Politica ed eternità
di Daniel J. Mahoney


E’ un’idea allettante vedere Solzenicyn come uno scrittore coinvolto dagli eventi politici o di attualità, come un pensatore la cui produzione sia meglio interpretata come una guida indispensabile al mondo fantasmagorico del totalitarismo, che fa oggi parte di un passato screditato. In quest’ottica, il lavoro di Solzenicyn è già datato, sebbene forse risulti ancora utile come monito saltuario contro le potenzialità ideologiche inerenti alle moderne società di massa. Tuttavia, tale lettura non riesce a prendere seriamente in considerazione i continui propositi “rivoluzionari” o “utopistici” della mente moderna, e dunque la rilevanza sempre viva dell’indagine di Solzenicyn sull’ideologia. Ancora, Solzenicyn è tutt’altro che soddisfatto da quella che egli stesso vede come un’enfasi unilaterale sulle dimensioni politiche dei suoi scritti alle spese di quelle letterarie ed etiche. E’ davvero giusto per l’autore di “Arcipelago Gulag” e di “La ruota rossa” lamentare il fatto che i lettori siano interessati alle dimensioni politiche del suo lavoro, in particolare da quando la politica è quasi al centro di ogni cosa che ha scritto? Secondo me, la resistenza di Solzenicyn alla “politicizzazione” del suo lavoro diventa più comprensibile una volta che si distingua, come egli implicitamente fa, tra politica programmatica e politica elettorale, da un lato, e le questioni etiche e filosofiche più rilevanti sollevate dalla politica moderna, dall’altro.

Un famoso passaggio del primo volume di Arcipelago Gulag illustra perfettamente questa distinzione. Nel capitolo intitolato “Le mostrine celesti”, Solzenicyn si riferisce a quella “intuizione intima, non fondata su argomenti razionali” che ha impedito alle gioventù comuniste come a lui stesso, nonostante la loro entusiastica appartenenza ad una visione del mondo marxista-leninista, di entrare nelle scuole della polizia segreta. Questa bussola morale innata, sostenuta dal capitale morale (o “monete di rame”) trasmesso dagli antenati pre-comunisti, li ha salvati dalla via della dannazione. Non sembrava esservi nulla in principio, e senz’altro nulla nella loro formazione intellettuale o spirituale, che potesse prevenire la loro cooptazione da parte dei “bluecaps”. Nel discutere quanto arrivò vicino a diventare liberamente un agente del regime totalitario, Solzenicyn scrive: “allora, il lettore che si aspetta che questo libro sia un manifesto politico, lo chiuda violentemente immediatamente”. Solzenicyn, il primo anticomunista del mondo, rifiuta l’asserzione manichea che il male possa essere ridotto al lavoro di un singolo gruppo o partito, anche quello comunista. “Se fosse davvero così facile!” aggiunge con forza. Egli non ha fede nella politica ideologica, anche di tipo “contro-rivoluzionario”. Riconosce il carattere “misto” di ogni cuore ed anima e, di conseguenza, di ogni partito o programma partitico. Come ha scritto Martin Malia, “come il contesto di questo rilievo mette in luce, Solzenicyn rifiuta il conflitto politico solo al livello della mera politica programmatica, della lotta di un gruppo di interesse contro un altro”. In verità, Solzenicyn è un professionista politico, un San Giorgio russo (per citare una vivida caratterizzazione di Alain Besançon) che combatte ferocemente il dragone dell’ideologia. E’ anche un attento studioso della storia politica e delle istituzioni politiche, che crede che l’indispensabile “crescita morale” degli esseri umani dipenda da un minimo “diritto di respirare”, ma oltre a ciò, che esso dipenda dalla capacità umana di coltivare la libertà e la dignità dell’uomo sotto istituzioni in grado di autogovernarsi.

