La grandezza di un inattuale
di Vittorio Strada


La scena attuale del mondo è attraversata da una ridda di personaggi che ne occupano per qualche istante la parte centrale, recitando il loro effimero ruolo, senza che un forte testo drammatico ne illumini il significato. Sarebbe eccessivo, di fronte ad un simile squallore, rimpiangere un passato ricco di tragedie, ma neppure esso privo di farse. E’ però indegno il fastidio che spesso viene mostrato verso le residue figure di un’epoca fatta di autentiche grandezze, oltre che di autentiche miserie, e ormai consegnata alla storia, anzi alla revisione della falsa storia che ne è stata per lo più fatta. Una di queste figure, forse l’ultima, è Aleksandr Solzenicyn. Che l’autore dell’Arcipelago Gulag sia stato odiato dai suoi avversari diretti, i comunisti, è comprensibile e che, anche dopo la fine storica del comunismo, continui ad essere malvisto, o trattato con sufficienza, dai loro eredi è cosa che lascia indifferenti. E’ spiacevole, invece, che, al di fuori di quella cerchia particolare, il senso e il valore dell’opera di Solzenicyn spesso non siano adeguatamente compresi.

Aleksandr Solzenicyn è uno scrittore complesso e singolare, non inseribile nel grafico del movimento letterario a lui contemporaneo. Va considerato come una grande anomalia resa possibile da quella enorme anomalia che è stata la catastrofica esperienza storica del suo paese nel secolo scorso. Infatti, se ora che il ciclo storico iniziato nell’ottobre 1917 è sostanzialmente chiuso, consideriamo la vicenda comunista sovietica, che pure è stata al centro della storia mondiale, è difficile vederla altrimenti che come una grandiosa e tragica “deviazione” da quel corso di sviluppo in cui, all’inizio del XX secolo, anche la Russia sembrava entrata. Questa affermazione richiederebbe un approfondimento storico-teorico che qui è impossibile. Ma almeno l’impressione di una forte “eccezionalità” della vicenda sovietica, della “civiltà” totalitaria e concentrazionaria, nata come “scientifica” utopia, credo possa essere sentita da molti.

Aleksandr Solzencyn, figlio di questa “civiltà”, marxista e leninista in adolescenza, è stato colui che, novello San Giorgio, ha sfidato il drago comunista e ha collaborato a debellarlo. La sua lancia è stata la letteratura, una letteratura che era qualcosa di più della letteratura (e non qualcosa di meno). Egli non è stato uno scrittore “impegnato”, nel senso triviale di questa espressione. E’ stato uno scrittore dalla coscienza e dall’intelligenza libera che ha svolto un lavoro letterario unico, andando dal felice esordio di “Una giornata di Ivan Denisovic” alle belle memorie letterarie di “La quercia e il vitello” al monumentale, dantesco “Arcipelago Gulag” per giungere, infine, al ciclo storico della “Ruota rossa”. Anche oggi che il palcoscenico è popolato da infinite figure minori, non si può non riconoscere a Solzenicyn quel che è di Solzenicyn: la sua “inattuale” grandezza.

Altre banalità correnti: Solzenicyn Profeta, Solzenicyn Vate, Solzenicyn Predicatore, addirittura Solzenicyn Ayatollah, come un “progressista” russo, ancora ai tempi di Breznev e Gorbaciov, lo definì: quasi un Khomeini russo. Più in basso arrivò qualche “progressista” occidentale che, all’unisono col Kgb, lo qualificò “fascista” in nome, naturalmente, dell’antifascismo sovietico del Gulag. L’ultimo segretario del Pcus Michail Gorbaciov lo tacciò di essere un nostalgico della monarchia zarista. Antisemita: ecco un’altra accusa già usata contro di lui e ripresa di recente dopo il suo ultimo libro “Due secoli insieme” sui rapporti tra l’ebraicità e la Russia. Chi è, insomma, questo “mostro”, al quale simpatizzanti del terrorismo vorrebbero far togliere il Premio Nobel a suo tempo assegnatogli?

Il motto etico-intellettuale proclamato e seguito da Solzenicyn è stato “vivere fuori dalla menzogna”. Il che sembrerebbe l’equivalente di “vivere nella verità”. Ma quest’ultimo motto sarebbe presuntuoso e dogmatico, proprio di tutti gli assolutismi di vario colore, contro il maggiore dei quali Solzenicyn si batté. Che Solzenicyn abbia individuato la menzogna maggiore (non l’unica, naturalmente) del nostro tempo, quella che opprimeva il suo paese, e l’abbia denunciata con una forza d’intelligenza e d’animo esemplare, è certo. Che egli si sia impegnato con coerenza e passione non comuni nella ricerca della verità e, per quel che riguarda la sua forma più alta, quella religiosa, l’abbia trovata nel cristianesimo, anche questo è indubbio. Un cristianesimo orientale-ortodosso, libero da ogni clericalismo e anzi critico verso certe espressioni della politica della Chiesa russa. Tutto il resto è opinabile, cioè le verità parziali (politiche, letterarie, eccetera) di Solzenicyn sono discutibili come quelle di chiunque, senza che si debba trasformarle in enunciazioni intoccabili. Il fatto è, però, che ciò che per lo più Solzenicyn dice, a differenza di tante trivialità correnti, è degno di discussione, di una discussione adeguata, naturalmente, con cognizione di causa e con serietà d’intento.

Ha vinto Solzenicyn? O esce di scena sconfitto, sia pure con l’onore delle armi? Crollato ignominiosamente il drago con cui si era battuto, questo San Giorgio, a differenza del personaggio della leggenda agiografica, non è stato un trionfatore e nella Russia postsovietica, pur liberata dal giogo comunista, questo liberale conservatore non ha potuto trovare appagamento, ma motivo di una nuova azione critica. Ma chi può cantare vittoria, quando, anche senza fare del catastrofismo, tanti motivi di incertezza, d’ansia, di preoccupazione non abbandonano una coscienza sobria? Di Aleksandr Solzenicyn tuttavia si può dire che egli ha realizzato le sue potenzialità creative, lasciando un’opera che come poche altre ha segnato un’epoca. Se si dovesse indicare un’altra figura cui egli potrebbe idealmente affiancarsi, credo che, oltre a un altro cristallino testimone del nostro tempo come Andrej Sacharov (per quanto da Solzenicyn assai diverso), l’unica sia quella di Giovanni Paolo II nel primo periodo del suo pontificato. Ma il Pontefice, a parte le sue doti personali, ha avuto il sostegno, spirituale e materiale, della Chiesa. Aleksandr Solzenicyn è stato solo. Solo con quegli ex deportati dei Lager comunisti come lui che lo hanno aiutato a raccogliere il materiale per l’Arcipelago Gulag, e con le persone che gli sono state più vicine. Solitudine relativa, tanto più che accanto egli ha sentito il suo popolo martoriato, la passata grandezza della sua letteratura e la speranza di un nuovo futuro.

1 marzo 2002

(da Ideazione 1-2002, gennaio-febbraio)

 

 

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