L’eros e il tramonto dell’Occidente
intervista a Michel Houellebecq di Cristiana Vivenzio
Michel Houellebecq, classe 1958, un passato da ingegnere agronomo,
è, al momento, uno tra gli scrittori di maggior successo, e
discussione, in Francia e in Europa. Di lui si fanno i commenti
più differenti: c’è chi – per i tratti scandalistici che connotano
i suoi romanzi – lo ha definito il Céline dei giorni nostri e chi
lo ha etichettato come l’ultimo dei critici sociali francesi,
sulla scorta di una tradizione che va da Balzac e Maupassant fino
ad Alain Robbe-Grillet. Alain Besançon, su Commentaire, è arrivato
a definire la sua opera una “crepa nella cappa del politically
correct”. Ed effettivamente, Piattaforma nel centro del mondo
(traduzione italiana di Sergio Claudio Perroni, Bompiani, pp. 295,
euro 16,53), è il vero caso editoriale dell’ultimo anno: nella
sola Francia ha venduto oltre 400mila copie. E' un libro bizzarro,
indubbiamente inquietante che rischia, sempre secondo Besançon,
“di scuotere l’Olimpo di cartapesta di una letteratura i cui muri
potevano crollare da un momento all’altro nell’oblio più
tormentoso”. E Philip Sollers, dal canto suo, lo ha definito “il
miglior libro dell’anno: una dolente storia d’amore”. Tranne
queste voci, però, la critica è insorta di fronte alle vicende di
Michel, un personaggio senza qualità alle prese con la vita e con
la morte, e la sua compagnaValérie, arrivando a definire le pagine
di Houellebecq superficiali, ciniche, spietate e... fasciste. Lui,
nel suo impersonale disincanto, non se ne cura affatto, ribadendo
un totale disinteressamento nei confronti delle convenzioni
sociali e politiche. “I miei libri dispiacciono a chi parte da
un’ideologia, da un sistema di idee preconcette – afferma – io
sono troppo contro il ’68 per piacere a sinistra e troppo
pornografico per piacere ai conservatori”.
Lui rifiuta paragoni ed etichette, e assumendo un fare da poeta
maledetto, risponde, lemme e pacato, a tutte le obiezioni e le
contestazioni. Incontrandolo, ti colpisce per la sua lentezza e il
tono basso della voce. Molto probabilmente Houellebecq è annoiato
dalle interminabili polemiche che lo hanno investito dopo l’uscita
del suo romanzo, tacciato di razzismo, di islamofobia e di
esaltazione del turismo sessuale. Critiche scontate, ripetute fino
alla noia, dalla Francia all’Italia. Le solite... Occhi chiari,
capelli rossicci, vestito alla francese – camicia larga a quadri e
pantaloni blu – con flemmatico e flebile tono di voce, intervalla
ogni risposta all’ultima sigaretta, di cui mordicchia nervosamente
il filtro, tenendola tra l’anulare e il medio. Alla fine il
bilancio sarà “grave”: sei Philip Morris in poco più di mezz’ora.
Netto il contrasto tra il suo modo di rapportarsi alle persone e
il modo di rapportarsi alla vita che emerge dai suoi romanzi.
Calmo e riflessivo il primo, chiassoso e dinamitardo il secondo.
Giochicchia con una ciocca di capelli mentre con lo sguardo
glaciale si perde nel vuoto. Chissà dove vagano i suoi pensieri...
Chi sono i suoi maestri? Si è parlato di
Céline e di Lovercraft...
Ho scritto un libro su Lovercraft e ho letto Céline. E questi nomi
sono stati tirati fuori quando hanno cercato di inquadrare la mia
produzione letteraria. Ma in generale, si parla troppo di ciò che
non si conosce... Nella stessa logica si potevano tirar fuori
tanti altri nomi. Credo, in realtà, che i miei romanzi debbano
qualcosa ad altri autori, sia dal punto di vista stilistico che
contenutistico...
Lei, allora, sembra suggerire altri
autori...
Più che di maestri ispiratori parlerei di fonti di ispirazione.
Sono troppo individualista per ammettere di essere discepolo di
qualcuno. Tra i miei autori preferiti ci sono senza dubbio due
grandi geni dell’Ottocento europeo: Charles Baudelaire e Arthur
Schopenhauer. Il primo per la lucidità profetica dello sguardo, il
secondo per la verità del nulla che ha svelato.
