Hannah Arendt e la Rivoluzione americana
di Robert Nisbet
E' ampiamente - se non universalmente - riconosciuto che Sulla
rivoluzione di Hannah Arendt è un classico del pensiero politico.
Un lavoro che è stato ammirato non solo nel campo - in cui
ovviamente ricade - degli studi comparativi sulla rivoluzione, ma
anche nelle aree della filosofia sociale, della teoria politica e,
non ultimo, delle teorie della modernità. Come tutti i lettori del
libro sanno, la Arendt costruì il suo libro attorno a un'inchiesta
e ad alcune conclusioni sulle tre grandi rivoluzione della moderna
storia occidentale: quella americana, quella francese e quella
russa, anche se vi sono riferimenti ad altre esplosioni
rivoluzionarie dei tempi moderni. Non è mia intenzione in questo
articolo descrivere o analizzare i temi principali di questo
libro. E' sufficiente dire che mi trovo d'accordo praticamente con
tutto, in particolare con ciò che riguarda la rivoluzione francese
e quella russa. Mi limiterò in questa sede soltanto a taluni
aspetti del modo con cui la Arendt tratta la rivoluzione
americana. Anche in questo caso, voglio subito chiarire che il mio
accordo con le linee dominanti della sua trattazione della
rivoluzione americana è sostanziale, ed è solo a partire da questa
trattazione che ho cominciato ad essere consapevole di alcuni
elementi che reputo importanti e interessanti. Ne farò menzione a
tempo debito. In ogni caso, nonostante la mia completa ammirazione
per la sua trattazione del tema, ci sono alcuni punti sui quali mi
sembra possibile un rispettoso dissenso.
"La questione sociale"
Il primo problema riguarda l'apparente sicurezza della Arendt sul
fatto che la rivoluzione americana fosse talmente rivolta alla
libertà e alla costruzione di uno stabile sistema di limitazione
dei poteri, da non ottenere nessun effetto sull'Europa del tempo o
sulle altre parti del mondo in cui fosse predominante una
"questione sociale". Con il termine "questione sociale" la Arendt
si riferisce principalmente alla percezione popolare della povertà
e delle differenze di classe e di ricchezza. Scoprì che questa
percezione era assai diffusa nella Francia del 1789, nella Russia
del 1917, ma non nelle colonie americane del 1776 o nei decenni
immediatamente successivi. Il seguente passaggio è illuminante:
l'indirizzo della rivoluzione americana rimase rivolto alla
fondazione della libertà e di istituzioni durature, e a quelli che
agivano in questa direzione non fu permesso nulla che si ponesse
al di fuori dall'area della legge civile. L'indirizzo della
rivoluzione francese fu deviato sin dall'inizio da questa rotta
per la contiguità del dolore; fu determinata dalle esigenze di
liberazione non dalla tirannia ma dalla necessità, e fu messa in
atto dall'illimitata immensità della miseria delle persone e dalla
pietà che ispirava questa miseria1.
Ora, c'è una certa dose di verità in questa differenza tra le
rivoluzioni americana e francese. Senza dubbio i leader della
rivoluzione francese erano dominati da una concezione del potere
il cui scopo era quello di "rifare" il carattere morale e sociale
della Francia. Se fu invocata la libertà, fu la libertà dalle
istituzioni tradizionali - famiglia, comunità locale, chiesa -
piuttosto che la libertà dal potere in quanto tale. Come il
Rousseau del Terzo discorso o del famoso capitolo su "Il
Legislatore" nel Contratto sociale, intelligenze come quelle di
Robespierre e Saint-Just poterono guardare al potere assoluto come
a una forza di redenzione, purché derivato dalla virtù e radicato
nella "volontà generale" del popolo. E senza dubbio, la fondazione
di questa concezione del potere, e anche la sua ricezione da parte
di un significativo numero di francesi durante la rivoluzione e
anche in seguito, fu ciò che la Arendt definisce "questione
sociale". Proprio per il fatto che l'aristocrazia era così odiata,
che a partire dalle idee di Rousseau sull'idea di eguaglianza
quest'odio si era ancora più infiammato, e che la povertà era
molto estesa in Francia, particolarmente nelle città, a un livello
sconosciuto per le colonie americane, la "questione sociale"
assunse la precedenza sul resto e divenne la base del potere
politico più vasto e penetrante nella vita e nella mente che sia
mai stato conosciuto sotto i Borboni. Tutto questo è corretto e
non verrà messo in discussione in questo saggio.
