Paolo Emilio Taviani, biografia della
Repubblica
di Pino Bongiorno
Nell’ultima audizione alla Commissione stragi, presieduta dal
senatore diessino Giovanni Pellegrino, Paolo Emilio Taviani aveva
rimandato alle sue memorie postume per le ultime verità sui
“misteri d’Italia”. Erano state frasi ad effetto le sue e avevano
attirato l’attenzione della grande stampa e dell’editoria,
interessate a ghiotte anticipazioni o addirittura a mettere le
mani sui segreti più inquietanti della nostra storia recente. Si
erano fatte nuovamente sotto le vestali della “strategia della
tensione” e del “doppio Stato”, esaltate dalla prospettiva che la
loro ipotesi sull’unica matrice delle stragi e degli attentati che
hanno insanguinato l’Italia dalla fine degli anni Sessanta potesse
finalmente avere una insospettabile conferma. Taviani, infatti,
poteva essere la persona giusta per avvalorare l’idea, tanto
suggestiva quanto non fondata, che la vita democratica del nostro
paese fosse stata eterodiretta e affidata fondamentalmente a un
partito, la Dc, capace di ordire e far eseguire i più orrendi
crimini pur di impedire il normale svolgimento della dialettica
politica e non mettere in pericolo gli equilibri internazionali.
Poteva essere la persona giusta per due ordini di ragioni: era il
politico italiano che aveva occupato ruoli-chiave proprio negli
anni più destabilizzati e, soprattutto, aveva l’identikit del
testimone credibile, era l’ex partigiano bianco di “sicura fede
democratica” (per dirlo con le parole che Giovanni Pellegrino ha
usato nel libro-intervista del 2000, “Segreto di Stato”).
Nel frattempo Taviani è morto, l’anno scorso, e la casa editrice
Il Mulino ha da poco dato alle stampe il suo “Politica a memoria
d’uomo” (pp. 445, € 20,00). I cacciatori di teoremi e complotti,
però, sono rimasti delusi, perché il paese che ci ha restituito
Taviani, con le sue pagine di diario e i commenti degli anni
successivi, non autorizza alcuna conclusione fantasiosa. Anzi. Se
la sua testimonianza è ancora considerata affidabile, come lo era
prima della pubblicazione in questione, forse è arrivato il
momento di riporre, una volta per tutte, sospetti e illazioni.
Iniziamo dalla morte di Enrico Mattei, avvenuta com’è noto il 27
ottobre 1962 per la caduta dell’aereo in cui viaggiava. Taviani
boccia qualsiasi ipotesi d’attentato e appoggia i risultati delle
due commissioni d’indagine che si sono occupate del caso. Sono
considerazioni, le sue, espresse senza dubbi: “L’ipotesi di
crimine commesso dalla mafia su ordinazione delle Sette Sorelle è
fantasia. La mafia ha sempre agito in proprio. Ha fatto agire
altri per proprio conto; non viceversa. E poi, la mafia non era
amica delle Sette Sorelle; come non era amica, nel 1962, della
Cia. L’ipotesi di un intervento dei servizi americani è frutto di
altrettanta fantasia. Da mesi era in corso un riavvicinamento di
Mattei agli americani…Cefis lo portò a compimento. Altra ipotesi
fantasiosa è quella dell’intervento dei servizi segreti francesi.
De Gaulle era oramai al potere da parecchi anni e aveva sistemato
il problema algerino. L’allergia francese per l’Eni stava venendo
meno. Considero fantasie gli interventi esteri o mafiosi. L’unico
dato certo rimane l’eccezionale bufera d’acqua, di vento e di
nebbia in cui si trovava la zona dell’incidente” (pp. 371-372).