Non a caso, Besançon ha parlato di lei come
l’ultimo degli schopenhaueriani. Una tradizione che l’accomuna ad
autori come Proust, Maupassant, Conrad e persino Simenon... ma che
significa essere schopenhaueriani nel Ventunesimo secolo?
E' complicato spiegarlo in due parole. Tutto sommato direi sia per
la forma che per la sostanza. La visione di Schopenhauer ci spiega
il nichilismo contemporaneo: il mondo, che è un orrore, è soggetto
a una volontà assurda, senza ragione ma onnipotente. Il suo agente
principale, che inchioda gli uomini a questo mondo e lo perpetua,
è la sessualità. E l’amore è una trappola suprema: si serve,
infatti, della soddisfazione egoistica dell’uomo medio per
assicurarne, in modo contraddittorio, la prigionìa nel voler
vivere il trionfo della volontà che non sa cosa vuole. E'
difficile dire altro. E cent’anni di letteratura non sono passati
invano.
Una delle caratteristiche dei suoi libri è
quella di “mettere il dito nella piaga”, mostrare i lati oscuri,
far emergere quello che tutti pensano o provano ma pubblicamente
rimuovono. Da cosa trae origine questo suo approccio?
Si tratta, in realtà, di una analisi conoscitiva dell’umanità
priva di pudori o rimozioni di sorta. Personalmente, parto dal
presupposto che io sono – come mi ritengo di essere – una persona
come tutte le altre: ragion per cui, credo che solo evitando di
autocensurarmi posso raggiungere il maggior numero di persone
possibili. Nella letteratura non ci si può accontentare delle
apparenze e delle convenzioni sociali. Nei miei libri non faccio
altro che dire quanto anche gli altri pensano e provano, ma non
hanno il coraggio di ammettere e dire. Certo, la verità è
scandalosa: come ho scritto in uno dei miei romanzi, ma senza non
c’è nulla che abbia valore. Una visione onesta e ingenua del mondo
è di per sé un capolavoro. Del resto, non è un caso che nelle mie
opere i protagonisti non sono né ricchi né celebri. Non sono
emarginati sociali, non sono elementi devianti. Sono tecnici,
impiegati, addetti del terziario, funzionari o quadri aziendali.
Persone come quelle che frequentiamo e incontriamo quando andiamo
al lavoro. E' gente “media” che vive appieno le problematicità di
una vita media, con le sue paure esistenziali, le sue
insoddisfazioni quotidiane.
Sta dicendo che il successo dei suoi romanzi
si spiega solo attraverso questo riconoscimento nei protagonisti
da parte dei lettori?
C’è anche un altro elemento: è più facile essere interessanti
parlando di cose che non vanno o, addirittura, vanno male. Direi
che proprio la descrizione di quelle menzogne abituali e patetiche
che la gente si racconta per riuscire a tollerare l’infelicità
della propria esistenza fanno il successo dei miei romanzi.
Al centro delle polemiche che l’hanno
investita vi è l’accusa di dipingere in crisi l’Occidente. Ma
cos’è per lei e cosa rappresenta oggi la civiltà occidentale?
Semplificando al massimo potremmo dire che l’Occidente è la
zona del mondo che vive senza religione, nel senso che da noi si è
definita una civiltà che non ha bisogno di fondarsi su un’unica
verità, certa e acquisita per tutti. Diciamo anche, e meglio, che
l’Occidente è la zona del mondo che ha rinunciato a concepire la
sua tradizione religiosa come una concezione globale della vita
che spiega e dà forma a tutta l’esistenza, compresa la sfera
pubblica e giuridica e la dimensione politica. Con questo voglio
dire che se anche il Giappone e la Corea diventassero paesi
ricchissimi non per questo entrerebbero a far parte dei paesi
occidentali. Al cuore della nostra civiltà abbiamo, infatti, la
secolarizzazione compiuta e il relativismo delle opzioni
culturali. Certo, c’è una forte ambivalenza tragica in questa
situazione: perché se vero è che nell’Occidente non ci sono più
valori condivisi e assoluti, è anche vero che è sempre meglio non
avere valori che avere valori negativi. E in questa difficoltà si
racchiude oggi la nostra condizione postmoderna: può sui tempi
lunghi sussistere una società senza una propria visione del mondo,
senza una religione, senza un’autorità spirituale unificante?
