Il coraggio della libertà
di Alberto Mingardi
Il brano che segue è un estratto dell'introduzione a "Il coraggio
della libertà. Saggi in onore di Sergio Ricossa", a cura di Enrico
Colombatto e Alberto Mingardi.
Dedicare a Sergio Ricossa un volume che raccogliesse contributi di
amici ed estimatori, in occasione del suo settantacinquesimo
compleanno, è stato - quasi - un atto dovuto. Non si tratta però
di un omaggio formale, ossequiosamente confezionato secondo le
regole non scritte dell'accademia: semmai di un'iniziativa
spontanea, genuina. Nata col solo obiettivo di rendere un giusto
tributo a una persona che è stata tanto importante per il
liberalismo, e per i liberali, in Italia. Per molto tempo, dopo la
morte di Luigi Einaudi e la prematura scomparsa di Bruno Leoni,
Ricossa è stato l'unica voce autenticamente liberale (e quindi
anche "liberista") ad alzarsi in questo paese. Egli ha tenuto
accesa la fiaccola del liberalismo in un periodo per molti versi
oscuro, nel quale ben altre erano le idee dominanti e l'élite
culturale ostentava una presuntuosa indifferenza verso un pensiero
sbrigativamente liquidato come l'insostenibile eredità di certi
"economisti settecenteschi".
Nato a Torino il 6 giugno 1927, Sergio Ricossa cresce in una
famiglia dai mezzi modesti, modestissimi. Per mantenersi agli
studi, lavora a tempo pieno durante gli anni dell'Università -
eppure sin da giovanissimo mostra una spiccata propensione
intellettuale: "forse oggi i giovani sono più precoci, ma ai miei
tempi è verso i diciott'anni che si sceglieva la propria
filosofia, la propria visione del mondo. Poi, maturando, c'era chi
la cambiava e chi come me si limitava ad affinarla. Probabilmente
dentro di noi esisteva una predisposizione, che si faceva chiara a
noi stessi con la maieutica di qualche maestro incontrato più o
meno per caso. Fui fortunato, di maestri ne ebbi subito almeno
tre: l'ultimo docente di economia all'istituto tecnico commerciale
(Francesco Palazzi Trivelli), il primo datore di lavoro (Augusto
Bargoni) e l'autore del primo libro non scolastico che lessi
(Arrigo Cajumi)". Altrettanto importante dell'insegnamento di
Palazzi Trivelli, risulta per la formazione di Ricossa la sua
stessa esperienza di vita. Come egli ha scritto in una pagina del
suo diario: "Il proprietario del magazzino di carbone è un
capitalista. Mio padre operaio è un proletario. I due sono
amiconi, niente lotta di classe, per la comune passione della
pesca. L'Internazionale dei pescatori. Vi sono, o Marx, più cose
in cielo e in terra di quante la tua filosofia possa immaginare".
E' di qui, da questo essere cresciuto fra i ranghi della "classe
oppressa" che viene quella radicata diffidenza verso il marxismo,
che in seguito caratterizzerà il pensiero dell'economista
torinese. Si tratta di una sorta di vaccino contro l'invidia di
classe, da una parte, e contro quel medesimo sentimento di colpa
sapientemente inoculato nella borghesia "sfruttatrice",
dall'altra. "Ecco perché non subisco il ricatto del socialismo.
Non ho sensi di colpa verso il proletariato".
Ricossa diventa professore incaricato di politica economica e
finanziaria nel 1961 e nel 1962 l'incarico viene esteso a economia
politica I e II corso. Nel 1963 è "ternato" (assieme a Luigi
Spaventa e Veniero Del Punta) nel concorso per la cattedra di
politica economica e finanziaria nell'Università di Catania.