Eppure mi sembra che, a forza di rimarcare le differenze tra la
rivoluzione americana e quella francese, la Arendt si sia spinta a
omettere, almeno parzialmente, l'esistenza di una "questione
sociale" nelle colonie e poi negli stati americani che vennero
ufficialmente creati dalla Costituzione. Benché le differenze di
classe non fossero così evidenti nelle colonie come invece lo
erano nell'Ancien Regime; benché la povertà fosse meno diffusa e
meno intensa rispetto a quanto accadeva in altri paesi del mondo,
comprese Inghilterra e Francia; e benché le tensioni sociali ed
economiche fossero minori e più moderate, resta il fatto che una
componente rilevante di studiosi americani ci hanno mostrato
un'America del diciottesimo secolo che non trova riscontro negli
scritti di Hannah Arendt. Non vorrei dare l'impressione che nei
suoi scritti ci possa essere l'ingenua convinzione, un tempo assai
diffusa, che tutti gli americani nel diciottesimo secolo fossero
middle class, ricchi e interessati - anche nelle frange radicali -
unicamente alla liberazione politica dalla Gran Bretagna, al
cambiamento di una consorteria di governanti con un'altra, per
niente trasportati dalla parola "rivoluzione". La Arendt è
un'analista sociale troppo sofisticata e troppo erudita in campo
storico per sottostare a questo stereotipo. Egualmente, non penso
che dalla sua trattazione delle colonie americane e della
"questione sociale" si possa derivare granché di quanto alcune
ricerche contemporanee hanno dimostrato essere la situazione reale
nelle colonie, per quanto riguarda i problemi sociali, le
strutture e le tensioni.
Da storici come Carl Bridenbaugh, Jackson Turner Main, Bernard
Bailyn, Robert R. Palmer e Richard Morris, per citarne solo
alcuni, abbiamo acquisito una descrizione piuttosto diversa della
storia sociale della rivoluzione americana rispetto a quella
comunemente accettata. Effettivamente questi storici stanno
costruendo sulla traccia dei lavori seminali di J. Franklin
Jameson e Allan Nevins, scritti nella metà degli anni Venti.
Un'attenzione particolare deve essere posta su The American
Revolution Considered as a Social Movement, pubblicato nel 1926 da
Jameson, un libretto minuto nel formato ma grande nelle
implicazioni e nell'influenza. Ma almeno lo stesso rispetto deve
essere accordato anche ad Allan Nevins, che pubblicò il suo studio
più importante (The American States During and After the
Revolution, 1775 - 1789) immediatamente dopo. Uno studio che per
la prima volta ci ha dato la piena consapevolezza di quanto sia
inadeguata qualunque concezione della rivoluzione americana che
presti attenzione esclusivamente al Congresso continentale e al
Governo federale, senza tener conto degli eventi accaduti nelle
assemblee e nelle legislature delle tredici colonie. Come hanno
sottolineato Jameson e Nevins, è soprattutto negli atti delle
assemblee di ogni colonia e nelle legislazioni statali che si
svolse la rivoluzione sociale nell'ambito della guerra per
l'indipendenza politica.
Lo spazio a mia disposizione non mi permette un trattamento
dettagliato della consistenza e dell'estensione della "questione
sociale" negli Stati Uniti. Voglio solo elencare rapidamente ciò
che le ricerche storiche, a partire dai lavori classici di Jameson
e Nevins, hanno dimostrato essere vero e che invece non si può
dedurre dalla trattazione arendtiana della rivoluzione americana.