Molti studiosi tendono a sottolineare le
varie dimensioni della civiltà occidentale: esiste, ad esempio, a
suo avviso una differenza tra l’Occidente europeo e quello
americano?
Gli Stati Uniti sono diventati il modello ideale di tutto
l’Occidente, l’archetipo di quello che molti chiamamo l’Estremo
Occidente. E i vari paesi occidentali tendono ad avvicinarsi, chi
più chi meno, a quel modello. E' una considerazione comune quella
che ci fa dire che i fenomeni che si vivono oggi negli States
arriveranno anche in Europa tra qualche anno. L’America, insomma,
è come il destino dell’Occidente. Personalmente, però, ho una
sensazione diversa. Gli Stati Uniti sono un paese in cui io mi
sento molto a disagio. In primo luogo perché ho paura di camminare
per la strada, ho paura che mi uccidano. E, forse, non si tratta
solo della paura di un’aggressione. In effetti provo anche una
sorta di repulsione estetica. Gli americani mi sembrano persone
troppo irascibili, che parlano a voce troppo alta. Sono abbastanza
insopportabili. Il secondo motivo per cui non amo gli Stati Uniti
è perché lì non posso fumare dove e quando più desidero: troppi
divieti, troppi condizionamenti dei fondamentalismi puritani. Il
politicamente corretto impone troppe infrazioni al mio modo di
concepire e vivere la libertà individuale. Infine c’è un terzo
motivo: trovo bruttissime le ragazze americane. Per non dire del
fatto che negli States la televisione fa programmi pessimi,
bassamente pedagogici e la gente è ignorante. Prevale un mix tra
multiculturalismo e puritanesimo.
Esiste, da questo punto di vista, il rischio
di un fondamentalismo occidentalista? Quel puritanesimo cui
accennava prima non potrebbe, infatti, trasformarsi nella nostra
versione di una deriva intollerante e integralista?
Onestamente non credo che l’Occidente possa arrivare alle crudezze
del fondamentalismo che si ispira ai monoteismi orientali. Mi
limito solo ad una evidenza: il mercato legato al sesso, ad
esempio, è in Occidente troppo importante perché da noi possa
trionfare un puritanesimo occidentale o un proibizionismo sessuale
di massa. Penso, però, che il livello di disgusto degli
occidentali per ciò che è carne sia diventato talmente diffuso al
punto che il sesso, in Occidente, rischia di essere limitato
soltanto al mercato professionale.
In questo senso, nel suo ultimo romanzo c’è
una frase esplicativa: “Tu sei una persona normale – afferma il
protagonista alla compagna Valérie – e da questo punto di vista
non hai niente in comune con gli occidentali di oggi”. Può
spiegarsi meglio?
Io tendo a spiegare la parabola dell’Occidente attraverso il
declino della sessualità nelle nostre società. La mia impressione
è che noi occidentali abbiamo perduto completamente il senso del
dono. Per cui, per quanto ci affanniamo, non riusciamo più a
sentire il sesso come qualcosa di naturale. Siamo diventati
freddi, razionali, sicuramente consapevoli dei nostri diritti
individuali ma nel concreto, ossessionati dalla purezza e
dall’immunità, non riusciamo più a esaudire il desiderio. E' come
se la gente non avesse più voglia di scambiarsi qualcosa. Abbiamo
centinaia di milioni di occidentali che hanno tutto quello che
vogliono ma dentro di loro provano tutti un’insoddisfazione di
fondo: non trovano vero appagamento sessuale. E' una situazione
generalizzata di cui sono convinto. Tutti cercano, cercano in
continuazione, ma non trovano soddisfazione.