A proposito dell’avversione di Antonio Segni per il
centro-sinistra e delle preoccupazioni che esso gli dava, Taviani
riconosce, cosa che non aveva fatto alla Commissione stragi, che
la sua posizione non era isolata. Condividevano i suoi timori e le
sue iniziative politiche il presidente del Senato Merzagora, il
presidente della Camera Bucciarelli Ducci, il segretario del
Consiglio Supremo della Difesa Martino, e poi Randolfo Pacciardi,
Eugenio Reale, Renato Angiolillo, Ivan Matteo Lombardo, Celso De
Stefanis. E aggiunge, a chiudere qualsiasi scorciatoia: “Accanto e
attorno ai nomi citati, stava un cospicuo mondo politico
trasversale non legato da interessi né da sigle associative. Erano
parlamentari, alti funzionari, magistrati, alti ufficiali che
vedevano un grave pericolo nella nostra apertura a sinistra
iniziata negli anni Sessanta. C’erano dei democristiani, ma non
tutti erano democristiani. Dei massoni, ma non tutti erano
massoni. Erano sobillati dalla Cia? A dire il vero era accaduto il
contrario: qualcuno dei personaggi citati, chiacchierando con
personalità di paesi a noi alleati, aveva espresso, lui, le sue
preoccupazioni” (pp. 374-375).
Del Piano Solo Taviani scrive che “non costituiva di per sé un
atto illegittimo. Si trattava di un piano preventivo di fronte
all’organizzazione dei comunisti, pronti a sostenere gli invasori
ungaro-sovietici in caso di guerra europea” (p. 375). Anche circa
la morte del colonnello Rocca, durante l’inchiesta del 1968 per i
fatti di quattro anni prima, la sua verità non è diversa da quella
consegnata alla storia: “Non ho alcun dubbio che si sia trattato
di un suicidio. Si è suicidato in una stanza del suo ufficio dove
stava solo, con la porta chiusa dall’interno. Per scalfire la
verità del suicidio qualcuno è arrivato a ipotizzare centoventi
metri di tragitto sul cornicione esterno sotto tetto del Palazzo
Barberini: un’impresa ardua per gli equilibristi dei circhi
equestri. Rocca è morto di suicidio provocato da depressione
nervosa” (p. 378). Per quanto riguarda la Cia, Taviani non crede
affatto ad un suo strapotere negli anni bui. “Non dimentichiamo -
ricorda a p. 380 - che, in barba alla Cia, il Sid di Miceli
restituì ad Arafat due presunti terroristi arabi posti dalla
magistratura in libertà provvisoria. E’ vero che un
americano…portò dell’esplosivo dalla Germania in Italia, ma non è
vero che il progetto di attentati intimidatori del 1969 (Roma e
Milano) sia stato ordito dalla Cia”. Pure sul caso Moro le
valutazioni di Taviani sono lucide ma ordinarie: “Sembrerebbe che
i brigatisti avessero preso in seria considerazione quattro
personalità: Leone, Fanfani, Moro e Andreotti. La loro intenzione
aveva uno scopo ben preciso: inferire al cuore dello Stato il
colpo che era fallito col sequestro Sossi…Avrebbero scartato i
primi due, perché la protezione delle scorte era poderosa e i loro
percorsi mutavano di continuo. Andreotti sarebbe stato una facile
preda fra la sua abitazione e Montecitorio o Palazzo Chigi, ma si
trattava di percorsi brevi, nel centro di Roma, che non si presta
a rapide fughe. La scelta cadde su Moro i cui percorsi erano
sempre gli stessi, ripetuti pedissequamente e imprudentemente… La
mia personale opinione è che il sequestro sia stato progettato e
compiuto da uomini delle Brigate Rosse, senza interferenza di
servizi segreti italiani e stranieri” (p. 396). Per quanto
riguarda la questione Gladio, esplosa nel 1990 per colpire
Cossiga, che pure della struttura era un pesce piccolo, Taviani,
che in “Stay behind” invece aveva importanti responsabilità,
esclude un qualsiasi coinvolgimento, diretto o indiretto,
dell’organizzazione nelle stragi e negli attentati.
7 giugno 2002
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