Innanzitutto, nonostante un ancora profondamente radicato mito
sostenga il contrario, l'America ha conosciuto qualcosa di simile
a una fase feudale. Nonostante l'assenza di castelli, cavalieri o
grandi baroni e duchi nella sua terra, resta il fatto che quando
ci occupiamo della vita sociale delle persone prima della
rivoluzione, ritroviamo molti elementi feudali. La primogenitura e
l'eredità inalienabile esistevano in ogni colonia, e quando
scoppiò la rivoluzione, soltanto due colonie avevano già abolito
la primogenitura, soltanto una l'eredità inalienabile. Ed è un
fatto incontestabile che nel decennio in cui fu ratificata la
Dichiarazione d'Indipendenza, tutti gli Stati (tranne due)
abolirono l'eredità inalienabile e nel giro di altri cinque anni
tutti resero illegale la primogenitura. Appare difficilmente
concepibile che le azioni legislative, che hanno coinvolto tredici
distinte legislature, abbiano potuto susseguirsi in modo così
rapido e uniforme se questi due costumi, eminentemente di tipo
feudale, non fossero già stati largamente avversati. Non possiamo
neppure trascurare l'esistenza di distinte classi sociali
nell'America pre rivoluzionaria. Al vertice vi erano i grandi
proprietari terrieri, alcuni dei quali davvero molto grandi
perfino per gli standard inglesi. Come ha dimostrato Richard
Morris, il patrimonio feudale di certe famiglie come i Fairfaxes
della Virginia e i Van Rensselaers di New York era governato
sostanzialmente dalle stesse norme e dagli stessi organismi
feudali che erano esistiti già in Inghilterra e in altre parti
dell'Europa occidentale. Sotto i proprietari terrieri c'erano
altre classi: i mercanti, gli artigiani, i lavoratori non
specializzati, i servitori a contratto e, non bisogna
dimenticarlo, i neri, sia quelli in condizione di schiavitù sia
quelli del Nord, in condizione di libertà ma comunque di classe
sociale bassa. Queste classi erano reali e reali erano le tensioni
tra loro. Come ci ha detto Jackson Turner Main in The Social
Structure of Revolutionary America, la tendenza di lungo periodo
nelle colonie andava "verso la più grande diseguaglianza, con
marcate distinzioni di classe".
Ci sono anche altre caratteristiche feudali, o neo feudali,
dell'America coloniale, ma ne menzionerò soltanto una:
l'establishment religioso. Praticamente in tutte le colonie,
l'establishment religioso era predominante: il Congregazionalismo
nel Massachusetts, nel New Hampshire e nel Connecticut; la Chiesa
d'Inghilterra negli altri stati. Qualcuno potrebbe pensare che non
si produssero profondi attriti creati dalle leggi volute dai
luterani, dai battisti, dai metodisti e altri per pagare le tasse
a sostegno di una religione totalmente aliena? E anche se la
separazione tra Stato e Chiesa non avvenne immediatamente in tutti
i nuovi stati, il processo si avviò improvvisamente subito dopo la
firma della Dichiarazione. Per sintetizzare questa parte della mia
tesi: a dispetto dell'implicazione più importante di Hannah Arendt
relativa all'assenza del genere di malessere sociale che fu invece
così evidente prima in Francia e un secolo dopo in Russia,
l'evidenza suggerisce che questo malessere era presente in
America, anche se a un grado più modesto, e fu il combustibile
della rivoluzione sociale che prese piede nel nostro paese passo
dopo passo durante, o subito dopo, la guerra per la liberazione
politica dalla Gran Bretagna. Naturalmente è ancora oggetto di
dibattito se questo malessere sociale, basato sulle differenze di
ricchezza e sulle diseguaglianze di classe, avrebbe potuto
raggiungere proporzioni rivoluzionarie se le colonie non avessero
combattuto con l'Inghilterra. Ma va notato che tanto la
rivoluzione francese quanto quella russa debbono essere valutate
nel contesto della guerra. La guerra ha sempre avuto un effetto
catalizzatore sui processi implicati nella rivoluzione sociale.
