Sogno e incubo. Alle radici
dell'antiamericanismo
di Hannah Arendt
Qual è l'immagine che l'Europa ha dell'America? Qualunque essa
sia, rispecchia la reale situazione statunitense e contiene una
valutazione del ruolo americano nella politica internazionale,
oltre ad essere indicativa dell'opinione che la nazione europea si
è formata in merito. Che una tale rappresentazione sia fedele
all'originale rimane opinabile, in quanto essa non può attenersi,
né questo è il suo scopo, ai canoni di oggettività validi per
un'immagine fotografica o per un servizio giornalistico. Non fa
eccezione a questa regola neanche l'idea che le altre nazioni
attualmente hanno degli Stati Uniti, un'idea tanto distorta quanto
quelle che i vari paesi si sono formati l'uno dell'altro nel corso
della loro storia e delle loro relazioni. Se non si trattasse che
di malintesi, di interpretazioni erronee e, sporadicamente, di
violente reazioni frutto di risentimento o avversione, la
questione desterebbe difficilmente più di un limitato interesse
storico. Sono più di uno, tuttavia, gli aspetti per i quali
l'immagine dell'America all'estero non si conforma alla regola
generale. Il primo, e forse il più importante, riguarda l'Europa,
la cui opinione, diversamente da quella degli altri paesi del
mondo, non può essere considerata semplicemente come
un'osservazione ed un'interpretazione di condizioni reali, in
quanto precede nel tempo non soltanto la nascita degli Stati
Uniti, ma addirittura la colonizzazione e, per certi versi,
persino la scoperta del continente americano.
Senza un'idea dell'America, nessun europeo avrebbe mai
attraversato l'oceano; il sogno e lo scopo perseguiti dai coloni
portarono poi una parte della popolazione europea a decidere di
stabilirsi al di là dell'Atlantico. Ad ispirare la colonizzazione
e le istituzioni politiche degli Stati Uniti furono sia la prima
immagine che l'Europa ebbe di questa terra che un ben determinato
ideale: gli europei videro l'America come un Nuovo Mondo, nome che
non venne dato a nessun'altra delle numerose terre ignote scoperte
all'inizio dell'era moderna, e la ritennero un luogo in cui poter
realizzare un nuovo ideale di uguaglianza ed un nuovo concetto di
libertà, entrambi "esportati", per usare un'espressione di
Tocqueville, dall'Europa e non del tutto comprensibili al di fuori
del contesto storico europeo. Fu soltanto negli Stati Uniti,
attraverso l'istituzione della Repubblica americana, che tale
immagine trovò una sua realizzazione politica. Eppure, persino
questa realizzazione fu in parte importata dall'Europa, dal
momento che i fondatori della Repubblica americana trassero
ispirazione da Locke e da Montesquieu, che, rispetto a Rousseau e
ai teorici francesi (i quali influenzarono la storia delle
rivoluzioni europee), avevano indicato i princìpi legali e
politici necessari alla creazione di un nuovo tipo di stato in
modo più chiaro e completo.
Con la Rivoluzione americana, l'immagine europea dell'America
divenne realtà: un nuovo mondo stava nascendo perché era stato
costituito un nuovo tipo di organizzazione politica. Fu per questo
preciso motivo ed in quel preciso momento che Europa e Stati Uniti
(e cioè quella parte del nuovo continente che era diventata
veramente un nuovo mondo) si separarono e cominciarono a seguire
ognuno la propria strada. Da allora in poi, qualunque fosse
l'immagine che l'Europa aveva dell'America, gli Stati Uniti non
l'avrebbero più presa a modello né ne avrebbero più tratto
ispirazione. Dal momento in cui quella parte di popolazione
europea emigrata oltreoceano ha cessato di essere una colonia, ha
promulgato una sua Costituzione e si è dichiarata indipendente,
l'America è divenuta sia un sogno che un incubo per l'Europa. Fino
alla fine del XIX secolo, il sogno consisteva nel riuscire a
liberarsi dalla povertà e dall'oppressione e nell'essere in grado
di affermare l'indipendenza ed il potere dell'uomo nei confronti
di un passato dal peso asfissiante, che, attraverso l'autorità
delle istituzioni politiche e la tradizione delle eredità
spirituali, sembrava ostacolare il pieno sviluppo delle nuove
forze nate nel XVI e nel XVII secolo. Questo stesso sogno era poi
contemporaneamente un incubo per coloro che guardavano con
apprensione ad un tale progresso moderno. Il fatto che gli Stati
Uniti costituissero un sogno o un incubo non dipendeva da
esperienze concrete in questa nazione, ma principalmente dalle
opinioni politiche dell'autore, deducibili dall'atteggiamento
assunto nei confronti dei conflitti e dei dibattiti in atto nel
suo stesso paese.