Solzenicyn ci dice nel terzo volume di Arcipelago Gulag che Tolstoj sbagliava “a credere che solo la crescita morale fosse necessaria, non anche la libertà politica. Ovviamente, gli esseri umani possono sviluppare le loro menti ed anime anche sotto regimi autoritari, come nel sistema russo pre-rivoluzionario. Anche i più disgustosi regimi autoritari hanno più o meno rispettato “il diritto di respirare” e non hanno provato ad ostruire l’accesso spirituale all’eternità degli esseri umani. Ma, secondo Solzenicyn, la libertà politica è molto più di un baluardo fondamentale contro il totalitarismo. E’ necessario, per l’autostima degli esseri umani, che si coltivi quel senso di dignità che rifiuta l’acquiescenza verso la degradazione umana che inevitabilmente accompagna il dispotismo. Nel terzo volume di Arcipelago Gulag Solzenicyn paga tributo alla “forza spirituale” di coloro che hanno combattuto contro il regime comunista “con una forza spirituale inaudita e sconosciuta a molti paesi, in diversi periodi della loro storia”. In modo commovente egli fa la cronaca della determinazione sovrumana dell’“esule impegnato” Georgi Tenno. Riconosce anche la tragica necessità degli attacchi terroristici contro le autorità sovietiche e contro le spie nei campi, attacchi che hanno incrementato le “ribellioni eroiche” a Kengir e Ekibastuz che sono raccontati drammaticamente nel suo volume. James Pontuso ha correttamente notato il carattere spazioso della comprensione dello spirito di Solzenicyn: questo partigiano del pentimento, dell’autolimite, e dello sviluppo interiore crede anche che una difesa vivace della libertà umana e della dignità sia parte di una vita spirituale autenticamente umana. Questo scrittore cristiano rifiuta sia il fatalismo storico che il pacifismo à la Tolstoj. Un’esistenza veramente umana comprende sia un umile riconoscimento dei nostri debiti con l’ordine delle cose, sia un’orgogliosa affermazione che siamo esseri possessori di anime. La difesa massiccia della libertà serve a ricordarci che le anime, così come i corpi, sono soggette a mutilazioni e a distruzioni – e dunque sono bisognose di essere difese.

Nel commovente primo capitolo del terzo volume di Arcipelago Gulag, “Il condannato”, Solzenicyn illustra la terribile condizione di un normale cittadino sovietico che “sapeva dal 1941 ciò che ancora nessuno nel mondo conosceva: che in nessun luogo nel pianeta, in nessun posto della storia, vi era un regime più immorale, più assetato di sangue, e allo stesso tempo più abile ed ingegnoso di quello Bolscevico, che si è autodefinito regime Sovietico. In una risposta disperata al “totalitarismo non mitigato e risoluto” del regime sovietico, molti altri cittadini sovietici hanno dato il benvenuto – sbagliando – ai tedeschi come se fossero dei liberatori. Alcuni sono arrivati al punto di arruolarsi nell’esercito di liberazione dei condannati del generale Vlasov. Non avevano alcun motivo di credere alla propaganda sovietica sui mali del regime nazista, dal momento che la “propaganda carica di odio” del regime sovietico ha fallito nel distinguere tra “Leon Blum e Hitler” e tra “il Parlamento britannico ed il Reichstag tedesco”. Queste vittime della collettivizzazione, del terrore, della deportazione, del Gulag e delle immorali campagne antireligione, così come altre persone normali che non hanno potuto più tollerare “la menzogna come modo di vivere”, non hanno avuto modo di prevedere ciò che il “pupillo” di Stalin nel totalitarismo, Hitler, aveva in magazzino per i territori che ha invaso.