L'unico punto importante, qui, è comunque che una "questione
sociale" è realmente esistita in America, prima e dopo la
rivoluzione.
La Arendt è naturalmente nel giusto quando sottolinea la grande
differenza esistente tra la rivoluzione americana e le altre due,
relativamente al fanatismo, all'uso del terrore, allo spettacolo
della rivoluzione che divora se stessa. Dimenticare la moderazione
della rivoluzione americana significherebbe dimenticare il suo
principale carattere distintivo. Ci furono significative
espropriazioni di proprietà, così come nelle rivoluzioni russa e
francese, ma quelle che avvennero in America furono limitate
interamente alle proprietà dei Tories che si erano opposti, in un
modo o nell'altro, alla guerra con l'Inghilterra. Per quale motivo
la rivoluzione americana mantenne sempre uno spirito di
moderazione, malgrado le ineguaglianze sociali e i conflitti cui
ho fatto riferimento? Non è una domanda a cui si possa facilmente
rispondere, ma sono incline a pensare che alcuni fattori furono
importanti. Innanzitutto il fatto che la nostra rivoluzione
sociale si diffuse tra le tredici colonie e stati, a differenza di
quelle europee centrate su Parigi o Mosca. In secondo luogo,
benché l'America avesse una classe di pensatori estremamente
preparati e brillanti - Jefferson, Madison, Adams, Hamilton e
altri - non si costituì una classe intellettuale paragonabile a
quella che l'Europa ha conosciuto dal Rinascimento in poi, una
classe sradicata, antagonista rispetto all'ordine costituito, dal
temperamento cronicamente conflittuale e senza riferimenti
all'ordine sociale. Il terzo punto è la pura e semplice forza
dell'impegno religioso, un impegno religioso plurale in America:
la gran parte di ciò che avrebbe potuto facilmente diventare
passione politica fu contenuta nelle strutture religiose. Infine,
penso che lo sviluppo di associazioni volontarie in America abbia
determinato una situazione tale da non spingere il potere politico
allo stesso assolutismo che tendeva ad esserci in Europa,
specialmente nell'epoca delle rivoluzioni.
Un evento di importanza locale
Il mio secondo punto di dissenso con l'interpretazione di Hannah
Arendt della rivoluzione americana ha a che fare con la
controversa questione dell'attuale influenza di questa rivoluzione
in altre parti del mondo. Cito ancora da Sulla rivoluzione: Fu la
rivoluzione francese e non quella americana che infuocò il mondo,
e conseguentemente fu dagli eventi francesi, e non dal corso degli
eventi in America o dagli atti dei Padri fondatori, che il nostro
attuale utilizzo della parola "rivoluzione" ha assunto la sua
connotazione ei suoi sottintesi ovunque, non esclusi gli Stati
Uniti [...]. La triste verità sull'argomento è che la rivoluzione
francese, che finì con un disastro, ha fatto la storia del mondo,
mentre la rivoluzione americana, così trionfalmente riuscita, è
rimasto un evento di importanza poco più che locale. La Arendt è
tra coloro che, in successione diretta con Edmund Burke, hanno
capito come la fuga da ciò che Burke ha chiamato "potere
arbitrario" fu l'obiettivo supremo della rivoluzione americana e
che, in quella francese, il fattore decisivo fu invece
l'imposizione del potere, un potere più implacabile e costrittivo
di qualunque altro conosciuto nell'Europa occidentale. E sarebbe
ozioso fingere che la rivoluzione francese, almeno all'inizio, non
abbia fatto presa sulle menti di moltissime persone, a vario
titolo colpite dall'espansione dei suoi princìpi attraverso
l'avanzata delle armate rivoluzionarie, e quindi napoleoniche, e
dallo spettacolo che procurò a tantissime intelligenze, in
maggioranza giovani, in Francia, Germania e altri paesi europei.