Come se il desiderio fosse stato soggetto ad
una sorta di parabola, che, dalla fine degli anni Sessanta, vive
oggi la sua fase discendente…
Più che di mancanza di desiderio parlerei oggi di una diffusa
patologia sociale che coincide con la mancanza di piacere. Anzi,
mi sembra che oggi il desiderio sia sempre maggiore perché
raggiunge il suo massimo quando non è soddisfatto. Dire che il
desiderio è al massimo quando non viene soddisfatto implica una
riflessione più ampia sul significato dei consumi. Sono davvero
fuori strada le vecchie interpretazioni moralistiche e
anti-consumistiche. Non c’entrano i condizionamenti di fantomatici
persuasori occulti. La questione è più complessa e riguarda la
dialettica tra il desiderio e la soddisfazione. Qualsiasi prodotto
si compri alla fine risulta, comunque, deludente. L’oggetto
desiderato delude, o perché è costruito per durare poco, oppure
perché è fuori moda. Viviamo dentro un meccanismo che ci porta
continuamente a rinnovare o provocare il desiderio senza mai
dargli pienamente soddisfazione.
Nei suoi libri appare in tutta evidenza la
metafora esistenziale della generazione del ’68 e della
rivoluzione sessuale: per una strana eterogenesi dei fini la
libertà si è trasformata in disperazione...
La generazione del ’68 ha valorizzato la gioventù e il desiderio.
Voleva riprendersi il diritto di vivere e portare la fantasia al
potere. Essendo invecchiata è diventata un po’ meno giovane e un
po’ meno desiderabile. E tutto ciò ha generato in coloro che di
quella generazione hanno fatto parte un inevitabile disgusto per
loro stessi. L’esito finale è un cinismo generalizzato
accompagnato alla mancanza di qualsiasi tensione esistenziale.
A questo proposito, nel suo libro su
Lovercraft, lei ha scritto: “Il liberalismo è passato dal campo
economico a quello sessuale. Tutte le convenzioni sentimentali
sono andate in pezzi. La purezza, la castità, la fedeltà, la
decenza sono diventate marchi infamanti e ridicoli. Oggigiorno il
valore di un essere umano si misura ormai tramite la sua utilità
economica e il suo potenziale erotico...”. Era un passaggio
inevitabile?
Sì, era inevitabile. Diciamo che la prostituzione rappresenta una
variazione nell’ambito del sistema e consente di recuperare
l’insufficienza del potenziale erotico grazie ad un’efficacia
economica. Del resto le culture rivoluzionarie non solo non sono
riuscite a creare l’uomo nuovo ma hanno fallito. Alla fine del
Novecento, a Ovest come a Est, al Nord come al Sud del mondo
prevale solo una domanda: il bisogno di denaro. Fallite le
illusioni, nessuno è più disposto a lasciarsi allettare da nuovi
falsi miraggi, nessuno si sente più spronato dalla speranza di
poter un giorno godere della fatica comune. Resta solo la ricerca
della soddisfazione individuale.
Il quadro che lei delinea è realistico.
Tanto che la generazione degli attuali trentenni e quarantenni –
alla quale appartengono in genere i protagonisti dei suoi romanzi
– appare sempre fuori posto, senza certezze e senza consistenza.
Perché?
Penso che questa sensazione provenga dal fatto che si
tratta della prima generazione che è stata allevata senza una
reale autorità parentale o perlomeno paterna, un’autorità forte. E
da qui avverte naturalmente un’impressione di vaghezza, di
inconsistenza. Credo che sia una generazione che ha bisogno di
sicurezza. Proprio per questo è poco avventurosa, poco
rivendicativa, poco energica a livello di sogni e ideali. Penso
che in questi ultimi vent’anni sia andata perduta la sensazione
collettiva della possibilità di una sicurezza.
Da questo punto di vista lei è forse il
miglior descrittore contemporaneo del disastro relazionale. Nelle
pagine dei suoi romanzi traspare la disperazione per la mancanza
di relazioni stabili...
Credo di provare la sensazione comune alla maggioranza delle
persone. Ormai credo esclusivamente nei rapporti individuali. E il
fatto che esista soltanto il rapporto individuale fa sì che il
fallimento delle coppie diventi un evento ancora più drammatico.
La coppia rappresenta l’ultimo nucleo comunitario che separa
l’individuo dal puro mercato.
Sembra un paradosso: una delle
caratteristiche più illiberali delle società cosiddette liberali è
oggi l’egemonia dei divieti “politicamente corretti” che ammorbano
la nostra quotidianità. Sembra non esserci più spazio per una vera
privacy. Cos’è e cosa dovrebbe essere per lei la libertà?