Preferisce aspettare un anno ed entrare in ruolo direttamente a
Torino. Qui una delle sue prime iniziative sarà il conferimento di
una laurea ad honorem a Jan Tinbergen (nel 1965), testimonianza di
un interesse maiuscolo per una tradizione di pensiero molto
diversa da quella cui approderà poi. Non a caso Ricossa è
all'epoca direttore di "Note econometriche", rivista sin dal nome
orientata ad un'economia dichiaratamente "matematizzata". E'
coordinatore delle ricerche presso il Centro Luigi Einaudi, e
gioca un ruolo importante nella nascita della rivista "Biblioteca
della libertà", oggi diretta da Angelo M. Petroni. E' di quegli
anni anche l'incontro - decisivo - con la Mont Pèlerin Society:
Ricossa viene introdotto a questa "internazionale dei liberali" da
Bruno Leoni e fa in tempo a partecipare al meeting di Torino nel
1961, quello in cui Luigi Einaudi tiene il suo ultimo discorso
prima di morire, di lì a pochi mesi. In quell'occasione, egli fa
parte del drappello di studiosi invitati da Einaudi a Dogliani,
per visitarne la casa e (soprattutto) la maestosa biblioteca (nel
gruppo, tra gli altri, Ludwig von Mises). L'esperienza di Ricossa
nella Mont Pèlerin Society è coronata dal suo ingresso nel Board
of Directors nel 1976 (presidente George Stigler), funzione che
abbandonerà nel 1982 cedendo il posto ad un altro italiano,
Antonio Martino (il quale sarà presidente del prestigioso cenacolo
nel biennio 1988-1990).
La forte antipatia di Ricossa per il "feudo pubblico" risale, ad
ogni modo, ai suoi inizi come studioso: eppure è certo che si
declinava, allora, in modo molto diverso da quanto sarebbe
avvenuto poi. In quel periodo, Ricossa era saldamente inserito
nella tradizione neoclassica: al punto da paragonare la teoria
walrasiana dell'equilibrio generale all'equivalente, nell'universo
economico, di ciò che è la legge di Newton per l'universo fisico.
E se, come ha giustamente notato Enrico Colombatto, la stessa
visione neoclassica rappresenta un approccio ricossianamente "perfettista"
all'economia, è pacifico notare come la ricossiana "filosofia
dell'imperfezione" sia maturata ancor prima che in un serrato
confronto, proprio in una lunga frequentazione con il suo
obiettivo polemico. E' la pubblicazione de "La fine dell'economia"
che segna la definitiva adesione di Ricossa ai principi della
scuola austriaca dell'economia (nella convinzione che "la scuola
austriaca fornisce al liberismo il supporto filosofico più solido
che esso abbia mai avuto") e il distacco dalla concezione
neoclassica "perfettista". Si può sostenere che con questo libro
Ricossa completi il suo tragitto anticonformista ed eccentrico
rispetto al mainstream dell'economia: un'antipatia dichiarata
perlomeno da "I fuochisti della vaporiera", pamphlet polemicamente
indirizzato agli "economisti del consenso", che seguono le "mode
economiche".
Già in quell'occasione, egli si scagliava contro "gli apostoli
della socialità", i quali "hanno talmente stancato con la loro
querula e ipocrita predicazione, o peggio con la loro sovversione
violenta, che il meno che si dovrebbe fare sarebbe di dire con
l'abate Galiani: "Tous plaident pour le Daily grand bien du
prochain. Pest soit du prochain. Il n'y a pas de prochain. Dites
ce qu'il vous faut; ou taisez-vous". Ma bisogna pazientare, e non
rassegnarsi. Concedere il minimo inevitabile al secolo "sociale".
Non concedere nulla, però, all'eurocomunismo, ultima e più
incalzante pescagione nel mare popolare. Tante mode sono passate;
chissà che non passi presto anche questa. Più pericolosa, eppur
curabile con l'unico e medesimo specifico per tutte le mode
passate, presenti e future: pensare con la propria testa".
Pensando con la propria testa, il professore torinese scrisse "La
fine dell'economia - che riprende ed amplifica quest'appello:
unendo la critica della socialità coatta al dileggio del "perfettismo".
Per "perfettismo", Ricossa intende "ogni dottrina che predichi un
regno mondano di perfezione, senza il dominio dell'economico"- un
movimento di pensiero che a conti fatti "domina nella nostra
cultura e costituisce una tradizione ininterrotta da Platone a
Keynes".
