Quei prigionieri dimenticati
di Sergio Bertelli
Il tenente di vascello Evgenij Zhirnov non è nuovo al pubblico
italiano, perché era già intervenuto, sul dramma dei prigionieri
italiani in Russia in "Pci. La storia dimenticata", dove aveva
raccontato in breve come i nostri soldati fossero stati decimati
non già in battaglia, ma nelle marce forzate di trasferimento nei
campi d'internamento, soprattutto vittime del disordine
burocratico russo. Qui apprendiamo che non si trattò solo di
disorganizzazione. Le sorti dei nostri prigionieri si
intrecciarono fortemente con le vicende politiche, essi furono
prima di tutto degli ostaggi, nella mani sia dei sovietici che dei
collaborazionisti italiani. Chi non si sottopose ai continui
ricatti, la pagò cara. Come il cappellano Giovanni Brevi, scelto
come merce di scambio, per aiutare il senatore comunista Edoardo
D'Onofrio (uno dei collaborazionisti che cercavano di
indottrinare, indossando la divisa militare dell'esercito
sovietico, i propri connazionali rinchiusi nei campi). Era
successo che, una volta rimpatriati, un gruppo di soldati aveva
accusato D'Onofrio "di aver collaborato coi servizi speciali
sovietici e di aver causato danni morali ai prigionieri italiani
credenti. I diplomatici sovietici, per aiutare D'Onofrio,
chiedevano di trovare materiali compromettenti sul conto degli ex
prigionieri che al processo del senatore comunista figuravano come
testimoni a carico.
Tutta l'attenzione era rivolta, in primo luogo, alla figura del
cappellano Don Enelio Franzoni. Il Mid, con ogni probabilità su
suggerimento dello stesso D'Onofrio, era informato dell'esistenza,
negli archivi del Mvd, di una delazione di Don Franzoni nei
confronti di un altro cappellano prigioniero di guerra, Don
Giovanni Brevi". La colpa di Don Brevi era stata quella di aver
tenuto un quadernetto, poi sequestratogli, nel quale aveva
registrato i nomi dei commilitoni morti nel lager in cui era
internato, con l'annotazione per ciascuno: "fucilato dai russi,
torturato a morte, morto di fame" e di comportarsi, negli
interrogatori, "con sfrontatezza" (come si sa, le convenzioni
internazionali vietano di interrogare i prigionieri di guerra).
Internato in un Gulag vero e proprio, condannato a dieci anni di
galera solo per essersi rifiutato di lavorare (altra cosa
vietata), il cappellano era passato da un campo all'altro, pur
tempestando di lettere le autorità sovietiche e chiedendo che i
suoi appelli fossero inoltrati in Vaticano. Ma Don Brevi non fu il
solo caso sul quale i russi si accanirono tanto. "Nell'autunno del
1945, dopo quasi tre anni di tremenda prigionia, l'Unione
Sovietica restituì i soldati italiani prigionieri nel suo
territorio. Molti mesi dopo, nel luglio 1946, quando ormai in
Italia i giochi politici erano fatti, Stalin e i "commissari
politici" italiani permisero il rimpatrio degli ufficiali".
I due autori non mancano di ricordare la terribile risposta che
Togliatti diede a chi gli chiedeva di far qualcosa per salvare i
nostri connazionali: "Se un buon numero di prigionieri morirà in
conseguenza delle dure condizioni di fatto non ci trovo
assolutamente da dire […]". Commentano Bigazzi e Zhirnov: "In
pratica, giustificando in pieno le atroci esecuzioni sommarie, le
privazioni di ogni tipo e lo sterminio di gente inerme convogliata
verso campi di prigionia che assomigliavano più a dei "lager della
morte", Togliatti dette le direttive per il comportamento dei
"commissari politici" italiani incaricati di "rieducare" i
prigionieri dell'Armir, nei lager staliniani". Gli autori sono
anzi riusciti a rintracciare un opuscolo stilato da Dmitrij
Manuil'skij, nell'ambito della Direzione superiore politica (GlavPU)
dell'Armata Rossa, per l'organizzazione del lavoro di
indottrinamento dei prigionieri di guerra, soprattutto degli
italiani, il cui scopo precipuo era quello di reclutare agenti. Il
colonnello Krastin, comandante del lager n. 160 a Suzdal', in un
rapporto del 10 maggio 1945, diceva che il gruppo "antifascista"
comprendeva 185 persone, ma che "il lavoro antifascista veniva
costantemente frenato dagli ufficiali reazionari, in special modo
dagli alti ufficiali", fra questi, il generale Umberto Ricagno e i
cappellani, i quali cercavano "costantemente di esercitare la loro
influenza sugli ufficiali e sui soldati credenti" occupandosi
"periodicamente di propaganda religiosa" (!).
