Marx, Pol Pot e il popolo di Seattle
di Guglielmo Piombini


I veri marxisti? Stanno con l’Occidente, sono favorevoli alla globalizzazione, e non hanno niente in comune con i rivoluzionari terzomondisti e pauperisti della sinistra di oggi. La tesi dello storico Aurelio Lepre è di quelle che fanno sobbalzare sulla sedia non solo i marxisti, ma anche i loro avversari. L’uguaglianza nella miseria tipica dei socialismi asiatici o africani, spiega Lepre, è estranea alla visione di Marx ed Engels, per i quali il comunismo avrebbe dovuto affermarsi nelle nazioni industrialmente più avanzate. La rivoluzione comunista, invece, ha seguito la strada opposta, dilagando in paesi sempre più poveri ed arretrati: Russia, Cina, Cuba, Vietnam, Cambogia. Queste esperienze contraddicono non solo il carattere eurocentrico della dottrina marxiana, ma anche l’idea secondo cui il massimo sviluppo della produzione rappresenta l’indispensabile condizione di partenza per l’avvento del comunismo. A prima vista questa tesi – che gli orrori del comunismo non vanno messi in relazione con la teoria elaborata dagli autori del Manifesto del partito comunista – non sembra particolarmente innovativa: è stata il leit-motiv degli intellettuali di sinistra nelle polemiche che hanno seguito la pubblicazione del Libro Nero del Comunismo. L’autore però, ed è questo l’aspetto originale del libro, richiamandosi all’insegnamento di Marx condanna non solo il passato della sinistra, ma anche il presente, in particolar modo quello impersonato dal confuso e velleitario “popolo di Seattle”.

Per dimostrare la sua tesi, Lepre sottolinea che i nuovi rivoluzionari sono contro la globalizzazione, mentre Marx ne era un celebratore; considerano una sciagura la formazione del mercato mondiale, che per Marx rappresentava la premessa per la costruzione di una civiltà universale; si lamentano per il decadimento degli stati e delle culture nazionali, ma Marx si felicitava dell’ “azione civilizzatrice” del capitale, che era riuscita “a superare sia le barriere e i pregiudizi nazionali, sia l’idolatria della nazione”; credono che lo sviluppo industriale comporti inevitabilmente la distruzione dell’ambiente, ma Marx auspicava il completo assoggettamento della natura al potere dell’uomo. E ancora: i nemici della globalizzazione denunciano l’aggressione economica al Terzo mondo, mentre Marx non condannava, ma riteneva necessaria l’integrazione dei paesi arretrati con l’Occidente industriale. Infine, nel loro moralismo anticonsumistico, i rivoluzionari di oggi avversano la ricchezza, mentre il filosofo di Treviri la pensava esattamente all’opposto. Marx non ha mai lodato la povertà, ma ha sempre collegato il “regno della libertà” al raggiungimento di un alto livello di benessere. Per questi motivi il fondatore del “socialismo scientifico” avrebbe disprezzato non solo i disastrosi comunismi anti-occidentali del XX secolo, ispirati dai vari Lenin, Stalin, Mao, Che Guevara, Pol Pot, ma anche tutte le rivendicazioni del “popolo di Seattle”. Poiché la globalizzazione rappresenta l’unica e vera rivoluzione dei nostri tempi, secondo Lepre l’Occidente dovrebbe recuperare la propria intera tradizione filosofica, compresa quella marxiana, per contrastare chi combatte la civiltà europea. L’autore sembrerebbe quindi suggerire ai marxisti e ai liberal-capitalisti di marciare uniti verso il medesimo obiettivo, la totale affermazione del capitalismo globale, almeno fino a quando non si sia pervenuti allo stadio di massimo sviluppo delle forze produttive.

Non tutto il discorso però fila liscio come dovrebbe. Innanzitutto, coloro che non credono alle leggi della dialettica storica difficilmente si persuaderanno che la globalizzazione rappresenti una tappa sulla via del comunismo. In secondo luogo, Lepre sottovaluta la carica millenaristica e terroristica degli scritti di Marx e di Engels, pur ammettendo che “il Marx che ha ancora molto da insegnare non è il teorico della rivoluzione, della violenza levatrice della storia, che finora, invece di aiutare i bambini a nascere, ha provocato solo aborti”. Ma soprattutto, siamo sicuri che l’ideale di Marx non abbia nulla a che fare con quello di Pol Pot? Autorevoli studiosi (si pensi alle analisi svolte in Italia da Luciano Pellicani) hanno messo in evidenza, con dovizia di particolari, la linea di continuità che esiste tra Marx e il Gulag. Altri autori, come il grande economista americano Murray N. Rothbard, hanno addirittura affermato che la società senza classi immaginata da Marx ed Engels, in cui sono aboliti il mercato, la proprietà privata, il denaro e la divisione del lavoro, rappresenta un ideale ancor più mostruoso dei socialismi realizzati: un’utopia negativa che solo i khmer rossi cambogiani, con il loro comunismo integrale, sono riusciti ad avvicinare. Malgrado queste obiezioni che possono essergli mosse, le tesi esposte nel libro di Lepre sono suggestive, e daranno sicuramente da riflettere a tutti coloro che continuano a considerarsi eredi della tradizione marxiana.

25 aprile 2002

Aurelio Lepre, Che c’entra Marx con Pol Pot? Il comunismo tra Oriente e Occidente, Laterza, Roma-Bari, 2001, pp.175, €. 12,39
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