Anche dopo che vecchio e nuovo mondo avevano imboccato strade
diverse, l'America, così come appare dai diari di viaggio, dai
romanzi, dalle poesie e dai trattati politici, non è mai stata un
qualcosa di estraneo o di esotico, come l'Africa, l'Asia o le
isole del Pacifico, ma è rimasta piuttosto l'immagine, a volte
incredibilmente esagerata e distorta, di una realtà in cui i
tratti più recenti della civiltà europea si erano sviluppati in
quasi totale libertà. Questo atteggiamento nei confronti
dell'America fu, naturalmente, quello adottato da Tocqueville,
come indica abbastanza chiaramente il titolo stesso della sua
opera, La democrazia in America. L'intero libro è una
testimonianza del fatto che egli fosse molto più interessato
all'analisi del funzionamento della democrazia quale possibilità,
o persino necessità, per l'Europa che non alla descrizione di un
paese straniero. Andò in America per apprendere il vero
insegnamento della Rivoluzione francese, per scoprire cosa
accadeva agli uomini e alla società in condizioni di uguaglianza
senza precedenti. Considerava gli Stati Uniti come un grande
laboratorio magnificamente attrezzato, in cui venivano
sperimentate le conseguenze della storia europea più recente. Era
sicuro che l'Europa, se non addirittura il mondo intero, stava per
essere americanizzata, ma non avrebbe mai immaginato che questo
processo potesse in qualche modo opporsi allo sviluppo del vecchio
mondo, sebbene le origini ed il destino storico dei due continenti
fossero diversi.
Per Tocqueville, gli Stati Uniti non erano una giovane nazione
contro cui l'Europa potesse orgogliosamente appellarsi alla
propria storia secolare ed al proprio alto grado di civiltà, né, a
seconda dei casi, alla quale sentirsi inferiore per vitalità. Gli
americani, sosteneva, "sono un popolo antico e scevro da ogni
pregiudizio, capitato in un nuovo, sconfinato paese". Se gli
americani stessi gli avessero detto, come in realtà è piuttosto
probabile, che "la nazione americana, come la conosciamo oggi, è
nata nelle foreste in tempi relativamente recenti, quando
grandiose e complesse civiltà esistevano già… da molti secoli"
(come ha scritto Robert Trumbull nel New York Times Magazine
all'inizio di quest'anno), egli avrebbe risposto che questa falsa
impressione di giovinezza affondava le proprie radici nelle idee
settecentesche del "buon selvaggio" e dell'influenza purificatrice
di una natura incontaminata, piuttosto che nelle esperienze reali
di pionieri e coloni. In altre parole, era soltanto perché la
nuova coscienza storica occidentale applicava la metafora della
vita biologica individuale alle nazioni che gli europei e gli
americani erano stati in grado di crearsi l'illusione di una
seconda giovinezza in un nuovo paese.
Comunque sia, Tocqueville si recò in America per osservare
"l'immagine stessa della democrazia, con le proprie tendenze, il
proprio carattere, i propri pregiudizi e le proprie passioni, in
modo da scoprire cosa si debba temere o sperare dal suo sviluppo".
Il principio di uguaglianza, lungi dall'affondare le proprie
radici nel nuovo continente, costituiva, in campo politico, il
risultato più importante e più straordinario di tutti i grandi
eventi "degli ultimi settecento anni" della storia europea. Dal
punto di vista dell'Europa moderna e dello sviluppo dell'era
moderna, gli Stati Uniti erano più antichi ed avevano più
esperienza dell'Europa stessa. Tocqueville era talmente convinto
che l'America fosse un prodotto dell'evoluzione europea da
considerare anche sviluppi strettamente interni agli Stati Uniti,
quali le migrazioni verso ovest, come facenti parte di un unico
movimento che aveva avuto origine "nel centro dell'Europa, [aveva
attraversato] l'oceano Atlantico e [si era fatto strada
attraverso] i territori disabitati del Nuovo Mondo". Per quanto
riguarda i dettagli, il giudizio di Tocqueville può essere oggetto
di discussioni e correzioni, ma, in linea di massima, ha trovato
conferma nei fatti storici. La Repubblica americana deve la
propria nascita alla più grande delle avventure della popolazione
europea, che, per la prima volta dopo le Crociate e all'apice del
sistema europeo degli stati-nazione, si imbarcò in un'impresa
collettiva animata da uno spirito che si dimostrò più forte di
qualsiasi differenza a livello nazionale.
