Liberalismo e politica estera
di Hans J. Morgenthau

Qual è la concezione liberale degli affari esteri? Con quali strumenti il liberalismo tenta di controllare le relazioni internazionali? Qual è l'essenza della politica estera liberale? Tucidide, Machiavelli, Richelieu, Hamilton o Disraeli concepivano la politica internazionale come un'eterna lotta per la sopravvivenza e per la conquista del potere. Vero è che, anche prima della comparsa sulla scena del pensiero internazionale moderno, tale visione venne costantemente messa sotto accusa: dai Padri della Chiesa fino agli scrittori antimachiavelliani settecenteschi, la politica internazionale fu fatta oggetto di una dura condanna etica. Il pensiero internazionale moderno, tuttavia, si spinge ancora oltre: non soltanto esso contesta la natura morale del potere politico, che si rivela inesistente di fronte ai valori razionali di verità e giustizia, ma nega, se non l'esistenza stessa della politica della forza, perlomeno il suo legame organico e imprescindibile con la vita dell'uomo nella società. Francis Bacon fu il solo a profetizzare che il dominio dell'uomo sulla natura avrebbe sostituito l'imperio dell'uomo sull'uomo: per il pensiero internazionale preminente dell'Ottocento, quella profezia si era avverata. "Le nazioni" sosteneva Bentham, "sono colleghe e non concorrenti nella grande impresa sociale". Una simile concezione degli affari internazionali trovò nella filosofia di Herbert Spencer il suo sviluppo sistematico e nella politica estera di Wilson la sua realizzazione più coerente e diretta.

Le relazioni tra Stati non differiscono in modo sostanziale da quelle tra persone, ma anzi le ricalcano su scala più ampia. "Il rapporto tra comunità" dichiarò Cobden in un discorso pronunciato nel giugno del 1849, "non è altro che il rapporto tra un insieme di individui". E poiché le relazioni tra persone sono essenzialmente pacifiche, disciplinate e razionali, non vi è ragione per cui non lo siano anche quelle tra nazioni. Le relazioni tra persone dovrebbero dunque servire da modello a quelle internazionali, le quali andrebbero assimilate alle prime fino all'annullamento di ogni diversità. "Siamo all'inizio di un'era - affermò Wilson nel messaggio al Congresso il 2 aprile 1917 - in cui si insisterà affinché i criteri di comportamento e di responsabilità per le violazioni della legge siano osservati tanto dalle nazioni e dai loro governi quanto dai singoli cittadini degli Stati civili". Finché i residui del feudalesimo faranno della politica estera il loro terreno di gioco, la politica interna peserà più delle questioni internazionali e in particolare le risorse finanziarie di un paese saranno destinate a favorire la prima piuttosto che a incentivare le seconde.

L'opposizione dei liberali britannici, guidati da Cobden e Bright, alla visione palmerstoniana della politica estera e l'avversione del liberalismo britannico in genere nei confronti di qualsiasi politica coloniale attiva, i conflitti - almeno prima del 1866 - tra liberalismo tedesco e Bismarck e la tradizionale riluttanza di tutti i partiti liberali a votare in favore di spese militari, sono altrettanti elementi che affondano le proprie radici intellettuali in un'analoga predilezione per le politiche nazionali e in un conseguente disinteresse nei riguardi degli affari esteri. L'enfasi sulle politiche nazionali a discapito delle questioni internazionali deriva da un'antica e, dal punto di vista di queste ultime, sterile tradizione. Affermando che la questione del potere fosse irrilevante per la valutazione dello Stato, Platone invocava l'apragmosyne, cioè l'inerzia negli affari esteri e la totale rinuncia alla politica estera. "Ciò che più conta per il cittadino" dichiarava Rousseau, "è il rispetto delle leggi nazionali, della proprietà privata e della sicurezza personale. Purché questi tre punti siano garantiti, le autorità avranno libertà di negoziare e di trattare con le potenze straniere: non è da tale direzione che provengono i rischi maggiori". La dichiarazione di Léon Blum del 1932 secondo cui "quanto maggiore è il pericolo nel mondo, tanto più indispensabile è la rinuncia alle armi", come pure il no al riarmo ribadito ancora nel 1938 dal partito laburista britannico, si inseriscono nel solco della medesima tradizione politica e intellettuale.

