Il medio evo delle libertà
di Alberto Mingardi
"La libertà è medioevale, il dispotismo è moderno": suona così una
delle massime epigrammatiche di Lord Acton. Una frase appena, ma
dal significato dirompente: specie in una realtà, la nostra, che
tende ad accettare in modo acritico la vecchia idea di un medio
evo quale epoca fosca, contrassegnata da un oscurantismo
scientifico e morale assieme, e viceversa continua a vedere nella
modernità statolatrica la fioritura dei nostri diritti e delle
nostre libertà. Dopo la parabola dei totalitarismi, dovrebbe
essere chiaro quanto sia inverosimile questa vulgata, peraltro
sempre popolare, che assegna allo Stato moderno, al Leviatano, il
benigno ruolo di dispensatore - quando non di "inventore" - delle
libertà individuali. Eppure - nonostante gli universi
concentrazionari, nonostante i genocidi compiuti in nome della
ragion di Stato - sono ancora minoritari i filoni di pensiero che
hanno la forza di negare quella che, dopotutto, è una verità
comoda.
Sicuramente di diverso parere era Robert Nisbet: sociologo ma non
solo, Nisbet è un autore complesso, che sfugge le etichette. Se è
vero che libri come "The Quest for Community" (1953) hanno
esercitato un'influenza maiuscola sui circoli conservative
americani, e se è vero che quel libro in particolare uscì in un
periodo che vedeva un ribollire di entusiasmi e di nuova vitalità
in quell'area politica (nello stesso anno venivano pubblicati "The
Conservative Mind" di Russell Kirk e "God and Man at Yale" di
William Buckley), tuttavia lo stesso Nisbet stona rispetto ad
alcune delle tendenze più radicate nell'élite intellettuale che
vota e fiancheggia i repubblicani. E' difficile, per esempio,
arruolare Nisbet tra i "neo-conservatori": sebbene egli sia stato,
per molti anni, legatissimo a quegli ambienti. Egli non era fra
quanti immaginavano un conservative welfare state come risposta
alla crisi delle ideologie. Del resto, Nisbet non aveva seguito il
classico percorso del perfetto "neo-con": una parabola che, come
efficacemente tratteggiata da Justin Raimondo, portava da
un'adesione giovanile agli ideali socialisti a una sorta di
cinismo mascherato da "anticomunismo missionario", il quale
riusciva appena a nascondere la vera missione politica di questi
conservatori: conservare le "riforme" di Franklin D. Roosevelt e
del New Deal.
Il pensiero politico di Nisbet galleggia su ben altre coordinate
intellettuali. E questo è evidentissimo, come ha recentemente
osservato Joseph Stromberg, quando si esaminano le sue posizioni
sul tema della guerra e dell'interventismo militare. Non è un caso
se "The Present Age" (1988), libro scritto con l'obiettivo
ambizioso di fare il punto sull'evoluzione (imperiale) della
repubblica americana, comincia con un capitolo significativamente
intitolato "La prevalenza della guerra". Nisbet non nasconde un
sincero rimpianto per l'antico isolazionismo americano: "è chiaro
che la Costituzione americana fu progettata", scrive, "per un
popolo più interessato nel governare se stesso che nell'aiutare a
governare il resto del mondo". E la storia della decadenza
americana (quella dell'età presente in cui viviamo) è storia di un
progressivo allontanamento da quella speranza originaria. Del
palesarsi di un'insostenibile discrasia fra l'America (la shining
city on the hill immaginata dai Padri fondatori) e gli Stati
Uniti, realizzazione politica (imperfetta, fallibile e, sovente,
fallimentare) di quell'ideale.
Nel mirino di Nisbet, la lunga serie di "presidenze imperiali"
(caratterizzate dai medesimi "pompa, potere e splendore" di cui
erano depositari i sovrani assoluti europei) che ha costellato il
Novecento: e nell'elenco non manca nemmeno Ronald Reagan, visto
(non nella retorica, ma nei fatti) in perfetta continuità con
quanti l'hanno preceduto. Il grande sociologo americano non ha
paura di mettere in discussione neppure il dogma che consentiva la
giustificazione automatica di arbitrio in nome della difesa
nazionale. "Anche se non ci fosse un'Unione Sovietica o un suo
equivalente a giustificare il nostro mostruoso establishment
militare, esisterebbe comunque tutto quel complesso
militare-industriale, che si perpetua da sé, da cui Eisenhower ci
aveva messo in guardia". Ma quando si situa, cronologicamente, la
nascita di questo "complesso", e della complicità della Casa
Bianca nei suoi confronti? Non ci sono dubbi: in quel preciso
momento in cui gli Stati Uniti smisero definitivamente di essere
una realtà ambigua, sospesa tra la malattia statalista e la
medicina libertaria, per diventare a buon diritto uno Stato
moderno. Durante la presidenza di Woodrow Wilson, con il quale
Nisbet è spietato: "Credo che non sia un'esagerazione sostenere
che la prima vera esperienza dell'Occidente con il totalitarismo
[...] sia venuta con lo Stato di guerra americano sotto Woodrow
Wilson".