Tocqueville è stato il più grande autore del XIX secolo, anche se
non l'unico, a considerare il Nuovo Mondo come il risultato di una
storia e di una civiltà antiche. Questo è l'elemento che oggi è
palesemente assente dall'immagine che l'Europa ha dell'America. Le
opinioni di tutti gli altri scrittori ottocenteschi, intuizioni ed
errori, sogni ed incubi, sono in qualche modo sopravvissute,
nonostante siano degenerate in luoghi comuni la cui banalità rende
quasi impossibile una seria valutazione del numero sempre
crescente di scritti in materia. Oggi, tuttavia, è opinione comune
che gli Stati Uniti non siano legati all'Europa più delle altre
nazioni, spesso addirittura molto meno della Russia o persino
dell'Asia, che, per una larga fetta dell'opinione pubblica
europea, e sicuramente non soltanto per i comunisti ed i loro
simpatizzanti, si stanno europeizzando attraverso il marxismo. Ci
sono numerose motivazioni alla base di questo recente
allontanamento. Una di queste è l'isolamento americano, che, prima
di diventare uno slogan politico, era stato per oltre un secolo
una realtà politica. Sotto questo aspetto, l'idea europea di
un'America estranea ed indipendente dallo sviluppo del Vecchio
Continente trova origine proprio negli Stati Uniti. Esiste, però,
anche un motivo molto più convincente in grado di spiegare perché
l'Europa sostenga così spesso di sentirsi più vicina alle nazioni
non europee piuttosto che all'America: l'immensa ricchezza degli
Stati Uniti.
Sin dalle origini, l'America è stata la "terra dell'abbondanza".
Il relativo benessere di tutti i suoi abitanti colpì profondamente
anche i primi viaggiatori, che notarono subito l'elevato tenore di
vita della popolazione americana (il quale non veniva ostacolato
dall'esistenza di enormi fortune, né ne impediva l'accumularsi) e
lo misero giustamente in relazione con i princìpi politici
democratici e con il concomitante concetto economico secondo il
quale non dovrebbe esistere niente di più costoso della
prestazione di servizi e niente di più gratificante del lavoro
stesso. E' anche vero che l'idea che tra i due continenti
sussistesse una diversità maggiore di quella che opponeva l'una
all'altra le stesse nazioni europee è sempre esistita, sebbene non
confermata dai dati reali. Eppure, ad un certo punto,
presumibilmente nel momento in cui l'America decise di uscire dal
suo lungo isolamento e tornò ad essere, dopo la prima guerra
mondiale, uno dei principali motivi di preoccupazione per
l'Europa, questa differenza tra nuovo e vecchio continente cambiò
significato, diventando qualitativa invece che quantitativa: non
si trattava più di condizioni migliori, ma di una situazione
totalmente diversa, di natura tale da essere quasi del tutto
incomprensibile. E' la loro stessa ricchezza che, come un enorme
muro invisibile ma ben reale, divide gli Stati Uniti da tutte le
altre nazioni del globo, proprio come divide il singolo turista
americano dagli abitanti dei paesi che visita.
Sappiamo tutti per esperienza che l'amicizia implica una certa
uguaglianza e, sebbene possa diventare un elemento in grado di
equilibrare disuguaglianze naturali ed economiche già esistenti,
esiste un limite oltre il quale anche l'amicizia diventa
impotente. Secondo Aristotele, tra un uomo ed una divinità non
potrebbe mai esistere un'amicizia: lo stesso vale per le relazioni
tra nazioni in cui non interviene la forza equilibratrice
dell'amicizia. Affinché due nazioni possano comprendersi
vicendevolmente ed essere franche l'una con l'altra, è necessario
che si trovino in condizioni simili, anche se non necessariamente
identiche. Il problema della ricchezza americana nasce dal fatto
di aver superato il limite al di sotto del quale le altre
popolazioni, in particolar modo quelle che abitano la madrepatria
di molti cittadini americani, erano in grado di comprenderla,
tanto che adesso sono messe a repentaglio persino le amicizie
personali tra individui che vivono da una parte e dall'altra
dell'oceano. Coloro che ritengono che una situazione del genere
possa essere facilmente risolta da azioni sul tipo del piano
Marshall o del Point Four program1 si sbagliano di grosso, temo.
Per quanto l'aiuto materiale sia dettato da un genuino sentimento
di generosità e da un senso di responsabilità che va al di là dei
più ovvi bisogni ed interessi economici e politici della politica
estera americana, gli Stati Uniti non otterranno niente più della
dubbia gratitudine che il benefattore si aspetta, ma in genere non
riceve, da chi ha beneficiato del suo soccorso.