Come si legge nel Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in
Russia dell'Unirr, del maggio 1995 (parzialmente riportato nel
libro): "I russi erano furibondi con questi ufficiali che, anziché
piegarsi, diventavano sempre più refrattari, insolenti, motivo di
disordine e cattivo esempio per i prigionieri delle altre
nazionalità egualmente isolati nello stesso campo di punizione".
Dopo l'avvenuto rimpatrio dei sopravvissuti, restarono in mano dei
sovietici ventotto prigionieri (tra i quali proprio il generale
Ricagno, oltre al cappellano Brevi). Accusati di aver commesso
atrocità, per anni i tribunali sovietici furono incapaci di
trovare delle prove certe in base alle quali giudicarli. Eppure,
quando una delegazione dell'Unione donne italiane, si recò a
Mosca, nell'estate del 1947, e fu ricevuta dal tenente generale K.
D. Golubev, vicedelegato del Consiglio dei ministri per gli affari
del rimpatrio, Giuliana Nenni e le deputate comuniste Rina
Picolato ed Elettra Pollastrini non esitarono a prendere per oro
colato tutte le bugie snocciolate in modo imperturbabile da un
generale ben abituato alla dezinformacija. Quei ventotto erano
divenuti, in realtà, merce di scambio, per ottenere dall'Italia la
consegna di prigionieri russi. Convinto che la miglior difesa è
l'attacco, il generale Golubev accusò gli italiani esattamente
delle colpe di cui si erano macchiati e continuavano a macchiarsi
i sovietici: "Gli italiani non ci consegnano tutti i cittadini
sovietici da rimpatriare (si trattava in maggioranza di ucraini,
bielorussi, lettoni, lituani che si erano uniti ai tedeschi) […]
oltre mille cittadini sovietici, di competenza delle autorità
italiane, non possono tornare in patria […] il governo sovietico,
invece, come avete potuto constatare, ha lealmente rinviato in
patria tutti gli italiani".
A parte il fatto che molti di costoro non intendevano affatto
rientrare in patria, ben immaginando la sorte che li avrebbe
attesi, molti di essi non erano nemmeno nelle mani del governo
italiano, ma in campi di raccolta controllati dagli americani!
Eppure, diligentemente, Pollastrini prometteva di presentare
un'interrogazione, appena rientrata in Italia, all'Assemblea
costituente! Solo il 5 giugno 1953 la Sezione militare della Corte
suprema deliberò la scarcerazione di tutti i prigionieri italiani.
Era il momento in cui la lotta al Cremlino era aperta: Malenkov
doveva far fuori Lavrentij Beria, mentre Kruscëv si apprestava a
sua volta ad esautorare la trojka Malenkov-Molotov-Kaganovis. Gli
ultimi prigionieri italiani, vittime di un gioco più grande,
potevano finalmente partire per Vienna. Solo Don Brevi e il
capitano Ludovico Scagliotti, reo confesso di aver rubato, con
altri commilitoni, un torello ad un contadino (!), furono
costretti ad attendere il gennaio successivo! Resta da dire della
sorte dei collaborazionisti e delatori. Alcuni dei primi sarebbero
divenuti dirigenti del Pci, come Edoardo D'Onofrio o Paolo Robotti,
il cognato di Togliatti, che ai prigionieri che protestavano di
non ricevere posta - come era loro diritto - rispondeva
sprezzante: "Le vostre donne non hanno tempo per scrivervi, si
divertono con gli americani". Quanto alle spie, alcune avrebbero
ricevuto la lezione che meritavano dalle stesse vittime, lungo il
viaggio di ritorno in patria; il soldato Antonio Mottola, che i
sovietici avevano scaricato dopo averne goduto dei servigi, andò
invece incontro ad una condanna a dieci anni nella fortezza di
Gaeta.
24 maggio 2002
Francesco Bigazzi e Evgenij Zhirnov, Gli ultimi 28. La storia
incredibile dei prigionieri di guerra italiani dimenticati in
Russia, Mondadori, Milano, 2002, pp. 235, € 16,60.
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