Tuttavia, i limiti del perfettismo emergono immediatamente in un
rapido confronto con la realtà: "l'universo creato ha bisogno di
una spiegazione e giustificazione perché è già di per sé una
caduta nell'imperfetto. Infatti, se creato e mutevole, esso
implica il tempo e il cambiamento". Ecco perché anche
"l'equilibrio nel senso di Walras, un equilibrio generale di piena
occupazione, che si addice a un inesistente mercato di concorrenza
'perfetta', ma non alla realtà capitalistica" rientra nella
categoria del perfettismo. Caratteristica del perfettismo è negare
la natura delle cose, la sua è una lotta contro il reale: esso è
"contro l'economia", "contro il lavoro", "contro il denaro",
"contro la proprietà", "contro il commercio", "contro la
borghesia" (come recitano i titoli dei primi sei capitoli del
libro di Ricossa). Il perfettismo è socialista se, come ha
sottolineato Maffeo Pantaleoni, "gran parte del favore che il
socialismo trova è dovuta alla speranza che riesca a creare
condizioni più stabili, a burocratizzare la vita, ad assicurare
pensioni, a eliminare la rivoluzione perpetua che la concorrenza
produce in ogni situazione". Non a caso i socialisti, scrive
Ricossa, sognano "un mondo non troppo turbato dalle pazzie degli
inventori e dei tecnici".
Per Ricossa, il soggetto dell'economia è l'uomo e l'uomo non è un
ente le cui azioni obbediscano inevitabilmente ai pretesi
equivalenti economici della legge di gravità. Questa prospettiva
potrebbe essere giudicata sbrigativamente come una visione
pessimistica dell'uomo (incapace di prevedere il proprio domani)
ed invece, esattamente all'opposto, è una visione esaltante
dell'esperienza umana. L'economia imperfettistica non è una
laicizzazione dell'idea di "piano della Provvidenza" ed anzi
riconosce l'uomo come faber fortunae suae, nei limiti impostigli
dall'esistenza dei suoi simili. Proprio per questo, l'avversario
teorico per antonomasia degli imperfettisti è John Maynard Keynes.
"L'obiettivo fondamentale di Keynes", infatti, è "liberare gli
uomini dalle necessità economiche (...) Non dobbiamo perdere di
vista il Keynes che si ispira al Vangelo di Matteo (VI, 24-34),
per proporre a modello gli uccelli dell'aria e i gigli dei campi,
i quali sono sfamati vestiti meglio di Salomone senza aver bisogno
di lavorare, posseder moneta, produrre, investire. 'Nella
repubblica ideale agli uomini sarebbe insegnato, ispirato e
consigliato di non interessarsi affatto alle poste del gioco'
(Teoria generale, libro sesto, cap. XXIV, par. I), ossia di non
badare al profitto, di non essere avidi".
Il perfettismo di Keynes ha secondo Ricossa un "forte carattere
messianico e millenaristico". L'economista di Cambridge "non
mirava a risanare la congiuntura, mirava a instaurare un mondo
nuovo per una nuova umanità, mediante la fine dell'economia, la
fine delle scarsità, o quanto meno la fine della scarsità del
capitale". "La strada che conduce all'antico sogno di un mondo
senza egoismi, senza sfruttamenti, senza cupidità, passava per
Keynes attraverso la 'socializzazione' dell'investimento e la fine
della scarsità di capitale. Ma perché davvero si potesse sperare,
per un futuro prossimo, nella sovrabbondanza di capitale,
occorreva qualcosa di più di semplici interventi pubblici di
sostegno della domanda effettiva. Occorreva una economia resa
'quasi stazionaria' da un assai ridotto ritmo di innovazioni
tecnologiche e merceologiche. Se per contro queste innovazioni
fossero continuate frequentissime e ampie, mai il capitale sarebbe
bastato, la sua scarsità si sarebbe perpetuata, e l'interesse e il
profitto avrebbero mantenuto un gran peso fra i redditi".
Viceversa, "il liberismo genuino non ha mai inteso promettere il
mercato in equilibrio: al contrario, gli ripugna la condizione di
stabilità implicita nell'equilibrio economico, perché la trova
innaturale, senza vita, senza libertà. La libertà cara al
liberismo è innanzi tutto libertà di innovare, e questo basta per
sconvolgere il mercato, la cui funzione è precisamente quella di
assicurare in tal modo il progresso tecnologico e merceologico,
nonché quello organizzativo. Il liberismo è favorevole al mercato
di concorrenza proprio perché intende il mercato come un sistema
per squilibrare di continuo l'economia, mediante proposte di nuovi
processi produttivi, nuovi prodotti e nuovi istituti economici".