Solzenicyn mostra di avere una grande sensibilità di spirito nell’affrontare un popolo “perduto”, preso tra due totalitarismi parimenti ributtanti. Il suo rifiuto di fare la caricatura del movimento di Vlasov, di distorcere le sue intenzioni o di misrappresentarlo come un movimento protofascista, ha spinto la propaganda dell’era sovietica ad accusare incredibilmente Solzenicyn di simpatie naziste. La convinzione fortemente antitotalitaria di Solzenicyn non è mai stata, ovviamente, messa in discussione. Ma il suo vero interesse in queste pagine risiede altrove. Egli riteneva che il popolo sovietico non sarebbe “mai” stato una mera “nazione di abietti schivavi”, se avesse condotto [la seconda guerra mondiale] senza brandire il fucile al governo di Stalin anche da lontano, qualora questo avesse perso la possibilità di mostrare il pugno e senza lanciare un pronto giuramento al Padre dei popoli. E aggiunge efficacemente: “I tedeschi avevano il loro complotto dei generali – ma noi cosa avevamo?”. Un popolo che si rispetti deve difendere la propria indipendenza spirituale, il proprio “diritto di respirare” liberamente e deve resistere ai tentativi che vogliono ridurlo al livello della schiavitù. La crescita morale è impossibile se gli esseri umani perdono il senso elementare della propria umanità o dignità.

Solzenicyn pertanto non denigra la politica o il riassunto dei prerequisiti politici cruciali che permettono la crescita della vita spirituale. Egli rifiuta tuttavia un postulato cruciale condiviso dai liberaldemocratici e dalla modernità totalitarista. L’asserzione che la libertà esiste per amore della libertà e che l’obiettivo dell’esistenza collettiva è quello di costruire “uno stato ideale”. Solzenicyn resiste alla tentazione moderna ed ideologica di fornire una soluzione completa e definitiva ai problemi umani e politici. Nel 1998, ha detto al suo biografo, Joseph Pearce, che gli intellettuali moderni sopravvalutano la politica perché hanno perso il contatto con le “questioni di spirito superiore”, con “i problemi ultimi della vita e della morte”. Gli intellettuali subiscono una meschinità radicata nel quotidiano, nel “piccolo ed irrilevante”, precisamente perché essi rifiutano di contemplare il significato della vita e della morte, del ruolo dell’uomo nel mondo. Questo era, ovviamente, il nocciolo filosofico ampiamente incompreso delle critiche di Solzenicyn all’“umanitarismo antropocentrico” nel discorso di Harvard del 1978. Esso è anche al centro della sua ambiziosa analisi del “progresso” moderno nel discorso del 1993 nel Liechtenstein, su “Politica ed etica nel Ventunesimo secolo”. Come ha eloquentemente rilevato nel suo poema in prosa Vivremo per sempre, l’uomo moderno ha “prima di ogni cosa […] iniziato a temere la morte ed i morti”. Egli ha subito la speranza e l’illusione che “stiamo andando verso la vita eterna”. Nell’ottica di Solzenicyn, tale presunzione rappresenta “l’apice della nostra filosofia del Ventesimo secolo”. Questa è la filosofia che, come egli sostiene in un altro poema in prosa precedente, chiamato L’inizio della gionata, spinge i nostri contemporanei ad essere “oltraggiati” da chiunque “dia la stessa attenzione che dà al proprio corpo, alla propria anima”. La filosofia del mondo moderno dimentica l’anima perché l’anima, con la sua consapevolezza della mortalità ed il carattere misto del cuore umano, è un ostacolo insuperabile verso la costruzione dello stato ideale, della città esclusivamente terrestre. E’ un costante richiamo ai limiti della politica e ai rigidi requisiti dello sviluppo interiore dell’uomo.

