La polis sommersa: Hannah Arendt e la
politica
di Dolf Sternberger
Nessuno ai giorni nostri ha colto in modo così decisivo e ha fatto
brillare in forma così luminosa come Hannah Arendt l'idea
dell'antica polis. Non parlo di ricerca storica e filologica, né
delle sfumature interpretative della "Politica" di Aristotele (o
della Repubblica di Platone), ma dell'acquisizione filosofica,
della precisa rinascita del concetto greco o, più esattamente,
aristotelico di polis: politica e cittadinanza. Lo definisco un
risveglio "filosofico", pur sapendo che ella stessa, nella sua
spensierata ostinazione, che non tollera un uso trascurato delle
parole, volle tracciare una linea di demarcazione così netta fra
filosofia e politica, fra l'ambito della contemplazione e quello
dell'agire, che l'espressione "filosofia politica" divenne per lei
un ferro ligneo, un vero e proprio controsenso. La sua
"disciplina" quindi non avrebbe dovuto chiamarsi "filosofia
politica", ma "teoria politica". La distinzione è certamente
sensata e comprensibile, ed è anche assai indicativa
dell'inflessibile forza e perseveranza nel distinguere che segna
tutto il suo modo di pensare, e di cui vedremo subito esempi
importanti. Ma in questo caso essa ha qualcosa di vano e
stimolante insieme: anche la più energica riabilitazione
dell'agire nella sua peculiarità, anche il più caparbio
rovesciamento delle gerarchie di pensiero e agire, di vita in
solitudine e vita sulla scena pubblica, anche il più urgente
richiamo alla libertà affinché diventi reale unicamente come
libertà pratica, e cioè come libertà politica, nello spazio della
polis, tutto ciò rimane inevitabilmente una mera aspirazione
filosofica. Hannah Arendt non ha fondato uno stato, non ha
progettato una costituzione, non ha favorito una rivoluzione;
piuttosto ha tentato di conoscere e portare a livello dei concetti
l'essenza della fondazione di uno stato, l'essenza della libera
vita costituzionale, l'essenza di una rivoluzione, strappando
queste essenze alle tenebre della storia e al labirinto
dell'esperienza; e così è rimasta un filosofo. E' questo
all'incirca ciò che soprattutto le si deve.
Il suo nome sta a indicare un rinnovamento radicale e al tempo
stesso originale della filosofia politica, ossia del concetto,
della rappresentazione, dell'ethos e del pathos del politico. Si
tratta, infatti, del concetto aristotelico isolato da tutte le
convenzioni, le confusioni, gli intorbidamenti, fresco come una
nuova creazione, del concetto aristotelico e non di quello
platonico. Non c'è un'altra frase dei classici da lei citata più
spesso e più volentieri di quella tratta dal primo libro della
Politica di Aristotele, secondo la quale l'uomo è per natura un
essere politico e, al tempo stesso, l'unico essere che ha il dono
della parola (logos). La Arendt ha sempre riunito le due varianti
di questa doppia connotazione in un' unica determinazione,
conferendole un significato pieno, del tutto sensibile e
sperimentabile: "gli uomini sono esseri capaci di politica, perché
sono esseri capaci di linguaggio", ossia: la politica consiste nel
parlare insieme e, naturalmente, nell'agire insieme. I fenomeni
della discussione e del dibattito si manifestano sempre là dove,
nel medium storico così come in quello attuale, si vede affiorare
l'idea della politica: così è stato per i padri della costituzione
americana, così per gli studenti che si ribellano, così per i
consigli degli operai e dei soldati, per i quali ha dimostrato
un'elementare simpatia, nello stupore di molti dei suoi amici e
ammiratori.