Wilson (di cui Nisbet stigmatizza la mentalità "fanatica", nel
senso più vero di questa parola) è stato, per così dire, maestro
dello stesso Franklin Delano Roosevelt: imponendo per primo nella
politica americana quelle parole d'ordine, e quel "riformismo",
che avrebbero raggiunto la loro compiutezza nel New Deal. Non è un
caso che Nisbet riconosca persino all'entrata in guerra degli Usa
nel 1941 "una, e una sola ragione". Cioè: "la missione, derivata
da Wilson, di dare una pulita al mondo una volta vinta la guerra".
Di qui il risvolto farsesco dell'amministrazione Roosevelt, ovvero
l'idea di poter realizzare un mondo unito secondo i princìpi
democratici wilsoniani attraverso l'alleanza con Stalin (riguardo
agli accordi di Yalta, Nisbet è sarcastico: "Tragedy? No, farce").
Non meno durezza l'autore di The Quest for Community usa con un
presidente "ideologicamente vicino" come Reagan: "Oggi, quarant'anni
dopo, questo moralismo continua a infuocare la politica estera
americana, essendo Ronald Reagan il più devoto successore sin ad
oggi del wilsonismo come interpretato da Roosevelt. Anch'egli
adora dividere il mondo in Bene e Male, e definire la politica
estera americana come inesorabile punizione del Male da parte del
Bene". Tanto disincanto non deve stupire in un autore disposto a
concedere che la democrazia è sì "governo del popolo, da parte del
popolo, per il popolo", ma nondimeno "è ancora assolutista".
Addirittura, "la democrazia può produrre un maggiore grado di
assolutismo nella sua relazione con il singolo individuo di quello
rintracciabile in una qualsiasi delle cosiddette monarchie
assolute".
Per comprendere le ragioni di un rigetto così totale dei luoghi
comuni della contemporaneità, occorre tornare a quella che, per
Nisbet, è la distinzione fondamentale in politica. La dicotomia
autorità-potere: "per autorità non intendo potere. Intendo il
potere come qualcosa di esterno e fondato sulla forza. L'autorità,
al contrario, è fondata sugli statuti, le funzioni, la fedeltà che
sono i componenti di ogni associazione. L'autorità è, invero,
inscindibile dall'organizzazione e forse il mezzo principale
attraverso il quale l'organizzazione [...] diventa parte della
personalità umana. L'autorità, al pari del potere, è una forma di
costrizione, ma a differenza del potere si fonda sul consenso di
coloro che vi sono soggetti [...]. Il potere emerge solo quando
l'autorità si indebolisce". Potremmo dire, semplificando, che
l'autorità è medioevale e il potere è moderno: che lo Stato
(incarnazione del potere) nasce soltanto, e poteva nascere
soltanto, nel momento in cui si sfilacciano le relazioni feudali,
nel momento in cui si sfarinano rapporti fiduciari e personali, a
vantaggio di un'autorità impersonale e "altra" per definizione.
Nel momento in cui il diritto passa da essere "esperienza",
"dimensione sociale della natura umana" e "lettura del reale"
filtrata attraverso la ragione dell'uomo a "legge del Sovrano",
diritto non più scoperto ma dettato dalle istituzioni moderne ai
propri sudditi.
Per Nisbet, se "feudalesimo è stata una parola usata come
invettiva, sinonimo per abuso veemente e vituperazione, durante
gli scorsi due secoli [...] (specialmente) da intellettuali al
servizio spirituale dello Stato moderno e assoluto, che fosse
monarchico, repubblicano o democratico" in realtà "il feudalesimo
è un'estensione e un adattamento dei legami famigliari con
un'affiliazione protettiva a un esercito o ad un ordine di
cavalieri [...]. A dispetto dei princìpi di sovranità territoriale
dello Stato moderno, per quasi un millennio, in Occidente la
protezione, i diritti, il benessere, l'autorità e la devozione
riguardavano un legame personale, e non territoriale. Per essere
'uomo' di un altro uomo, e di conseguenza 'uomo' di un altro uomo
ancora, e così via fino al vertice della piramide feudale, ognuno
doveva rendere all'altro servizi o protezione. L'obbligazione
feudale ha molto della relazione che c'è fra guerriero e
comandante, ma ricorda ancora di più la relazione fra figlio e
padre, congiunto e patriarca". I legami feudali sono allora
"relazioni private, personali e contrattuali", il cui rispetto è
conseguenza obbligata del fatto che "la subordinazione del re alla
legge era uno dei princìpi più importanti sotto il feudalesimo".