Una politica estera senza politica

Nell'approccio pratico alle questioni internazionali non meno che nei tentativi teorici di comprendere la natura degli affari esteri, questa scuola di pensiero procede come se l'elemento politico non esistesse o fosse, nel migliore dei casi, un attributo accidentale destinato a scomparire in un futuro prossimo. "La politica, vede, non mi interessa" scriveva il futuro statista Wilhelm von Humboldt a Goethe da Parigi nel 1798. "Alle prossime elezioni" dichiarò Cobden, "i potenziali rappresentanti di elettorati liberi si troveranno forse a dover affrontare la prova del 'no alla politica estera'". Riferisce Paul S. Reinsch che "quando il Portogallo diventò una repubblica, fu avanzata la proposta di abolire tutte le cariche diplomatiche per far amministrare gli affari internazionali da consoli. Ciò avrebbe escluso la politica dalle relazioni estere". Ai nostri giorni, l'opposizione a una politica estera attiva è giustificata dall'urgenza dei problemi interni.

Il liberalismo fu spinto a un tale atteggiamento dalla pratica in ambito nazionale. Giunto a identificare l'ideale di supremazia sull'uomo - l'essenza stessa della politica - con la particolare espressione che questa brama di potere aveva assunto nella sua esperienza storica, ovvero l'egemonia dei nobili sulle classi medie, il liberalismo fece coincidere l'opposizione alla politica aristocratica con l'ostilità a qualsiasi tipo di politica. Dall'altra parte, le classi medie svilupparono un sistema di egemonia indiretta che sostituì al metodo militare della violenza aperta le invisibili catene della dipendenza economica, nascondendo l'esistenza stessa dei rapporti di potere dietro una rete di norme giuridiche all'apparenza egualitarie. Incapace di discernere la natura politica di questi rapporti intellettualizzati, a prima vista radicalmente diversi da ciò che, fino ad allora, era andato sotto il nome di politica, il liberalismo accomunò dunque la manifestazione aristocratica, palese e violenta, della politica stessa alla politica tout court.

La lotta per il potere, negli affari interni come in quelli esteri, era insomma un semplice incidente storico legato alle sorti del governo assoluto e destinato a svanire con esso. I tentativi condotti sul piano nazionale di ridurre le funzioni politiche a funzioni tecniche e i modi nei quali i primi esponenti del liberalismo e molti liberali moderni concepirono e attuarono la politica internazionale di non intervento, furono solo due diverse espressioni della medesima aspirazione: limitare al minimo la sfera politica tradizionalmente intesa sino a farla scomparire del tutto. Se la politica estera del non intervento fu la trasposizione del principio liberista del laissez faire sul piano internazionale, l'ottimistica fiducia nel potere armonizzante del "corso degli eventi", nello "sviluppo naturale" e nelle "leggi della natura" servì da giustificazione all'inerzia sia interna che internazionale.

Il liberalismo pacifista

Da una simile visione generale della politica internazionale discende che il liberalismo è fondamentalmente pacifista e ostile alla guerra, ritenuta la manifestazione evidente e più diretta della brama di potere in campo internazionale. La guerra è sempre stata considerata un flagello, ma nel contesto della filosofia politica del liberalismo tale avversione si arricchisce di una connotazione nuova. Nell'antichità e durante il Medioevo la guerra era ritenuta un male che, con l'ineluttabilità di una catastrofe naturale, distruggeva beni materiali e annientava vite umane. Il liberalismo non si limita a condannare la guerra come oltraggio morale aborrendone il macabro spettacolo, ma la considera un'attività irrazionale e insensata, uno svago per aristocratici o un retaggio totalitaristico che non trova posto in un mondo razionale. La guerra fa parte del passato. Secondo Herbert Spencer, essa appartiene all'era del militarismo e diverrà senz'altro obsoleta con la civiltà industriale "in cui l'uomo può saziare la propria avidità con l'investimento produttivo di capitale". La guerra, insomma, è "morta" e "impossibile". La guerra non risolve i problemi. La guerra non paga, è un investimento improduttivo e, come riconobbe già nel Seicento Eméric Crucé, "non dà frutti". Nessuno ha mai vinto una guerra. La guerra è "la grande illusione". Come scrisse Benjamin Franklin a Josiah Quincy il 17 settembre 1773, "non è mai esistita una guerra buona né una pace cattiva". Persino l'osservazione di Wellington, secondo cui "non vi è nulla di peggio che vincere una guerra a parte perderla", contiene un elemento di pacifismo razionalista.