Nei suoi scritti si può agevolmente osservare come quella
definizione aristotelica sia davvero radicata in lei in tutte
queste vicende, sebbene appartengano a epoche completamente
diverse, nascano da motivi del tutto diversi, aspirino a scopi
totalmente diversi, nonostante ella, nello stesso momento, spazzi
via enfaticamente queste diversità, soprattutto quella fra mondo
antico e mondo moderno: è questo paradosso del ritorno nella
differenza, che brontola nell'intimo dell'anima, nel cuore del suo
pensiero politico e che, mi sembra, non è mai stato risolto. Se si
parla apertamente della polis stessa, le forme del discorso, della
discussione e del dibattito vengono per lo più oscurate da un
altro fenomeno, che però ha poco a che fare con Aristotele, a
maggior ragione con i poeti antichi, forse anche con gli
storiografi. E' la competizione del discorso, l'agone delle
parole. Il momento del nobile certamen, della competizione nel
parlare come nell'agire, del "desiderio di distinguersi", in
realtà un momento di gioco più alto, nell'immagine che la Arendt
si è fatta non solo della polis ma della politica in generale e
per eccellenza, assume dunque una posizione centrale. E' una cosa
che mi ha sempre sorpreso. In realtà l'idea della vita "agonale"
ci è stata inculcata dalla scuola e dai filologi classici, si
tratta quasi di un luogo comune; ma forse questo fenomeno - che,
per quanto riguarda il discorso, ci risulta più chiaro nel
Simposio di Platone - non è mai stato preso filosoficamente tanto
sul serio come qui e, soprattutto, non è mai arrivato alla
determinazione e alla descrizione dell'essenza della politica. La
competizione delle parole e delle azioni come pulsazione dello
stato! (In queste espressioni si percepisce l'enorme distanza fra
questa filosofia politica e l'odierna scienza politica o anche la
dottrina dello stato). L'analisi più vicina di questo fenomeno,
come la Arendt l'ha delineata qua e là - senza pedanteria, sempre
condotta e anche fuorviata da un'appassionata fantasia del
pensiero - mostra il singolo, il cittadino della polis, nel doppio
ruolo di attore e spettatore: egli esiste "in un auditorio nel
quale ciascuno è allo stesso tempo spettatore e co-attore", e
proprio questo tipo di "pubblico", di sfera pubblica, è la polis;
"l'ambito politico" in generale.
A prima vista, questo concetto di politica può sembrare e il
fenomeno che descrive molto raro. L'autrice stessa era convinta
della sua rarità storica. Però lo ritrova pur sempre in perfetta
purezza, trova ancora una volta gli stessi pensieri espressi in
tutta chiarezza: "every individual is seen to be strongly actuated
by a desire to be seen , heard, talked of, approved and respected
by the people about him, and within his knowledge". Sono parole di
John Adams, il più erudito fra i "padri fondatori" dell'unione
americana e, allo stesso tempo, quello verso il quale Hannah
Arendt manifesta la più vivace propensione - ma ella ha con tutti
i suoi maestri un rapporto affettuoso, anche amoroso, nel cui
calore gli spiriti sembrano animarsi: Platone, Machiavelli, Kant,
Adams e Jefferson, addirittura Marx. E per Adams, dice la Arendt,
questo "desiderio di essere visti, ascoltati dalla gente, il
desiderio che la gente parli di noi e quello di ottenere il suo
plauso e la sua attenzione" equivaleva ad una virtù politica. E'
certo che lei stessa pensava e sentiva a questo modo, senza
preoccuparsi o farsi disturbare da tutta la diffidenza psicologica
e anche da tutto lo zelo cristiano pascaliano di vincere la
"vanità" umana, che è invincibile. Il lato privato degli impulsi,
degli interessi e delle motivazioni non riguarda la sfera
pubblica, è privo di importanza per l'ambito pubblico, cioè
politico; qui l'apparire è l'essere e la dottrina dell'essere,
l'ontologia della politica qui esposta o dissotterrata, non
conosce nessuna psicologia. Con tutta la spavalderia di cui
disponeva, la Arendt considerava pura misantropia quella moderna
scienza psicologica e sociologica dello smascheramento, che oggi
sembra aver ottenuto, alla fine, lo status di scienza.