I poemi in prosa

Nelle due raccolte di Krokhotnye rasskazy, le sue microstorie o poemi in prosa, gli interessi politici di Solzenicyn passano decisamente in secondo piano rispetto alle riflessioni sul significato della vita, sui fenomeni naturali e sul ruolo degli esseri umani nel mondo. In tali riflessioni, egli indaga chiaramente gli effetti della creatività moderna – nonché del comunismo e delle riforme disastrosamente mal gestite – sull’anima dei russi. I poemi in prosa sono segnati da una certa distanza dagli interessi politici immediati. In questi brani, l’obiettivo di Solzenicyn è direttamente puntato sulla natura e sull’anima e solo secondariamente su questioni politiche. Come Michael Nicholson ed Alexis Klimnoff hanno a proposito notato, “in essi il coinvolgimento politico di Solzenicyn con questioni relative alla Russia contemporanea, tendono ad essere filtrate da un’intonazione contemplativa, o addirittura elegiaca”. I poemi in prosa rappresentano un’opportunità eccellente per apprezzare l’impegno di Solzenicyn in tali questioni senza fine e in quell’“immagine di perfezione”, che il pensiero e l’azione umani non devono mai perdere di vista. Fino ad oggi, Solzenicyn ha pubblicato 26 poemi in prosa. 17, la prima raccolta, sono stati scritti tra il 1958 ed il 1960 e pubblicati per la prima volta in occidente nel 1965. 9, la seconda raccolta, sono stati scritti dopo il suo ritorno in Russia, nel maggio 1994. Sono stati pubblicati su Novyj Mir nel 1997 (numero 1, 3 e 10) e sono apparsi in inglese come un’appendice alla biografia di Solzenicyn, curata da Joseph Pearce, nel 1999. C’è una notevole continuità tra le due raccolte. Entrambe disegnano forti parallelismi tra i fenomeni naturali e la vita morale degli uomini. Essi inoltre rifiutano l’arroganza à la Prometeo dell’uomo moderno, il suo rifiuto di “dare spazio e di concedere pensieri all’eternità”. Come John Dunlop ha scritto in una attenta analisi della prima raccolta di storie, esse fissano la critica alla modernità in due standard positivi ed alternativi. Solzenicyn rifiuta “il presente prometeano, sofferente, secolare e arrogante” nel nome dell’integrità della Natura e dell’attaccamento “alla visione del mondo religioso-estetico della vecchia Russia”, almeno nella misura in cui questa visione del mondo ha incarnato e mantenuto in vita l’ambizione umana all’eternità.

Nella prima raccolta di questi poemi in prosa, Solzenicyn riflette sul mistero della vita e sull’inabilità della scienza moderna di produrre qualcosa di paragonabile alla meraviglia evocata dalla magica unione di corpo e anima, in un “leggerissimo, malaticcio, patetico, piccolo giallo anatroccolo”. Egli scrive Una tempesta fra le montagne, in cui sembra ricreare la bellissima maestosità del momento primordiale della creazione. Nell’oscurità, con lampi accecanti spettacolari, e rombi di tuoni, gli esseri umani “sono diventati insignificanti particelle del mondo”. Ma questa non è l’ultima parola di Solzenicyn sul ruolo dell’uomo nel cosmo. Gli esseri umani sono creature consapevoli del loro status infinitesimale, se paragonato alla maestosità e alla benigna indifferenza del mondo. Pertanto, essi rappresentano anche esseri riflessivi, con anime, anime che ignorano, solo a loro rischio e pericolo. Come scrive Solzenicyn in un breve poema in prosa, chiamato Riflessi nell’acqua, vediamo la verità solo a distanza, o obliquamente, come un’immagine “vaga ed incomprensibile”, in una corrente di acqua in movimento. Gli esseri umani devono puntare a “riflettere la verità in tutta la sua eterna e pura chiarezza”, ma questo è impossibile “perché anche noi siamo in movimento, viventi”. La particella infinitesimale che è l’uomo è nobilitata dalla gratitudine verso un ordine di cose che non ha fatto e dalla sua ricerca di una verità che è indistintamente riflessa nelle correnti in movimento di vite ed eventi.