[…] In una società razionale non c'è posto per la violenza. Per questa ragione una delle preoccupazioni fondamentali - tanto pratiche quanto mentali - delle classi medie consiste nell'evitare interferenze esterne, soprattutto se violente, con i delicati meccanismi del sistema economico e sociale, simbolo della razionalità del mondo in senso lato. Elevando tale preoccupazione a postulato politico e filosofico assoluto, il liberalismo non tenne conto della singolarità e dell'eccezionalità dell'esperienza da cui esso fu originato: in politica interna come in politica estera, l'assenza di violenza organizzata per lunghi periodi storici costituisce infatti l'eccezione e non la regola. Inoltre il liberalismo non corre rischi quando contrasta la violenza sul piano nazionale poiché qui, in misura rilevante, ha sostituito al dominio ottenuto per mezzo della forza un sistema di dominio indiretto che trae origine dalle particolari esigenze delle classi medie e pone queste ultime in posizione di vantaggio nella lotta per il potere politico. La politica internazionale, dal canto suo, non ha mai superato lo stadio "preliberale". Anche laddove rapporti giuridici mascherano rapporti di forza, il potere va interpretato in termini di violenza, reale e potenziale, e la violenza potenziale tende sempre a trasformarsi in conflitto reale. La distinzione tra guerra e pace non riguarda la sostanza ma il grado e non implica una preferenza esclusiva, bensì scelte alternative tra diversi strumenti per la conquista del potere. Il passaggio verso una netta distinzione tra guerra e pace internazionale, che nell'Ottocento e nel primo Novecento parve mettere sullo stesso piano la situazione interna e quella internazionale, era di natura tecnica e superficiale; esso corrispondeva a un mutamento nei metodi bellici e nella politica internazionale in genere e non intaccava la minaccia, mai venuta meno, di violenza reale, che nella sfera internazionale è connaturata a ciò che viene definito stato di pace.

Ignari della sostanziale diversità tra politica interna ed estera in epoca liberale, i liberali scambiarono la sempre più delineata distinzione tra guerra e pace per un generale progresso verso la seconda e un allontanamento dalla prima. Tratti in inganno dall'apparente affinità tra pace interna e pace internazionale e indotti a spostare l'esperienza nazionale sul piano internazionale, essi assimilarono la differenza tra guerra e pace a quella tra violenza assolutista e razionalità liberale. Il liberalismo separò dunque dal loro substrato politico le tecniche specifiche che aveva sviluppato come strumenti di dominio nazionale - garanzie legali, apparato giudiziario, transazioni economiche - e le trasferì sul piano internazionale come entità autonome, prive della loro originale funzione politica. Charles H. McIlwain ha dichiarato che la dottrina del laissez faire fu "senz'altro una delle fantasie più stravaganti che abbiano mai screditato la ragione umana". La sua applicazione agli affari internazionali ebbe esiti catastrofici. Giunti a considerare la violenza come il male assoluto e impossibilitati dai loro stessi principi morali a farne uso quando le regole del gioco lo rendevano necessario, i liberali combatterono le proprie battaglie internazionali con le stesse armi utilizzate con successo contro il nemico interno. Sradicate dal loro contesto politico e trasferite nell'arena internazionale dove la violenza regna sovrana, quelle armi divennero spade di legno, balocchi che davano a politici bambini l'illusione di difendersi.

La condanna liberale della guerra, tuttavia, è assoluta soltanto sul piano etico e filosofico e in relazione all'obiettivo politico ultimo. Nell'applicazione politica immediata, essa risulta valida solo per quei conflitti che vanno contro o sono irrilevanti ai fini liberali. Le guerre aristocratiche e totalitarie, dunque, sono necessariamente da biasimare. Ma quando l'uso delle armi è finalizzato a estendere i vantaggi del liberalismo a quei popoli che ancora non ne usufruiscono ovvero a proteggere questi ultimi da aggressioni tiranniche, il fine può giustificare i mezzi altrimenti condannati. Le guerre per l'unificazione nazionale e quelle contro i governi dispotici sono quindi legittime. La loro legittimità deriva direttamente dalle premesse razionaliste della filosofia politica liberale. Perché le due principali manifestazioni di irrazionalità, trascinate dal feudalesimo nell'era liberale, vengono eliminate quando popoli appartenenti alla stessa nazione si liberano dalla dominazione straniera e ai governi dispotici si sostituiscono governi democratici.