Con quelle affermazioni contro l'apparenza non siamo lontani da
Aristotele. "Perché lo stato è per sua natura una molteplicità",
si dice nel secondo libro della Politica, in quel profondo punto
che costituisce la decisiva, efficace critica allo stato unitario
di Platone: se si potesse trasformare lo stato in una famiglia o
unificarlo al modo di una persona, "una cosa del genere non si
potrebbe assolutamente fare, perché in questo modo si
sopprimerebbe lo stato". Nonostante tutta la sua ammirazione
filosofico-letteraria per Platone, la Arendt è rimasta
completamente e imperturbabilmente in questo solco. In tutti i
suoi scritti relativi a questo problema ritorna il momento della
molteplicità, della pluralità, come elemento costituente
fondamentale dell'ambito politico da cui derivano quel parlare e
quell'agire insieme, così come quella competizione e quel
"desiderio di distinguersi". La Arendt insiste con tanta decisione
su questo fondamento "esistenziale" e su questa caratteristica
della molteplicità e del "rapporto con gli altri", da giungere
all'audace verdetto secondo cui "la maggior parte della filosofia
politica dopo Platone" si può descrivere come una storia dei
tentativi "di sbarazzarsi della politica in generale". (Ciò può
valere per lo stesso Platone, sicuramente per Hobbes e Rousseau,
ma altrettanto sicuramente non per Tommaso e i suoi seguaci, per
Marsilio, per Locke e Montesquieu. Infatti, dalla fine del XIII
secolo esiste una tradizione di aristotelismo politico che si è
diffusa enormemente e ha prodotto effetti durevoli soprattutto
nell'ambito angloamericano, ma non è mai stata rappresentata
globalmente ed elevata alla coscienza). La formulazione ha però il
vantaggio di estrarre e ritagliare interamente, grazie a questa
tagliente esclusione, l'idea della politica da tutti i miscugli ai
quali è stata sacrificata: "politica" viene da polis, la polis è
la molteplicità dei suoi cittadini, la società dei liberi e degli
uguali, ma essa "cessa di esistere" non appena viene subordinata
all'unità dello stato, assorbita e neutralizzata in esso. Questa
unità è la fine non solo della molteplicità, ma anche della
libertà e dell'uguaglianza di questi molti individui, e perciò
nella costruzione utopica di Platone è insito già solo per questo
un "elemento tirannico-autoritario".
Alla molteplicità (in questo senso aristotelico, che è quello a
cui la Arendt pensa) corrisponde la libertà; all'unità, invece, il
dominio. Quest'ultimo appartiene però all'ambito della casa e non
a quello della polis, alla vita privata e non a quella pubblica.
Il dominio è, nell'esatto senso letterale, "apolitico, non facente
parte della polis". E' vero che questa differenziazione, questa
contrapposizione, contrasta strettamente con l'uso moderno delle
parole e con la capacità intellettiva moderna, perché siamo
abituati a utilizzare il dominio come concetto politico elementare
e ad assimilare senza esitazione il fenomeno del dominio ai
fenomeni del governo, del potere e dell'autorità, e tale
assimilazione ha la sua lunga e vasta preistoria soprattutto nella
scienza sociale moderna, ma purtroppo è diventata apertamente
autorevole anzitutto grazie al grande Max Weber. E tuttavia qui la
Arendt non ha fatto altro che mettere a nudo i fenomeni e i
concetti che erano ovvi per Aristotele: li ha messi a nudo ma li
ha anche presi sul serio. Da qui il suo motto deciso, scioccante e
tuttavia perfettamente coerente e assolutamente aristotelico: "Il
dominio distrugge lo spazio politico, e il risultato è
l'annientamento della libertà per i dominatori e per i dominati".
Ho visto come il suo volto si illuminò quando, in un seminario a
Chicago, si discuteva di Erodoto e quando vennero pronunciate le
parole di quell'ateniese al quale viene proposto il dominio sui
barbari: "Non voglio dominare né essere dominato". La casa di
quest'uomo, scrive Erodoto, era l'unica casa di un uomo libero in
tutta la Persia. La differenza fra casa e stato come differenza
fra dominio e libertà è forse la più significativa, la più
efficace, che Aristotele abbia trovato, tanto che egli la espresse
subito nelle prime pagine della sua opera, in contrasto con il suo
maestro Platone. I cittadini del suo stato sono liberi e uguali -
uguali in quanto pari per nascita e per legge -, perché ognuno è
signore nell'ambito della sua casa (in greco: despótes), cioè
signore della famiglia compresi gli schiavi.