Per più di un secolo la rivoluzione si dimostrò essere forse
l'unico grande problema della politica francese. La rivoluzione e
le sue conseguenze furono il punto di partenza per decine di
libri, saggi e trattati in Francia e altre parti del continente.
La Arendt giustamente enfatizza il modello che fu fornito dalla
rivoluzione francese al tipo di spirito rivoluzionario che si
diffuse e si sviluppò durante il diciannovesimo secolo, segnando
notevolmente, come lei dimostra, Marx e i suoi seguaci e
culminando nel leninismo e nella rivoluzione bolscevica. La Arendt
è completamente nel giusto quando dichiara che la passione della
rivoluzione francese per la ricostruzione sociale, economica,
morale e intellettuale della nazione, attraverso l'utilizzo di un
potere assoluto, ebbe un'influenza decisiva sulla formazione di un
complesso di idee, atti e strategie rivoluzionarie che è giunto
fino a noi, oggi visibile in decine di paesi.
Ma ancora sulla base della più valida ricerca storica, è
necessario riconoscere alla rivoluzione americana che il suo
impatto rivoluzionario non ha riguardato solo gli americani, ma
anche altri popoli del mondo. La rivoluzione americana non è
rimasta - usando le parole della Arendt - "un evento di importanza
poco più che locale". Negare alla rivoluzione americana lo status
rivoluzionario per la mancanza del fanatismo, del terrore e della
persecuzione che ritroviamo nella rivoluzione francese e in quella
russa sarebbe come negare lo status di guerra a un conflitto
armato semplicemente perché sono state commesse poche o nessuna
atrocità. Per cominciare, tutti i Padri fondatori, praticamente
senza eccezioni, vedevano - ed erano molto orgogliosi di questo -
la loro guerra contro l'Inghilterra come la cornice per una
genuina rivoluzione. Le parole di Thomas Jefferson a John Adams
riflettono l'universalità che molti dei leader della rivoluzione
americana videro negli eventi e nei cambiamenti iniziati nel 1776:
"Le fiamme accese il 4 luglio 1776 - scriveva Jefferson - si sono
propagate in troppa parte del mondo per poter essere spente dalla
debole energia del dispotismo". Nessuno storico contemporaneo ha
dedicato più ricerche alla questione dell'influenza della
rivoluzione americana sul mondo quanto Richard B. Morris, il
quale, in una serie di libri e articoli, ha confutato l'idea che
la rivoluzione sia stato solo, o principalmente, un evento di
importanza locale. È una parodia - scrive Morris - "per ignorare
le correnti libertarie che l'avvenimento fece fiorire in tutto il
mondo". Non solo in Europa, quasi immediatamente, ma anche in
America Latina e in alcune parti del mondo asiatico, si diffusero
le novità dei grandi avvenimenti del 1776 e degli anni seguenti.
L'evidenza di ciò, come ha dimostrato abilmente Morris, è
semplicemente troppo grande e troppo dettagliatamente documentata
perché l'idea contraria possa essere mantenuta con successo.
Passiamo al classico studio di Robert Palmer non solo sulla
rivoluzione americana e francese, ma su tutte le rivoluzioni e le
esplosioni rivoluzionarie avvenute nel diciottesimo secolo, The
Age of the Democratic Revolutions. È interessante come il primo
volume di questo lavoro sia stato pubblicato proprio nell'anno
(1959) in cui si tenne il seminario su "Gli Stati Uniti e lo
spirito rivoluzionario", alla presenza di Hannah Arendt, e che fu,
come lei stessa ammette, lo sfondo del suo Sulla rivoluzione. C'è
una grande differenza tra le interpretazioni della rivoluzione
francese e di quella americana proposte dalla Arendt e da Palmer.
Confesso che non posso essere d'accordo con l'idea di Palmer che
"le rivoluzioni americana e francese "procedettero dallo stesso
principio"" (le parole finali sono di John Quincy Adams, citate da
Palmer), e resto in compagnia sempre più stretta di Hannah Arendt.