"Nessuna pace può, o dovrebbe, durare" dichiarò Wilson nel messaggio al Senato pronunciato il 22 gennaio 1917, "se non riconosce e accetta il principio che i governi traggono i loro legittimi poteri dal consenso dei governati, e che nessuno ha il diritto di trasferire i popoli da un potentato all'altro come fossero una proprietà". Richiamandosi ai "principi che sanciscono il diritto all'autodeterminazione di tutte le nazioni sulla base democratica di elezioni libere e non vincolate", il New York Times del 7 giugno 1946 affermava: "Se tali principi venissero applicati in Europa orientale come è avvenuto in Occidente e le questioni legate alle frontiere fossero risolte attraverso la libera scelta dei popoli coinvolti, molti dei problemi che oggi ostacolano la pace si dissolverebbero". Quando tutte le nazioni saranno unite sotto il proprio governo e tutti i governi saranno soggetti al controllo democratico, la guerra avrà perduto la sua giustificazione razionale e verrà vanificata dal predominio della ragione, che impedirà in campo internazionale quei conflitti sostanziali la cui soluzione richiederebbe una guerra e fornirà gli strumenti attraverso i quali risolvere pacificamente le lotte ancora in corso. La guerra per giungere all'unificazione nazionale e "preparare il mondo alla democrazia" sarà allora, come Wilson dichiarò nel messaggio al Congresso l'8 gennaio 1918, "la guerra cruciale e conclusiva per la libertà dell'uomo", l'"ultima guerra", la "guerra che porrà fine alla guerra".

Alla luce di questa analisi, gli slogan wilsoniani si rivelano, più che un abile strumento propagandistico, l'espressione di una speranza escatologica profondamente radicata nelle fondamenta della politica estera liberale. Questa stessa speranza escatologica, basata sul medesimo processo intellettuale, permea il concetto marxista di guerra rivoluzionaria che sopprimerà una volta per tutte il conflitto di classe e la lotta internazionale che da esso deriva. Quando il marxismo dimostra che il trionfo universale del socialismo è uno dei presupposti per giungere a una pace duratura, esso non fa altro che applicare le categorie liberali alla politica internazionale. Se in linea di principio, infatti, il socialismo si oppone alla guerra in quanto tale, nella pratica politica tale opposizione risulta valida e viene messa in atto solo nei riguardi delle guerre imperialiste del capitalismo. La guerra socialista contro il capitalismo, al contrario, è giustificata. Poiché quest'ultimo si è sostituito al governo aristocratico come fonte di tutti i mali, la sua distruzione universale rappresenta la neutralizzazione del male stesso.

Mentre il liberalismo subordina la scomparsa della guerra all'uniformità dei governi secondo il modello di nazionalismo democratico, il marxismo collega la stessa speranza all'accettazione universale del modello socialista. "Lo sfruttamento di una nazione da parte di un'altra" proclama il Manifesto comunista, "avrà fine quando verrà abolito lo sfruttamento di un individuo da parte di un altro. Insieme all'antagonismo tra le classi all'interno delle nazioni scomparirà anche l'ostilità tra nazioni". L'idea stessa di rivoluzione mondiale come scontro finale volto a porre fine a tutti i conflitti - nazionali e internazionali - è, nella sua astrattezza astorica, il perfetto corrispettivo delle guerre e delle rivoluzioni nazionali e democratiche, il cui esito positivo condurrà a una pace duratura.

L'ideologia contro la politica

La riluttanza a ingaggiare guerra per scopi diversi da quelli previsti dal liberalismo non soltanto rivela quanto fosse selettivo il pacifismo praticato nel periodo eroico, ma indica inoltre il particolare approccio intellettuale nei confronti della realtà politica che contraddistingue il liberalismo in tutte le sue fasi storiche. Tale approccio discende direttamente dall'erronea visione liberale degli affari esteri come fatto essenzialmente razionale in cui la politica svolge il ruolo di una malattia da curare attraverso la ragione. Per questo motivo, il liberalismo può sposare solo obiettivi internazionali giustificabili alla luce della ragione. Poiché la visione razionalista della politica estera non corrisponde tuttavia alla realtà politica, in cui il potere lotta contro il potere per la sopravvivenza e la supremazia, l'approccio liberale alle questioni internazionali è necessariamente di natura ideologica. Il liberalismo esprime i propri obiettivi in campo internazionale non in termini di politica della forza, cioè sulla base della realtà internazionale, ma in accordo con le premesse razionaliste della propria errata visione. Il programma liberale negli affari internazionali risponde a un'ideologia razionalista della politica estera.

"Ciò che obietto al liberalismo" dichiarò Disraeli, "è di aver introdotto nell'attività più pratica che ci sia - la politica - idee filosofiche piuttosto che principi politici". Obiettivi astratti soppiantano questioni concrete, criteri di verità eterna prendono il posto di considerazioni politiche. Durante la crisi etiopica, gli italiani combatterono per instaurare il nuovo impero romano e gli inglesi invocarono l'articolo 16 dello statuto della Società delle Nazioni. Nel corso della prima guerra mondiale, i tedeschi lottarono per garantire alla Germania "un posto al sole" e gli alleati si batterono per la democrazia, l'autodeterminazione dei popoli e una pace duratura. La Germania e il Giappone scatenarono la seconda guerra mondiale per dominare il mondo, mentre i loro rivali democratici imbracciarono le armi per instaurare un nuovo ordine sociale e una federazione di democrazie e garantire "in tutto il mondo" le quattro libertà. Mentre l'Asse combatteva guerre imperialistiche, i liberali si opponevano a qualunque aggressione, indipendentemente da dove, da chi e contro chi fosse lanciata. La nostra preoccupazione per la sorte della democrazia nei Balcani alla fine della seconda guerra mondiale è un altro esempio della tendenza liberale a lottare per slogan astratti piuttosto che per interessi politici.