La "società" moderna è divisa da quella antica dal profondo
divario scavato dalla scoperta, dalla dichiarazione e
dall'imposizione dei diritti umani. Su ciò anche Hannah Arendt non
nutre il minimo dubbio, anzi, nelle sue riflessioni e nei suoi
concetti sottolinea così nettamente questo fossato divisorio, che
a volte ci si chiede cosa sia ancora possibile sperare nel nostro
mondo e se la stessa "politica" non sia declinata e affondata
insieme alla polis. E tuttavia questa pensatrice, questa
scrittrice è totalmente aliena dal dolore e dalla rassegnazione
romantica; non la si sente mai lamentarsi. E ha scoperto, studiato
e descritto almeno un evento della storia più recente, nel quale
sembra ritornare l'idea originale della politica: la rivoluzione
americana, la fondazione rivoluzionaria dello stato, la fondazione
della costituzione dell'Unione o, con una parola che le diventò
così cara come lo fu per i"padri fondatori": la nascita della
"Repubblica". L'analisi di questo processo si trova nel punto
centrale del suo libro "Sulla rivoluzione", e la sua conclusione,
approssimativamente, è che, sebbene la Arendt si mostri
affascinata dal fenomeno moderno di tutte le rivoluzioni in quanto
tali, alla fine solo quella americana, fra tutte, ha il merito di
aver ripristinato o restaurato la "politica". "In nessun caso si è
ripetuto quello che si era messo in moto per la prima volta nella
rivoluzione americana. L'attività costituente non fu mai
considerata la più importante e la più significativa fra tutte le
azioni rivoluzionarie". Qui bisogna osservare che l'attività
"costituente" non consisteva semplicemente nella creazione del
diritto, ma nella fondazione dello stato, e come tale viene
abbracciata dall'autrice - che fu un filosofo, e non uno
storiografo - con tutto il pathos dell'inizio. Era come se, mentre
questa "Repubblica" veniva creata, il mondo "politico" (nel senso
autentico della parola) uscisse nuovamente dalle tenebre della
storia.
All'"inizio" di un'azione, alla prima stretta di mano di un patto
(nel caso dei padri pellegrini), alla fondazione della città e
dello stato come comunità di uomini liberi, viene assegnato
costantemente nel pensiero politico di Hannah Arendt un segno
distintivo, tanto da ricondurre l'autorità politica per eccellenza
- al di là della ratifica e della legittimazione religiosa -
all'atto di fondazione politico e alla sua continua presenza. In
un certo senso, non cattivo, la Arendt guarda la storia con occhi
antistorici: durata, origine, vita e riforma non hanno grande
valore per lei, non comunque quanto il nuovo inizio, il principium
latino, l'archè greca. Per usare le parole del nostro maestro Karl
Jaspers, sono gli "istanti alti" che ella cerca di afferrare e
capire, però non quelli etici, come intendeva Jaspers, bensì
proprio quelli politici, quelli in cui compare l'elemento politico
come fenomeno originario, come categoria, come "esistenziale", per
quanto fugace. Di qui anche il suo interesse per la rivoluzione,
di cui beffardamente e non senza una superiore spensieratezza
voleva accettare "l'odore di carogna". Per quanto riguarda il
momento aristotelico o classicistico della fondazione
rivoluzionaria americana, ella qui può richiamarsi come minimo a
quel grande e schietto pubblicista della rivoluzione che fu Thomas
Paine, che coniò la sbalorditiva frase: "what Athens was in
miniature, America will be in magnitude". Intendeva la repubblica
dei liberi cittadini, ma pensava alla repubblica "rappresentativa"
- che credeva capace della ricostruzione della polis in uno spazio
vasto e con una numerosa popolazione -, e di cui tuttavia Hannah
Arendt, d'altra parte, non ne vuole molto sapere. Parteggiava
infatti per l'anziano Jefferson, che lamentava che ci si era
dimenticati di ancorare nella costituzione i comuni, le piccole
comunità autonome. Ed è questa dimenticanza, è il peso degli
organi centrali e la riduzione dell'"agire collettivo" ai membri
degli organi rappresentativi, la condanna di molti al ruolo di
semplice elettorato, che a lei appare come l'imperfezione
decisiva, l'errore increscioso, il triste esito della rivoluzione
americana, quasi un fallimento, ma solo quasi.