L'imperfettismo, oltre che economico, è politico. Vi sono qui
alcuni elementi da sottolineare: il primo è che l'anti-perfettismo
è, in prima battuta, realismo. Si tratta di un fattore molto
importante: un liberalismo che voglia avere solide basi (come pure
una teoria economica che voglia avere solide basi) deve partire da
una antropologia realista. Come ha scritto Pascal Salin, "il
liberalismo è 'vero', nel senso che è fondato su una concezione
realistica dell'uomo e delle relazioni sociali".
In secondo luogo, va rimarcato il fatto che a partire da questa
antropologia realista non può seguire una qualsiasi forma di
fiducia nei confronti dello Stato. Dalla constatazione che non
tutti gli uomini sono buoni (e che viceversa tutti gli uomini sono
esposti e sensibili alla tentazione), viene il corollario che, di
conseguenza, nessuno ci garantisce che coloro i quali si occupino
della "cosa pubblica" siano più buoni, o più saggi, degli altri.
"Il governo nel fatto è composto di persone che, essendo tutti
uomini, sono tutti fallibili" (Rosmini). "L'uomo politico non è di
razza superiore, più lungimirante e meno fallibile dell'uomo
comune" (Ricossa). Viceversa, sappiamo ormai che gli Stati moderni
sviluppano un intricato sistema di incentivi che giunge ad
indirizzare semmai personaggi di dubbia morale e nessuna qualità
verso il settore pubblico; che la possibilità di controllare il
proprio prossimo finisce per attrarre i personaggi più ambigui;
che la stessa natura del sistema democratico impone a coloro che
vi partecipano di sviluppare i propri peggiori istinti.
Un perfettista pensa all'opposto: confida nella saggezza dei
governi e legge nel diritto una creazione delle maggioranze. E' lo
Stato l'istituzione preposta ad imporre la perfezione ad un mondo
imperfetto. La priorità dell'imperfettismo è la tutela e la
salvaguardia della persona, che è fondamento di ogni analisi
economica da un lato (l'imperfettismo è alla base
dell'individualismo metodologico), ed al tempo è termine di
paragone di ogni politica. Per questo, ogni ideale politico perde
la propria legittimità nel momento in cui esso utilizza una forma
di violenza, di coercizione, per affermarsi. Il fatto che esso si
sia affermato attraverso una votazione a maggioranza è di scarsa
importanza per l'imperfettista.
Ricossa lo spiega molto bene trattando il tema dell'antisocialismo
di Maffeo Pantaleoni, che è "in negativo ciò che l'individualismo
è in positivo. E l'individualismo è offeso quando il cittadino è
trattato e sopporta di essere trattato da incurable imbécile ad
opera dei governanti. Il che avviene, per Pantaleoni, nella
democrazia in grado più o meno alto, e in grado massimo nella
democrazia totale, che per lui è il regime socialistico o, come
ama dire talvolta, il 'bolscevichismo'. Non solo Pareto, ma anche
Einaudi e ogni liberale fino a von Hayek e Popper hanno criticato
la democrazia, il mito della sovranità popolare, sebbene con
sfumature diverse". E' dunque l'iniziazione dell'uso della forza,
indipendentemente dal suo essere ammantata o meno di una
legittimazione "democratica", il punto critico. Attraverso la
democrazia si possono imporre leggi ingiuste: tant'è che nella
situazione contemporanea, in regime di welfare state, "non c'è più
la giustizia, c'è la non giustizia, c'è la mera volontà politica
di togliere agli individui la libertà, i diritti naturali, per
fornire ogni potere allo Stato". Come ha acutamente osservato
Anthony de Jasay, "le decisioni (collettive) cui si perviene
democraticamente risultano nel dominio sulle opzioni individuali e
nell'espansione del potere della scelta collettiva, non
diversamente dalla 'volontà arbitraria' di una dittatura".