Ma ciò a cui sono più interessato qui non sono le possibili
somiglianze e differenze tra le due rivoluzioni, quanto il
problema dell'influenza mondiale della rivoluzione americana e
l'ipotesi arendtiana della sua esiguità. Su questo aspetto del
problema, sono obbligato a seguire in pieno Robert Palmer e
Richard Morris. La seconda metà del primo volume di Palmer è
incentrata sugli effetti della rivoluzione americana in Olanda,
Belgio, Svizzera e Polonia, come in Francia, Germania e
Inghilterra. "Il primo e più grande effetto della rivoluzione
americana in Europa - scrive Palmer - fu di far credere, o
piuttosto sentire spesso in modo emozionale, agli europei che
stavano vivendo un periodo raro di importantissimi cambiamenti. Si
accorsero di una sorta di dramma dei continenti". Anche ammesso
che ci siano stati paesi in cui l'impatto positivo fu
relativamente ridotto rispetto all'impatto che ebbe in
Inghilterra, Irlanda e nelle province olandesi, e che ci siano
state intelligenze cristalline che guardarono gli avvenimenti
americani con una certa apprensione, se non con avversione, gli
effetti complessivi della rivoluzione americana sulle intelligenze
europee fu davvero sostanziale. Dopotutto, ci stiamo occupando, in
Europa, dell'epoca dell'Illuminismo e della glorificazione della
libertà e della ragione. Molti dei Padri fondatori erano stati
essi stessi educati da dottrine che erano state partorite da
intelligenze europee, ed è quindi molto strano che si sia creato
in Europa, per dirla con Palmer, "un mito americano, o un
miraggio, o un sogno".
Gli europei erano venuti a conoscenza della rivoluzione americana
e della sua importanza in molti modi, come sottolinea Palmer:
attraverso la stampa europea dell'epoca, che stava vivendo
un'espansione straordinariamente rapida; attraverso le discussioni
negli innumerevoli club di lettura; attraverso i racconti dei
soldati di ritorno, racconti avidamente raccolti e diffusi, spesso
ingigantiti e distorti; e anche attraverso gli alberghi Masonic,
le cui filiali durante il diciottesimo secolo erano sparse tra
Europa e America britannica. I racconti dei soldati di ritorno
sono particolarmente interessanti. Si tenga presente che i soldati
che andarono nelle colonie americane provenivano da molti paesi
europei: Polonia, Germania, Francia, naturalmente Inghilterra. È
facile credere che un gran numero di questi soldati, molti dei
quali inevitabilmente provenienti da famiglie contadine, vedessero
la loro terra, i ranghi dell'aristocrazia sopra di loro, i loro
villaggi tradizionali e la povertà, in una maniera sostanzialmente
alterata, come risultato dei loro mesi o anni di combattimento in
America ma anche, necessariamente, di osservazione di differenti e
attraenti modelli di vita. Ma la documentazione e il dettaglio non
appartengono a un articolo come questo. Conta il punto centrale, e
non c'è modo migliore di ricordarlo che attraverso un'altra
citazione di Robert Palmer: "Gli effetti della rivoluzione
americana furono incalcolabili ma certamente molto grandi. Ispirò
il senso di una nuova epoca. Diede nuovi contenuti alla concezione
del progresso. Diede una dimensione interamente nuova alle idee di
libertà e di eguaglianza rese famigliari dall'Illuminismo […].
Detronizzò l'Inghilterra e fece dell'America un modello per i
cercatori di un mondo migliore. Insomma, con tutto il rispetto per
Hannah Arendt e il suo profondo acume sulla rivoluzione americana
e le sue differenze con quella francese e quella russa, non è
possibile concludere, come lei fa, che la rivoluzione americana fu
"un evento di importanza poco più che locale". Vedere la
rivoluzione americana in questa luce significa perdere buona parte
della storia internazionale dei decenni immediatamente successivi
al 1776.
10 maggio 2002
(da Ideazione 2-2002, marzo-aprile, traduzione dall'inglese di
Luca Pesenti)
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