'accurata documentazione della validità delle tesi 
              tachigraficamente enunciate dal grande sociologo italiano. La 
              rivoluzione totale, afferma Ropert sulla scorta della fondamentale 
              ricerca di Norman Cohn sui "fanatici dell'Apocalisse", è l'ultimo 
              avatara della speranza messianica, tutto centrato sull'idea che la 
              libertà, l'uguaglianza, la giustizia e la fraternità regneranno 
              sovrane solo quando gli ordinamenti esistenti saranno stati rasi 
              al suolo e ricostruiti ab imis. Di qui lo straordinario fascino 
              che la mitologia rivoluzionaria, a partire dalla presa della 
              Bastiglia, ha esercitato sugli spiriti. Di qui, altresì, 
              l'inevitabile scacco storico di tutti gli esperimenti 
              rivoluzionari. Essendo la loro meta una realtà di sogno, essi 
              erano condannati a scontrarsi con il principio di realtà.
 
 Il fatto è che non si può cambiare la società per decreto, 
              costringendola ad entrare a viva forza dentro lo stampo 
              dell'utopia chiliastica. Una società è un complesso di 
              istituzioni, di pratiche, di interessi e di valori sviluppatosi, 
              fra conflitti e compromessi di varia natura, di generazione in 
              generazione e regolato dal principio di continuità. 
              L'accelerazione della storia può creare una congiuntura 
              caratterizzata dalla necessità di modificare l'ordinamento 
              politico per adattarlo alle nuove esigenze culturali emerse 
              spontaneamente. E, in effetti, la specificità dell'Occidente, a 
              partire dal Rinascimento, è stata proprio quella che Ropert chiama 
              "aggiustamento cronico": una sorta di riformismo permanente 
              imposto da quella metamorfosi espansiva che va sotto il nome di 
              "processo" di modernizzazione. Quando, però, le élites del potere 
              si rivelano incapaci di rispondere positivamente alle sfide della 
              storia, il compromesso cede il passo allo scontro frontale. Il 
              risultato è che l'arena civile si trasforma in un'arena militare 
              nella quale, inevitabilmente, prevalgono i radicali. Inizia, così, 
              la corsa agli estremi, in fondo alla quale c'è la dittatura del 
              partito vittorioso. E allora si scopre che la rivoluzione, nata in 
              nome della libertà e della giustizia, genera una forma di 
              dispotismo persino peggiore di quella che l'ha preceduta. Ed è, 
              per l'appunto, questo il paradosso della rivoluzione trionfante: 
              che produce esattamente il contrario di ciò che essa proclama 
              essere la sua meta. Il che significa che i Cromwell, i Napoleone e 
              gli Stalin non sono figli illegittimi della rivoluzione. Tutto il 
              contrario: una volta che la logica dello scontro frontale domina 
              la scena politica, il potere dei vincitori non può non essere una 
              sorta di apparato ortopedico imposto alla società fratturata dalla 
              guerra civile. Questo suggerisce la teoria sociologica e questo 
              conferma puntualmente la storia delle rivoluzioni.
 
 In realtà, a Ropert non sfugge il fatto che c'è stata almeno una 
              rivoluzione che non è sfociata nella dittatura: quella americana. 
              Ma fu la Rivoluzione americana un'autentica rivoluzione o non 
              piuttosto una guerra di indipendenza? Essa, in effetti, non fu 
              caratterizzata dalla guerra civile, bensì dalla guerra di una 
              nazione contro un'altra nazione. Il risultato fu che essa, invece 
              di fratturare la società americana, la rese ancor più compatta di 
              quanto già non fosse; il che offrì la chance di istituzionalizzare 
              un complesso di leggi largamente condiviso, grazie al quale la 
              lotta per la conquista del potere poté svolgersi pacificamente nel 
              quadro di un sistema di guarentigie posto a presidio delle libertà 
              e dei diritti dei cittadini. Ben altro fu l'andamento delle 
              rivoluzioni esplose in Inghilterra, in Francia e in Russia. Nate 
              dalla sincera indignazione contro governi tirannici, esse 
              sfociarono nell'asservimento della società civile all'illimitato 
              potere di un'élite che proclamava di incarnare la volontà popolare 
              nello stesso momento in cui calpestava i più elementari diritti 
              dei governati. Giustamente, perciò, Ropert, dopo aver mostrato che 
              l'"impazzimento" delle rivoluzioni è la conseguenza logica della 
              pretesa di materializzare il sogno del Paradiso restaurato, 
              rivaluta la funzione storica di ciò che si è soliti chiamare 
              "reazione termidoriana". La quale, in buona sostanza, altro non è 
              stata, in Inghilterra come in Francia, che una rivolta della 
              società civile contro le pretese dei "fanatici dell'Apocalisse" di 
              rimodellare autocraticamente l'ordine sociale alla luce della loro 
              ideologia palingenetica. Per contro, in Russia non ci fu alcuna 
              reazione termidoriana e, precisamente per questo, la società 
              civile fu triturata dalla macchina totalitaria costruita da Lenin 
              e perfezionata da Stalin.
 
 La conclusione che si evince dall'analisi di Ropert è che, quando, 
              per dirla con il lessico hegeliano, la rivoluzione si sviluppa 
              secondo il suo concetto, l'esito finale non può che essere il 
              soffocamento della libertà poiché questa, per attecchire e 
              svilupparsi, ha bisogno di una cultura politica moderata, 
              orientata al compromesso e al riaggiustamento continuo delle 
              istituzioni: tutte cose incompatibili con la cultura 
              rivoluzionaria, ossessionata dall'idea che sia imperativo tutto 
              distruggere per tutto ricostruire. Un'idea tipicamente 
              millenarista, che non poteva non produrre quello che ha 
              regolarmente prodotto: all'inizio, irrefrenabili entusiasmi ed 
              esaltanti aspettative; alla fine, cumuli di rovine materiali e 
              morali. Sennonché la retorica rivoluzionaria è riuscita, per ben 
              due secoli, a stravolgere la realtà. Ha attribuito alla violenza 
              poteri taumaturgici e ha sentenziato, contro l'evidenza dei fatti, 
              che la politica della tabula rasa fosse la via maestra per 
              avanzare verso la "società dei liberi e degli eguali". Solo quando 
              il sistema sovietico, nato dal più rigoroso e consequenziale 
              esperimento rivoluzionario che sia stato mai compiuto, è 
              collassato, vittima delle sue insanabili contraddizioni interne, 
              il mito del mondo rovesciato ha cessato di tiranneggiare gli 
              spiriti. E allora, finalmente, è emersa una verità che avrebbe 
              dovuto essere chiara sin dal giorno in cui il saggio Montaigne, 
              rivolgendosi a coloro che pensavano di poter ri-fare la società 
              annientando tutte le istituzioni esistenti, così si esprimeva: 
              "Mettersi a rifondare una così gran massa e a cambiare le 
              fondamenta d'un così grande edificio è cosa degna di coloro che 
              per pulire cancellano, che vogliono emendare i difetti particolari 
              per mezzo di una confusione generale e guarire le malattie con la 
              morte. Chiunque si propone soltanto di tagliar via quello che lo 
              fa soffrire, rimane a mezza strada, poiché il bene non succede 
              necessariamente al male; un altro male può succedere ad esso, e 
              peggiore".
 
 13 settembre 2002
 
 André Ropert, La sconfitta delle rivoluzioni, Ideazione Editrice, 
              Roma, 2002, € 22.
 
 
 
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