La diffidenza nei confronti delle intenzioni americane, il timore
di pressioni tanto forti da spingere ad azioni politiche non
volute, il sospetto che perfide motivazioni si celino dietro ad un
aiuto che, in realtà, viene dispensato senza alcuna clausola
politica sono tutte reazioni abbastanza naturali che non hanno
alcun bisogno di essere fomentate da una propaganda ostile. Ma in
ballo c'è molto di più. In questo caso, come in ogni atto di
beneficenza, la prerogativa di agire ed il diritto di prendere
decisioni spettano al benefattore e quindi, citando nuovamente
Aristotele, è perfettamente naturale che egli ami i propri
protetti più di quanto non ne sia amato: dove lui ha agito,
infatti, loro hanno subìto passivamente, diventando, per così
dire, una sua opera. Ai problemi reali, come questi, che l'America
incontra nelle sue relazioni internazionali, la propaganda
comunista all'estero ha aggiunto l'accusa, manifestamente falsa,
secondo cui gli Stati Uniti avrebbero raggiunto la ricchezza
grazie ad uno sfruttamento di tipo imperialistico, affiancandovi
poi l'idea ancora più palesemente assurda di un'economia classista
in cui la massa della popolazione, pur lavorando duramente,
vivrebbe nella miseria. Queste menzogne vengono facilmente
smentite dalla realtà dei fatti e non riusciranno a sopravvivere
quanto il più recente, e di gran lunga più pericoloso, tentativo
di tradurre la divisione marxiana tra capitalisti e proletariato
in termini di politica estera. Secondo questa interpretazione, le
nazioni del mondo sarebbero divise in paesi ricchi e paesi poveri
e gli unici a rientrare nella prima categoria sarebbero,
naturalmente, gli Stati Uniti. Sfortunatamente, questa visione
dell'America può avvalersi di un certo bagaglio di esperienza ed è
oggi pericolosamente rafforzata da certe inclinazioni ed ideologie
"americaniste" attualmente presenti negli Stati Uniti, che, temo,
rappresentano l'espressione di uno stato d'animo molto più diffuso
del tradizionale isolazionismo o delle idee moderatamente
attraenti propugnate da movimenti sul tipo dell'America First
Committee2. Ed è proprio perché corrisponde ad un crescente
americanismo negli Stati Uniti che l'antiamericanismo presente
negli altri paesi, l'altra faccia della stessa medaglia, è in
realtà assai più pericoloso di tutte le invettive lanciate contro
una terra imperialista e capitalista ed entrate ormai a far parte
dell'armamentario della propaganda comunista.
La questione della ricchezza degli Stati Uniti non è di poco conto
e sulla scena internazionale è probabilmente uno dei problemi
politici duraturi più gravi di questa nazione. Pare quasi che il
costante progredire del principio di uguaglianza in una situazione
di grande abbondanza naturale abbia modificato a tal punto le
condizioni di vita dei cittadini statunitensi da renderli, agli
occhi delle altre nazioni, una specie sui generis. Né tale
situazione migliora quando il turista americano medio presuppone
ingenuamente che un miracolo simile potrebbe verificarsi anche
negli altri paesi, a patto che gli abitanti si dimostrassero
abbastanza saggi da adottare le istituzioni ed il sistema di vita
statunitensi. Forse non ci si può aspettare che l'americano medio
sia in grado di capire che, sebbene le condizioni di vita stiano
pian piano raggiungendo una certa uniformità un po' in tutto il
mondo, questo processo arriverà a compimento attraverso strade
diverse e richiederà misure diverse in paesi privi di quella
abbondanza naturale caratteristica del continente americano.
Ancora più serio è il fatto che questa incapacità di comprendere
la situazione dell'altro sia cominciata ad emergere anche nella
politica estera degli Stati Uniti. Molti dei dissapori nati
recentemente tra l'America e la Gran Bretagna, ad esempio, possono
essere spiegati proprio in questo modo. E' ormai assodato che
niente sembra tanto difficile da capire ed ostacola tanto
inequivocabilmente l'amicizia quanto condizioni profondamente
diverse. I ricchi hanno sempre avuto la sfortuna di essere
alternativamente adulati ed ingiuriati, rimanendo comunque
impopolari a prescindere dalla loro generosità. Che il destino
degli americani all'estero sia in parte quello di subire questo
atavico trattamento non sorprende né disturba più del dovuto, ma
che di recente si sia verificato un radicale cambiamento nella
struttura di classe degli europei (che si trovano) in accordo o in
disaccordo con gli Stati Uniti è una faccenda totalmente diversa.