Una legge, però, diversissima dal suo surrogato moderno, da un
diritto stemperato di ogni connotazione morale e razionale e
ridotto a instrumentum regni nel senso più vero del termine. E' a
una legge scritta nelle stelle, per come è possibile all'uomo
afferrarla utilizzando la propria ragione, che il mondo medioevale
obbedisce: ed è per questo che, per esempio, legittima il
tirannicidio (una buona abitudine, è il caso di ricordarlo,
tragicamente passata di moda nelle moderne democrazie). Lo stesso
istituto della monarchia è legittimo solo e soltanto finché il
sovrano non abusa dei suoi diritti e finisce per opprimere i suoi
sudditi. In quel momento, scatta il meccanismo dell' "appello al
cielo", ancora presente nel pensiero di John Locke: il ricorso
alla spada, lasciando alla Provvidenza di decidere della vittoria
dei giusti. Sempre in nome di un diritto che è l'esatto opposto
della "legge" moderna: sia per come nasce e si sviluppa, sia per i
contenuti che è teso a veicolare - contro l'algida formalità della
legislazione "fabbricata" dagli Stati. Come il sociologo americano
puntualizza nella sua introduzione a Lo Stato servile di Hilaire
Belloc (1977), questa fondamentale differenza si riflette anche -
banalmente - sugli assetti proprietari dei singoli cittadini.
Oggi, "negli Stati Uniti e in altre nazioni occidentali un numero
sempre maggiore di famiglie e di individui si trova nella
condizione di essere obbligato per legge - in primo luogo con la
tassazione progressiva sul reddito e poi attraverso numerose altre
aree di imposizioni legali - a lavorare non per sé, ma, con le
parole di Belloc, "a beneficio di altre famiglie e di altri
individui", che non lavorano, e che godono di quanto si definisce
assistenza sociale nell'una o nell'altra delle sue ora svariate
forme". Viceversa, con Belloc, Nisbet si sente di celebrare il
medio evo "per l'abolizione della schiavitù e della condizione
servile, per l'ampia diffusione della proprietà fra la
popolazione, che comportava un grado significativo di libertà
individuale".
Il modo diverso in cui nasce il diritto sfocia nel contenuto
radicalmente opposto: da un lato una modernità che celebra nelle
aule dei Parlamenti un continuo assalto ai beni ed alla vita dei
suoi sudditi. Dall'altra un medio evo che diffonde e difende la
proprietà. Quest'enfasi posta sulla proprietà privata non deve
stupire: da cosa può scaturire quest'universo di relazioni
volontarie e fiduciarie, basato su una (per quanto storicamente
mutilata) libertà contrattuale degli individui, se non dal
riconoscimento della legittimità della proprietà dei singoli su se
stessi, i loro possedimenti e il loro lavoro? E' per questo che
non è esagerato, secondo Brad Lowell Stone, accostare il pensiero
di Robert Nisbet a certe sfumature tipiche del libertarismo.
Perché l'idea chiave coltivata con passione da Nisbet in una
carriera così lunga e ricca è quel "pluralismo sociale" cui furono
attentissimi i Locke e i Montesquieu, così come i moralisti
scozzesi, o più vicini a noi nel tempo studiosi come Bruno Leoni,
Murray N. Rothbard e Hans-Hermann Hoppe. La proposta politica di
Nisbet, in particolar modo, si avvicina per certi versi ad una
sensibilità che ha trovato terreno fertile soprattutto fra i
libertari più coerenti. Nelle ultime pagine di un libro
ricchissimo come Twilight of Authority (1975), Nisbet rilancia un
"nuovo laissez faire", inteso come un contesto politico nel quale
vi sia un forte incentivo all'innovazione istituzionale. Alla
creazione di nuove forme di convivenza. Alla moltiplicazione delle
fonti del diritto. Al pluralismo, insomma, di strade che portino a
un accurato bilanciamento tra autorità e responsabilità, fondando
la prima sulla seconda. I secoli medievali, ribadisce Nisbet,
hanno rappresentato proprio questo: "il medio evo (...) è stato
tanto ricco di invenzioni sociali, quanto abbiamo recentemente
scoperto lo è stato nelle invenzioni tecnologiche". La forza
dell'America pre-novecentesca era esser rimasta, sia pure
parzialmente, l'ultimo spicchio di feudalesimo. Un feudalesimo non
tecnologico ma legale, politico, sociale: che costruiva la propria
ricchezza sulla competizione fra istituzioni, e a sua volta
ciascuna di esse sul valore della responsabilità personale (che è,
sempre, l'altra faccia di una libertà autentica). E' lo Stato
moderno ad avere spazzato via tanta creatività, incatenandoci ad
un paradigma sterile, costringendoci sempre a pensare in un'ottica
burocratica e parassitaria per definizione che potrebbe, invece -
suggerisce Nisbet - essere abbandonata. Basterebbe un po' di
immaginazione giuridica, un po' di onestà intellettuale.
10 maggio 2002
(da Ideazione 2-2002, marzo-aprile)
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