Ella è stata in fondo, con tutte e nonostante tutte le esperienze
pubbliche eccitanti del suo periodo a New York e negli Usa,
un'americana "politica" convinta, un citizen con tutto il cuore.
(E' superfluo aggiungere quanto sia rimasta, allo stesso tempo,
una pensatrice e una scrittrice tedesca; lo sappiamo bene, così
come ella stessa sapeva e ammetteva). Pensando, il suo spirito si
muove nell'antica polis come il bambino fortunato della favola nei
vicoli della città sprofondata. Si orienta felice e sicura come in
un sogno, apre gli occhi con gioia e riconosce il mercato,
l'assemblea, anche l'accademia, ascolta le grandi parole, vede le
grandi azioni, respira l'aria della libertà. Fra le durature e
grandiose scoperte della Arendt dobbiamo includere la separazione
della libertà positiva - dell'avere parte e del prendere parte
attiva agli affari pubblici - dalle liberazioni sociali e dal loro
frutto, dalle libertà civili private protette dallo stato. Nessun
altro ha reso riconoscibile così nettamente questa limitazione
dello stato di diritto. Così ha iniziato ella stessa, nei
concetti, una constitutio libertatis. Ma non è stato necessario il
canto del gallo per riportarla dalla città sommersa sulla
superficie della terra e nel presente, che ella conosce
perfettamente e per diretta esperienza, compresa quella sulla sua
pelle. Soprattutto l'esperienza del male. Così dobbiamo alla fine
parlare del sistema di ideologia e terrore, del "totalitarismo",
che la Arendt in un estremo sforzo di volontà di conoscenza ha
indagato, sia quello nazionalsocialista che quello bolscevico.
"Queste due ideologie sono così diverse l'una dall'altra, così
grandiosamente piene della migliore tradizione occidentale del
materialismo dialettico, così miseramente volgari, benché si
basino su un vero elemento d'esperienza, il razzismo, che sfocia
in ogni caso in una legge dell'eliminazione del "dannoso" o del
superfluo a favore dello scorrere senza attrito di un movimento da
cui alla fine dovrebbe nascere un nuovo tipo di umanità, come la
fenice dalle proprie ceneri. Se la legge del movimento venisse
tradotta in diritto positivo, il suo ordine potrebbe essere
soltanto: devi uccidere!". Bisogna ammettere che questa
"dichiarazione" è ben difficilmente superabile e che sarà
difficile proseguire ulteriormente l'analisi razionale, per lo
meno finché si conserva immutato il ricordo del male
dell'incomparabile fenomeno. Proprio questo è stato il suo
contributo. Fu quello stesso coraggio intellettuale che subito
dopo la guerra la fece insorgere contro la tesi della "colpa
collettiva" tedesca e le fece trovare la formula liberatoria - che
non passa attraverso sentimentalismi morali, ma attraverso la
precisa conoscenza del meccanismo totalitario - della "colpa
organizzata".