La differenza tra obiettivi liberali e non liberali in campo internazionale non si basa sul fatto che i primi sono ideologici e i secondi no. L'aspetto ideologico accomuna entrambi, poiché gli uomini sosterranno solo obiettivi politici che trovino, a loro avviso, una giustificazione razionale e morale. Ma mentre concetti politici non liberali quali "impero romano", "nuovo ordine", "spazio vitale", "accerchiamento", "sicurezza nazionale", "ricchi contro poveri" e così via sono direttamente riconducibili a obiettivi politici concreti, concetti liberali come "sicurezza collettiva", "democrazia", "autodeterminazione dei popoli", "giustizia", "pace" sono astrazioni applicabili a qualsiasi situazione politica. Questa distinzione produce conseguenze pratiche di vasta portata. Gli obiettivi non liberali, frutto di una situazione politica concreta, verranno necessariamente sostituiti da altri non appena avranno adempiuto la loro funzione politica temporanea; ciò li renderà relativamente immuni dal rischio di trovarsi in contrasto con la realtà e di cadere dunque in discredito.

Le ideologie liberali, viceversa, per il loro stesso carattere di astrattezza, generalità e presunta validità assoluta, sono destinate a essere mantenute in vita anche dopo aver esaurito la loro utilità politica e a essere sconfessate dalle realtà della politica internazionale, per loro stessa natura concrete, specifiche e relative a un tempo e a un luogo. La sicurezza collettiva, la democrazia universale, una pace giusta e duratura, sono obiettivi supremi e ideali in grado di ispirare i comportamenti dell'uomo e di fornire criteri per giudicare l'etica e la filosofia, ma non si prestano certamente a un'attuazione completa e immediata attraverso l'azione politica. Tra concetti astratti e realtà politica esisterà sempre un divario, che i liberali sono convinti di poter colmare nell'immediato.

La smentita di tale convinzione e l'improvvisa consapevolezza della vera natura dell'ideologia liberale danno origine al processo di "ridimensionamento" che ha corrotto il pensiero liberale e ne ha paralizzato l'azione in campo internazionale. Il riconoscimento che gli obiettivi, in apparenza politici, del liberalismo non fossero attuabili attraverso un'azione politica immediata generò diffidenza nei confronti di qualsiasi ideologia politica. Poiché l'ideologia liberale non aveva mantenuto le promesse e si era dimostrata mera "propaganda", nessuna ideologia in campo internazionale poteva essere degna di fiducia. Poiché inoltre gli obiettivi politici sono ancora largamente razionalizzati alla luce dell'ideologia liberale, essi vengono per questo condannati indipendentemente da una loro eventuale giustificazione in termini di convenienza politica. Se il liberale disilluso non combatteva per Cina, Etiopia, Cecoslovacchia, Danzica e Gran Bretagna perché non credeva più nelle ideologie liberali di sicurezza collettiva, democrazia universale e pace giusta e duratura, il "buon" liberale combatteva per quei paesi perché credeva ancora in quegli slogan. Parlando in termini liberali, in realtà nessuno dei due era in grado di comprendere che il vero problema non erano la Cina, l'Etiopia, la Gran Bretagna o qualsiasi altro paese straniero, e neanche la sicurezza collettiva, la democrazia universale, o la pace giusta e duratura ma piuttosto l'influenza sugli interessi nazionali, espressa in termini di politica della forza e di violenti cambiamenti nello status territoriale di quei paesi. Per questa ragione, anche i nemici di quegli slogan sono comunque vittime dell'errore liberale; dal punto di vista intellettuale, essi rimangono liberali perché riescono a pensare solo in termini liberali. E tuttavia, mentre i delusi si rifiutavano di agire perché qualsiasi azione non si sarebbe rivelata all'altezza degli ideali liberali, il "buon" liberale agiva, anche se talvolta al momento sbagliato, con i metodi sbagliati e sempre per le ragioni sbagliate.

21 giugno 2002

(da Ideazione 3-2002, maggio-giugno 2002, traduzione dall'inglese di Marcella Mancini)

 
stampa l'articolo