Per secoli l'America è stata il sogno delle classi europee meno
abbienti e degli amanti della libertà, ma un incubo per la ricca
borghesia, l'aristocrazia ed un certo genere di intellettuali, per
i quali l'uguaglianza costituiva più un pericolo per la cultura
che non una promessa di libertà. Per molti, appartenenti ai ceti
inferiori, le restrizioni imposte all'immigrazione dopo la prima
guerra mondiale posero fine alla speranza di porre rimedio ai
propri problemi trasferendosi in America. Per la prima volta, ai
loro occhi, gli Stati Uniti si trasformarono in una nazione
borghese, proprio perché la loro ricchezza era diventata
inaccessibile quanto quella della borghesia nei loro paesi. Dopo
la seconda guerra mondiale, la situazione peggiorò ulteriormente,
in quanto la politica degli Stati Uniti fu quella di sostenere
dappertutto la restaurazione o la continuazione dello status quo,
tanto da adottare in seguito un atteggiamento ostile nei confronti
del cambiamento sociale attuato in Gran Bretagna dal governo
laburista in maniera pacifica e, tutto sommato, moderata e
controllata. Da allora gli Stati Uniti sono sembrati non soltanto
ricchi al di là di ogni immaginazione, ma anche determinati a
difendere gli interessi dei ricchi in tutto il mondo. E' chiaro
che questo non era affatto nelle intenzioni della politica
americana all'estero, soprattutto in Europa, dove il piano
Marshall ha portato soccorso indistintamente a tutte le classi
della popolazione e dove i funzionari americani spesso si facevano
in quattro per porre rimedio alle ingiustizie sociali peggiori.
Eppure è così che è sembrato. Ecco perché oggi, in generale,
l'America riscuote consensi tra coloro che gli europei definiscono
"reazionari", mentre un atteggiamento antiamericano è il modo
migliore per dimostrarsi progressisti.
Naturalmente, come ogni altra questione spinosa, anche questo
sentimento antiamericano viene sfruttato dalla propaganda
comunista. Considerarlo però un prodotto della propaganda vorrebbe
dire sottovalutarne in modo grave l'origine popolare. In Europa si
sta trasformando in una nuova dottrina: l'antiamericanismo,
nonostante la negativa vacuità del termine, rischia di diventare
il fondamento di un movimento a livello europeo. Se è vero che
all'origine di ogni nazionalismo (anche se non dietro alla nascita
di ogni nazione, ovviamente) si trova un nemico comune, reale o
inventato, allora l'immagine dell'America che oggi si riscontra in
Europa potrebbe ben diventare la base di un nuovo nazionalismo
paneuropeo. La speranza americana che la nascita di una
federazione europea e la dissoluzione dell'attuale sistema di
stati-nazione possano trasformare il nazionalismo in una cosa del
passato potrebbe rivelarsi ingiustificatamente ottimista. Nelle
sue manifestazioni più popolari, e non certo nelle riunioni tra
uomini di stato a Strasburgo, il movimento per un'Europa unita ha
mostrato di recente tratti decisamente nazionalistici. A rendere
ancora meno definita la linea di demarcazione tra l'europeismo
antiamericano e gli sforzi, necessari ed estremamente salutari,
volti ad unire in una confederazione le varie nazioni europee
contribuisce anche ciò che resta del fascismo europeo, che ha
deciso di unirsi alla lotta. La sua presenza ci fa ricordare che,
dopo i vani tentativi di Briand nella Società delle Nazioni, fu
Hitler ad iniziare la guerra con la promessa di eliminare l'ormai
obsoleto sistema degli stati-nazione e di edificare un'Europa
unita. E' proprio qui che si cristallizzano i diffusi ed
indistinti sentimenti antiamericani che oggi serpeggiano tra gli
europei. Dato che, a quanto sembra, l'Europa non è più disposta a
vedere negli Stati Uniti la realizzazione delle proprie speranze e
paure riguardo al proprio sviluppo futuro, il vecchio continente
tende a considerare la costituzione di un governo europeo come un
atto di emancipazione dall'America. L'americanismo da una parte
dell'Atlantico e l'europeismo dall'altra, due ideologie opposte,
in lotta l'una con l'altra e, soprattutto, simili tra loro come
tutte le dottrine apparentemente antitetiche: questo potrebbe
essere uno dei pericoli che ci troveremo ad affrontare.
15 marzo 2002
(da
Ideazione 4-2001, luglio-agosto. Traduzione dall'inglese di Sarah
del Meglio) |