Anzi: "Mai la repressione politica è stata più pericolosa di
quella camuffata, 'buonista', e pseudo-democratica: di quella che
avviene sotto il manto del bene comune, dello Stato sociale, della
difesa dei deboli". Questo genere di considerazioni stona rispetto
alle coordinate di certo liberalismo contemporaneo, che si erge a
paladino non solo della democrazia, ma anche di una sostanziale
"democratizzazione" dell'economico (una trasformazione coatta,
cioè, del dinamico in statico, del disuguale in eguale, del
privato in statale). Di qui un problema terminologico che Ricossa
affronta sin dal 1977, nella prefazione alla fortunata raccolta di
saggi di Hayek, Scambio e democrazia: "Liberali o libertari? La
parola 'liberale' si è fatta equivoca per il troppo successo.
Tutti si dicono liberali: anche i cattolici, i socialisti, i
comunisti, o almeno gli eurocomunisti. Si definiscono liberali
progressisti, liberals alla americana, e si contrappongono ai
liberali conservatori (...) Nessuno vuole ammettere di rifiutare
quel bene primario, che è la libertà, e a essa si paga volentieri
un omaggio verbale. Per accrescere la confusione, esistono dei
partiti liberali con oscillanti intenzioni politiche. Chi intende
identificare nettamente il gruppo di Hayek, accantoni il vocabolo
'liberale'. 'Libertario' va meglio".
Al professore torinese poco importa dell'accusa, sovente rivolta
all'anarchismo individualista, di essere "impraticabile" e niente
affatto pragmatico. Tale accusa non scalfisce l'anarchico, perché,
scrive Ricossa delineando la posizione dei libertari, "noi non
siamo al governo e mai ci saremo. Siamo contro il potere politico,
ogni potere politico. Non abbiamo un governo-ombra, non abbiamo un
programma di governo alternativo. Noi abbaiamo contro ogni
governo". Ricossa non è nemmeno tentato dalla possibilità di fare
uso di mezzi politici per raggiungere i propri fini. "A noi
(libertari) basta salvarci l'anima, essere schierati per la
libertà a oltranza, avere indicato inequivocabilmente i nemici
eterni della libertà. Noi non chiediamo altro che ciò che è già
nostro ab origine: essere noi responsabili della nostra vita,
disporre noi dei frutti del nostro lavoro, consociarci come
vogliamo e di comune accordo col nostro prossimo". Quanto allo
Stato, nelle parole di Pascal Salin "lo Stato non può avere un
ruolo legittimo, in quanto, molto semplicemente, lo Stato si
definisce come il manipolatore della costrizione organizzata e la
costrizione è ai nostri occhi illegittima".
Inoltre, ha sicuramente ragione Hans-Hermann Hoppe quando
evidenzia come, "una volta che la premessa del governo è stata
accettata, i liberali sono rimasti senza argomenti quando i
socialisti hanno sviluppato questa premessa fino al suo logico
fine. Se il monopolio è giusto, allora anche una maggiore
tassazione è giusta, e quindi giustificata, se la tassazione è
giusta, allora la centralizzazione è giusta. E se l'uguaglianza
democratica è giusta, allora espropriare diritti personali di
proprietà è cosa giusta (mentre non è giusta la proprietà
privata)". Insomma, l'adesione, quand'anche parziale, al paradigma
dello Stato scivola nell'accettazione di ogni proposta volta ad
ampliarne la sfera. Stabilire una chiara linea di demarcazione che
divida Stato minimo (liberale) e Stato massimo (illiberale)
diventa impossibile, nel momento in cui le premesse dello Stato
minimo collassano: anche uno Stato volto alla mera tutela dei
diritti di proprietà, per funzionare da "agenzia di protezione" ha
bisogno di risorse. Uno Stato è Stato (e non semplicemente
un'impresa privata) proprio perché ottiene le risorse di cui
dispone attraverso la tassazione - cioè infrangendo quei diritti
di proprietà che dovrebbe proteggere, derubando quegli individui
che dovrebbe preservare dal furto. Non solo: anche ammettendo che
vi sia un "minimo" di tassazione che i cittadini sarebbero
disposti ad accettare volontariamente (all'unanimità), è perlomeno
irrealistico pensare che i politici (per i quali aumentare la
sfera d'influenza dello Stato significa aumentare la propria sfera
d'influenza) non cederebbero alla tentazione di far lievitare il
proprio potere. Lo Stato minimo, e dunque lo stesso liberalismo
classico, si rivelano utopici e perfettisti: convinti, in
particolar modo, che ai politici dello Stato minimo (e chissà
perché non anche ai politici dello Stato massimo) "spuntino le ali
da angelo". Convinti della perfezione dei propri strumenti di
ingegneria costituzionale per contenere il potere (a dispetto
dell'evidenza storica).
