I vini del Franco bevitore. L'enologia apolide
di Franco Ziliani


La notizia, apparsa sul Giornale di qualche domenica fa, nella pagina di cose enogastronomiche intitolata “Affari di gola”, è di quelle destinate a far lungamente discutere: la celeberrima Barone Ricasoli di Gaiole in Chianti è finita sotto inchiesta con l’accusa di aver venduto come vino toscano 936 ettolitri di vino provenienti dalle Marche, un Rosso Piceno Superiore prodotto dalla Tenuta De Angelis di Castel di Lama in provincia di Ascoli. Senza voler criminalizzare, siamo ancora alle schermaglie procedurali e non c’è stata ancora nessuna condanna, resta il fatto che vedere oggetto di un simile scandalo un’azienda proclamata, non più tardi dello scorso novembre, Cantina dell’anno dalla guida del Gambero rosso/Slow Food, non può che indurre ad amare riflessioni sulla brutta strada che gran parte della nostra enologia ha imboccato da anni.

Non si può non interrogarsi sul ruolo di determinati enologi consulenti dall’enorme potere e dalla vastissima notorietà mediatica (e Carlo Ferrini, consulente della Barone Ricasoli è tra questi), sulla loro responsabilità nell’aver incoraggiato una simile pericolosissima deriva e la diffusione di una prassi, assai più diffusa di quanto si pensi, di “sistemare” e aggiustare i vini in cantina, come un mosaico, un puzzle enologico, con il contributo di uve e vini provenienti da altre regioni o dalla stessa area vinicola. Anche se magari i disciplinari di produzione non prevedono assolutamente e quindi vietano il ricorso a queste uve. Quante volte, in questi anni, abbiamo assaggiato Barolo e Barbaresco “corretti” Cabernet e Merlot, Brunello di Montalcino all’aroma di Merlot, di Syrah, di Nero d’Avola o di Aglianico, Taurasi al Merlot, Chianti Classico e Super Tuscan vari resi morbidi dal Montepulciano d’Abruzzo. Sospetti, e non certezze, ovvio, eppure quasi nessuno, salvo qualche provocatore controcorrente e un po’ donchisciotte come il sottoscritto o qualche collega straniero, s’è mai sognato di alzarsi e di dire “no, così non va”, sono cose inaccettabili, in questa maniera l’enologia italiana corre verso una deriva suicida. Come se nulla fosse, questi vini fasulli, del tutto apolidi, perché non rendono omaggio in alcun modo al territorio di provenienza, anzi, lo tradiscono, sono stati blanditi, premiati, laureati, portati ad esempio da guide nella migliore delle ipotesi incompetenti, oppure complici e conniventi con questo vergognoso stato di cose.

Oggi l’incidente di percorso toccato ad un’azienda fortemente mediatica e osannata dalla stampa specializzata tutta come la Barone Ricasoli sembrerebbe aprire il coperchio su una pentola ribollente che è stata sempre aperta e che solo gli ipocriti hanno fatto finta fosse ermeticamente chiusa. La tentazione, in molti addetti ai lavori, sarà sicuramente quella di ignorare il fatto, di minimizzarlo, come se non fosse accaduto nulla. Da parte mia ritengo invece importante riflettere su questi 936 ettolitri di vino marchigiano, venduto, ci assicurano in zona, a prezzi decisamente alti, molto più alti di quanto normalmente viene venduto il Rosso Piceno superiore, e guardarsi bene dal criminalizzare la Barone Ricasoli, di isolarla in un angolo, di additarla al pubblico ludibrio. Sono difatti convinto che analoghi controlli estesi a moltissime aziende italiane di forte immagine e di grande notorietà, in Toscana, Piemonte, Campania, Umbria ed in altre regioni ancora, porterebbero a risultati analoghi, alla scoperta cioè di un’enologia e di una prassi produttiva basata sull’aggiustamento dei vini (non quelli a basso prezzo, ma quelli pluribicchierati dal prezzo di 20-30 euro in su), sulla loro composizione con la tecnica del mosaico e del puzzle.

E così anche se tutti si riempiono la bocca asserendo, con seriosa e accigliata compostezza, che “il vino nasce nel vigneto”, nessuno, o quasi, s’incarica di verificare da quale vigneto effettivamente nasca, se da quelli di proprietà dell’azienda e previsti nel disciplinare di produzione della Doc o Docg di riferimento, oppure da vigneti siti in regioni distanti centinaia di chilometri, posti in altre regioni. Vini “autostradali”, resi possibili dalla libera circolazione di autocisterne che arrivano, scaricano e ritornano da dove sono venute.

Ho letto con molto divertimento, sul Corriere Vinicolo del primo aprile, la notizia dell’approvazione, da parte del Comitato nazionale vitivinicolo, di una nuova Doc, Cisterna, riferita al territorio di Cisterna d’Asti (San Martino Alfieri, San Damiano d’Asti, ecc.) e di altri comuni (Canale, Castellinaldo, Govone, Vezza d’Alba, Monteu Roero) del Roero. Nasce, con una connotazione geografica, la nuova Doc Cisterna, ma il “cisterna” è un vino, assolutamente trans-regionale, refrattario ed indifferente ai vincoli previsti dalle denominazioni d’origine, che da anni circola, prospera, si diffonde in tutta Italia. Lo spiacevole episodio del Rosso Piceno superiore finito, chissà perché, per quale clamoroso “errore”, destinato a chissà quale uso (siamo in attesa di conoscere le motivazioni di un simile disguido…), a Gaiole in Chianti, nella storica tenuta che fu del grande barone di ferro Bettino Ricasoli, non fa che rivelarne, mentre il mondo del vino italiano si accinge a celebrarsi nel baillamme del Vinitaly, l’esistenza. E la sua ottima salute, purtroppo...

25 aprile 2002

Bubwine@hotmail.com
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