E fu di nuovo lo stesso coraggio intellettuale, che in seguito la
condusse in una situazione così dolorosa per gli altri ebrei in
Israele e in America, quando, da parte sua, non volle tacere e
sminuire quello che durante il processo Eichmann il tribunale di
Gerusalemme aveva cercato di risparmiare: la cooperazione dei
"consigli ebraici" con le autorità naziste nella persecuzione e
nello sterminio del popolo ebraico. Non dico che questo coraggio
sia l'ultimo criterio e l'unica giustificazione morale della
conoscenza nelle faccende umane; esso può essere mitigato o
cancellato con la prudenza - che è una virtù sociale - forse con
la misericordia. La Arendt, però, era troppo audace per essere
saggia. Il "dominio totale" era ed è nei fatti un prodotto
"moderno", che è situato al di là del politico, che vive e si
ingrassa del continuo e progressivo esaurimento di tutte le
libertà, sia attive che passive, pubbliche e private. Se il
dominio in quanto tale, anche quello immaginato del re filosofo
platonico, doveva essere eliminato dalla polis (intesa sia in
senso storico che in quello filosofico più ampio) in quanto
manifestazione antipolitica, perché tirannica o, meglio,
dispotica, allora il dominio totale deve scomparire completamente
da tutte le categorie tramandate delle forme di stato e dei tipi
di governo, anche da quelle della tirannide e del regime
assolutistico che Aristotele ha incluso fra i cattivi, anzi fra i
peggiori. La ricerca arendtiana ha fatto chiarezza su questo
punto. Non ha dedicato, invece, altrettanta attenzione all'altra
faccia degli stati contemporanei, ai cosiddetti prodotti
convenzionali dello stato costituzionale, le cosiddette
democrazie. Sembra misurarle espressamente o tacitamente sul suo
ideale della polis, vale a dire testando la quantità di
possibilità "politiche" dei cittadini, e in questo esse tutte
insieme non rispondono alle sue esigenze. Delle sue riserve nei
confronti del sistema rappresentativo si parlava già nel contesto
americano. Con la stessa cautela giudica il ruolo dei partiti, e
bisogna purtroppo notare che fra la dittatura dei partiti e
l'accordo tra più partiti concorrenti la Arendt ha colto
differenze eccessivamente sfumate e quasi solo casuali. È
certamente comprensibile che il nuovo fenomeno della dittatura dei
partiti, in quanto costituisce lo strumento del dominio totale, si
imponga su una volontà di conoscenza, sollecitata dal
raccapriccio, con maggiore forza del ben noto ma anche abusato
tema del pluralismo partitico; è comprensibile, ma rimane
insufficiente e anche sbagliato. (In questa sua descrizione fanno
eccezione i sistemi bipartitici dell'Inghilterra e degli Stati
Uniti, ma sono presi in considerazione solo con scarsa e tiepida
approvazione).
La sua interessata simpatia si appunta con maggiore intensità ai
"consigli", Councils, Sociétés populaires, Soviets, a quelle
formazioni spontanee che - come la Arendt forse per prima ha
percepito - sono comparse in tutte le rivoluzioni da quella
francese fino a quella ungherese del 1956 (e avrebbe potuto
aggiungere anche i consigli di soldati dell'esercito di Cromwell
nella rivoluzione puritana del XVII secolo). In queste
manifestazioni effimere vedeva balenare ogni volta un presagio,
una possibilità della "politica" della polis, e dopo Jefferson
unicamente in esse e in modo palese mai più e in nessun altro
luogo. Si dovrebbe supporre un'inclinazione quasi ostinata per la
rarità storica, se non si avvertisse una appassionata serietà, che
la spinse poi ad abbozzare lo schema di una repubblica dei
consigli sviluppata: per così dire una sua utopia antiplatonica
dello stato. La partecipazione sarebbe del tutto volontaria, e
quindi limitata a quei cittadini che prendono parte alle vicende
pubbliche; di loro si suppone che non appartengano ad alcun
partito e che quindi agiscano secondo la propria convinzione: lo
stato consisterebbe dunque in una federazione, ma allo stesso
tempo anche in una scala di consigli, con un parlamento nazionale
in cima a questa piramide; ogni consiglio superiore sarebbe eletto
da quello più basso, il resto della cittadinanza, non essendo
personalmente attivo, non prenderebbe neanche parte alla nomina;
complessivamente si verrebbe così a formare una vera e propria
élite "politica" (la Arendt usa questa parola, anche se con
qualche esitazione, e parla addirittura di una "forma di stato
"aristocratica" nel vero e proprio senso della parola").
Chiaramente non si è chiesta perché ogni volta i consigli siano
scomparsi con la stessa rapidità con cui erano nati. Nel caso
della rivoluzione russa di ottobre accusava il partito e il
sistema del partito di aver causato la loro repressione, ma questa
non è una spiegazione, la domanda rimane.