Sergio Ricossa è un uomo che, alle soglie dei settant'anni, ha
avuto il coraggio di rimettersi in gioco, di abbandonare posizioni
consolidate, per abbracciare la teoria libertaria. A inizio
secolo, l'economista Irving Fisher aveva ricordato la singolare
profezia del suo antico maestro, William Graham Sumner: "arriverà
un tempo in cui vi saranno due grandi classi, i socialisti e gli
anarchici. Gli anarchici vogliono che il governo sia nulla, ed i
socialisti vogliono che il governo sia tutto. Bene, arriverà un
tempo in cui ci saranno soltanto questi due grandi partiti, gli
anarchici che rappresenteranno la dottrina del laissez faire, e i
socialisti che incarneranno la visione estremista sull'altro lato
della barricata". Sumner puntualizzava poi che "allora io sono un
anarchico", e questo aneddoto si ritaglia alla perfezione addosso
a Sergio Ricossa. Che, vivendo in quello scorcio di storia che ha
visto assieme il trionfo dello Stato e la sua crisi, l'epoca in
cui "la democrazia celebra il culto dell'umanità su una piramide
di crani" (Gómez Dávila), non può non avvertire come un
insostenibile compromesso una dottrina che tenti di coniugare
liberalismo e statualità, annullando nella seconda il primo. La
vera contrapposizione, se pure visibile solo in controluce, è
quella enunciata da Sumner: da una parte, quanti ammettono la
legittimità dello Stato (e dunque si scoprono, come ricordato da
Hoppe, incapaci di opporsi alla sua espansione) e dall'altra
coloro che invece la negano. L'ultimo Ricossa rientra
orgogliosamente nella seconda categoria.
13 settembre 2002
Il coraggio della libertà. Saggi in onore di Sergio Ricossa, a
cura di Enrico Colombatto e Alberto Mingardi, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2002, pp. 578, € 30.
amingardi@email.it
Per una panoramica sul pensiero di Sergio Ricossa:
1966
S. Ricossa, "L'economista ispirato", presentazione di L. Lenti,
Torino, Edizioni dell'Albero.
1977
S. Ricossa, "Prefazione a Hayek, Scambio e democrazia", Milano,
Edizioni dello Scorpione.
1980
S. Ricossa, "Straborghese", Milano, Editoriale Nuova.
1986
S. Ricossa, "La fine dell'economia. Saggio sulla perfezione",
Milano, SugarCo.
1988
S. Ricossa, "Concentrazione economica, legislazione antimonopolio,
trasparenza dell'informazione", Milano, Giuffré .
1991
S. Ricossa, "Cento trame di classici dell'economia", Milano,
Rizzoli.
1991
S. Ricossa, voce "Capitalismo" in Enciclopedia delle scienze
sociali vol. I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana.
1993
S. Ricossa, "I pericoli della solidarietà. Epistole sul dosaggio
di una virtù", Milano, Rizzoli.
1994
S. Ricossa, "Impariamo l'economia", Milano, Biblioteca Universale
Rizzoli.
1994
S. Ricossa, Introduzione a Bastiat e De Molinari, Contro lo
statalismo, a cura di C. Lottieri, Macerata, Liberilibri.
1995
S. Ricossa, "Come si manda in rovina un Paese. Cinquant'anni di
malaeconomia", Milano, Rizzoli.
1996
S. Ricossa, "Maledetti economisti. Le idiozie di una scienza
inesistente", Milano, Rizzoli.
1997
S. Ricossa, "Dov'è la scienza nell'economia?", Roma: Di Renzo
Editore.
1998
S. Ricossa, "Dizionario di economia. Terza edizione aggiornata e
ampliata", Torino: Utet.
1998
S. Ricossa, "Elogio della cattiveria", Torino, Cidas.
1999
S. Ricossa, "Da liberale a libertario. Cronache di una
conversione", a cura di A. Mingardi, Treviglio: Leonardo Facco
Editore.
1999
S. Ricossa, "Scrivi che ti passa", con prefazione di I. Montanelli,
Torino: Fògola.
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