Questa è una domanda... davvero difficile. Secondo me la
libertà è un insieme di sensazioni umane, troppo umane. Essere
liberi è poter sperimentare queste sensazioni. E' vero che non
possono essere provate quando la popolazione è troppo densa,
quando c’è troppa gente. L’aspetto più fastidioso di questa
egemonia culturale del “politicamente corretto” che ha invaso la
nostra vita sta nel fatto che rende le persone non realmente
responsabili dei loro atti. Ed è un aspetto che si manifesta in
vari modi: a volte è legato ad un eccesso di interesse verso la
salute e quindi induce a limitare il più possibile i comportamenti
a rischio. Oppure c’è un tentativo di ricostruire l’umanità in
modo tale che non possa avere più cattivi pensieri. E' legato
anche allo stemperarsi della repressione. La posizione libertaria
è proprio l’opposto: più che sanzionare preferisce appunto non
censurare i cattivi pensieri o i comportamenti a rischio.
Un’altra delle caratteristiche delle società
occidentali avanzate è il montante disprezzo per la politica, la
cosiddetta antipolitica. Come la spiega?
Mi sembra una reazione sana e giusta. Mi pare una cosa positiva
che la gente non si occupi a tempo pieno di politica e che voti
sempre meno. Trovo, infatti, che fare leggi sia un lavoro talmente
noioso e tecnico che è del tutto normale che non interessi
nessuno. Ci sono nella vita tante cose più interessanti e capaci
di suscitare passione. Più passa il tempo meno provo simpatia per
le persone che hanno un’opinione politica. Per quanto mi riguarda
lascerei tranquillamente il governo in mano ai tecnocrati. A
condizione, ovviamente, che mi lascino in pace.
Lei appare come un umanista alla rovescia.
Chiudeva il suo libro Le particelle elementari scrivendo: “Questo
libro è dedicato all’Uomo”. In che senso? Come possiamo riscoprire
l’umanesimo dopo la catastrofe postmodernista?
Beh, ci vuole realismo e non illusione. Alla fine di quel libro
lodavo l’umanità per aver avuto il coraggio di dar vita ad una
nuova specie destinata a sostituirla. Sarebbe per me una cosa
notevole. Non occorre avere paura della scienza e dei processi di
artificializzazione. Così come sono davvero fuori luogo nostalgie
premoderne e fughe nel naturalistico. L’umanesimo intanto non
c’entra niente. Sono infatti convinto che, ad esempio, se i
delfini avessero creato una società tecnologica la morale sarebbe
più o meno la stessa, così come se ci fossero dei robot
intelligenti ci sarebbe lo stesso tipo di morale. Credo che la
morale non dipende in assoluto da particolari biologici o
genetici. E' comunque una cosa positiva che il Novecento si sia
concluso. Il ventunesimo secolo sarà l’occasione per ripensare un
certo numero di cose e un certo numero di problemi a cui sono
state date delle risposte che poi, alla prova dei fatti, si sono
rivelate delle fandonie o delle mistificazioni. In fondo il
Novecento non ha generato nessun filosofo che non sia degno degli
altri secoli, le stesse scienze umane si sono rivelate
estremamente premature. Di tutte le teorie psicologiche formulate
nel XX secolo credo non rimarrà nulla. Forse gli unici aspetti
positivi riguardano le acquisizioni compiute dall’antropologia e
dalla filosofia della scienza. Anche a livello di economia non si
sa niente di più che non si sapesse già un secolo fa. Non parliamo
della sociologia e del pensiero politico: continuiamo a ripetere
cose vecchie. Il cammino delle scienze umane nello scorso secolo è
stato in definitiva davvero deludente, paragonato ai risultati
raggiunti dalle scienze biologiche e dalle scienze fisiche.
Eppure la sua biografia intellettuale sembra
dimostrare il contrario. Come fa un uomo di scienza a diventare un
letterato?
Le scienze sono importanti ma forse non appassionano abbastanza.
Per quanto mi riguarda è infatti vero che anche nel periodo in cui
mi occupavo professionalmente di questioni scientifiche scrivevo
anche. Non si tratta di trasformarsi ma solo di cambiare rotta.
25 aprile 2002
(da Ideazione 2-2002, marzo-aprile) |