Avrebbe potuto trovare la risposta - mutatis mutandis - in
Aristotele: egli già si arrovellava per trovare un modo non solo
per spingere i cittadini a partecipare all'assemblea e al
tribunale - questo ad Atene era stato in parte risolto con il
pagamento di un'indennità, i famosi tre oboli -, ma soprattutto
per trovare il modo di evitare nell'assemblea il rischio della
supremazia permanente di un partito, quello dei ricchi oppure
anche quello dei poveri, e dimostra che, nonostante tutte le
misure che aveva escogitato, non aveva molte speranze che ciò
potesse riuscire. E quanto più gravemente si porrebbe il problema
della disponibilità nella moderna società del lavoro! Non c'è
dubbio che anche qui si organizzerebbe e si imporrebbe una classe
dell'ozio, sia essa formata dai "ricchi" o dai "rivoluzionari di
professione", che Hannah Arendt ha descritto così brillantemente e
che abbiamo recentemente conosciuto in statu nascendi nei
dominatori e manipolatori delle "assemblee generali" degli
studenti (anche quelli erano consigli spontanei!). Anche le
attuali iniziative civiche offrono molteplici esempi
dell'inevitabile addestramento di gruppi più o meno ufficiali,
senza la cui superiore conoscenza e costante presenza tutto
dovrebbe per lo più disperdersi rapidamente. Durante la
rivoluzione non si lavora, ed è per questo che la gente ha tempo:
è un vero peccato che Hannah Arendt, con il suo divertente
bon-sens non abbia formulato ella stessa questa semplice risposta,
che le sarebbe riuscita in modo sicuramente molto più
scintillante. La domanda e la risposta appartengono a quella
"storia dell'inoperosità produttiva" che, lamentava, non era
ancora stata scritta. Qui si manifesta, però, anche una mancanza
più profonda. La polis originale non poteva assolutamente fare a
meno delle funzioni che, come si legge ancora una volta in
Aristotele, di regola erano monopolizzate dalle famiglie nobili
(e, secondo il filosofo, così doveva essere). Ma, per quanto
riesco a vedere, la Arendt non ha mai prestato attenzione a questo
aspetto della costituzione "politica", né durante i suoi itinerari
nella città sommersa né nelle sue ricerche sulla terra storica. E
il fatto che il fenomeno eternamente ricorrente del governo sia
stato per lei così poco urgente e addirittura così indifferente -
nonostante la sua dettagliata disamina del principio della
separazione dei poteri in relazione a Montesquieu e alla
costituzione americana -, mi sembra che derivi ancora una volta da
un'omissione, che deve dare nell'occhio al confronto con la sua
brillante descrizione fenomenologica dell'agire come forma più
elevata della vita activa; il fine insito in tutto l'agire
politico rimane raramente oscuro, perché tale fine è la decisione.
La discussione, il dibattito, la competizione delle parole, lo
scambio di opinioni da soli non fanno l'agire e non fanno il
"politico" (nel senso deciso che la Arendt ha trasmesso o
recuperato a questa parola), perciò va piuttosto pensata la
decisione che da tutto ciò deve risultare. E bisogna sapere in che
modo si raggiungono le decisioni e in quale luogo vengono in
ultima istanza, responsabilmente, prese.
"Acting is fun" disse Hannah Arendt in un colloquio - e penso che
in queste parole riecheggino le esperienze che ha vissuto la
giovane, erudita letterata, quando, in esilio nelle organizzazioni
di soccorso in Francia e in America scoprì il suo talento
(decantato dagli altri) per l'agire. "Agire è bello"; questo è
sicuramente vero, ma decidere e assumersi la responsabilità della
decisione presa, non importa se di fronte a un'associazione, un
partito, un soviet, un parlamento o un'intera nazione, può essere
un'epoca davvero tormentosa della "vita attiva". Non dubito
neanche per un istante del fatto che la Arendt abbia avuto sia
stata intimamente legata anche a questa esperienza, ma essa non è
entrata a far parte della sua idea della politica, non forma in
essa alcun momento integrale. Anche l'occhio più acuto ha un punto
cieco. Alla fine, quella polis, quella città, in cui la Arendt ha
girovagato e da cui ha tratto la forza e lo splendore delle sue
idee, non è così completamente sommersa come credeva. Forse sarà
possibile ritrovarla in pieno giorno, nella metamorfosi storica.
15 marzo 2002
(da
Ideazione 4-2001, luglio-agosto. Traduzione dal tedesco di Renato
Cristin)
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