L’uomo moderno è tentato di mettere fine alla ricerca soprattutto per l’inabilità della “carne mortale” di ottenere “la pura chiarezza”. Come risultato, coltiviamo i nostri copri, ma non le nostre anime, sostituendo la nostra preghiera mattutina con “esercizi mattutini” (L’inizio della giornata). La nostra filosofia è un tentativo non sempre consapevole di distogliere lo sguardo dalle questioni ultime della vita e della morte e dagli imperativi della responsabilità morale. La tracotanza moderna non è soddisfatta di un segnale dell’eternità; noi moderni vogliamo comprenderla completamente o altrimenti non avere nulla a che fare con essa. Dimentichiamo l’autorità della Natura e, invece proviamo a conquistarla mediante lo sfruttamento commerciale nell’Occidente, o mediante l’espropriazione della Nuova Classe burocratica nei regimi ideologici. La distruzione della primordiale bellezza naturale della Russia per mano di un “principe malvagio”, la Nuova Classe comunista, è il tema del bellissimo e continuo lamento di Solzenicyn, Lake Segden. Il partito chiede l’antico legno russo per se stesso. Non permette agli altri di accedere “alle acque solitarie” e al “legno solitario”, un mondo in cui “le anime scorrerebbero, come l’aria tremula, tra l’acqua e il cielo, ed i tuoi pensieri correrebbero puri e profondi”. Il Partito Comunista, il principe malvagio, con i suoi “figli scellerati”, è riuscito fin troppo bene ad appropriarsi arrogantemente di tutto questo e a spogliare la “casa” Russia.

Il partito ha anche sistematicamente mosso guerra contro la Vecchia Russia, una guerra incentrata sulla Chiesa e sulla campagna. Nel suo memorabile racconto intitolato Lungo l’Oka, Solzenicyn riflette sul “segreto della capacità di infondere pace, proprio della campagna russa”, che va cercato nelle sue chiese. Esse segnano il paesaggio, “scalano i pendii”, e i loro maestosi campanili “si salutano da lontano”. Ma sotto il comunismo, le chiese sono state chiuse e rase al suolo, i duomi delle chiese spogliati ed intere croci schiodate dalle loro volte. Dappertutto, le chiese erano in rovina, prova concreta delle atee persecuzioni militanti del periodo comunista. Se la modernità borghese invita ad evitare un confronto diretto con le questioni ultime e le esperienze primordiali della vita e della morte, il prometeismo comunista ha tentato di distruggere apertamente qualunque simbolo o incarnazione di una realtà ultraterrena. Solzenicyn scrive che “il popolo era sempre egoista e raramente gentile. Ma la sera le campane suonavano, fluttuavano sui villaggi, sui campi e sugli alberi”. Esse ricordavano agli esseri umani imperfetti che esiste un’eternità e dunque, “proteggevano loro dal ritrovarsi un bel giorno a quattro zampe”. Una delle storie pubblicate nel 1997, chiamata La torre campanaria, riprende il tema della Chiesa come simbolo dell’eternità. Solzenicyn scrive del campanile di Kalyazin, una città oggi sommersa dal Volga. La città è stata “deliberatamente sommersa per ordine dei Bolscevichi, “piccoli tiranni” che hanno dato mal volentieri il denaro” per una diga che salvasse la città. Tutto quello che “sopravvive della città sommersa è l’alto, leggiadro campanile”, simbolo di una Russia devastata sia dalla tirannia bolscevica, che dal nichilismo post-comunista. Il campanile svetta tra le rovine dei palazzi di Kalyazin, è sopravvissuto come un “albero spezzato” di una città e di un popolo che “non ha altra scelta, se non quella di andare avanti”. E’ il segnale di una speranza – della virtù teologica e naturale che permette agli esseri umani di evitare il peccato ultimo della disperazione. Solzenicyn, l’“ottimista pessimistico”, conclude: “no, il Signore non permetterà a tutta la Russia di essere lanciata tra le onde”. Egli rifiuta di disperarsi per Dio o per la Russia.

Nella raccolta di poemi in prosa Solzenicyn riflette non solo sulla mortalità, ma anche più concretamente sulla sua imminente morte. Nel suo acuto Invecchiare, egli parla della morte “come di un legame organico nella catena della vita”. Egli riflette sulla sopravvivenza al cancro tra i 30 e i 40 anni, e sul fatto di aver accettato con “prontezza e rassegnazione” una morte che in realtà non doveva ancora sopraggiungere. Scrive dei piaceri degli anni successivi, del “calore nel vedere un bambino che gioca”, ma anche realisticamente della forza minore e del sollievo rappresentato “dal breve oblio del sonno”. Ripete la sua costante convinzione: “invecchiare serenamente non è un sentiero in discesa, bensì in salita”. Ma aggiunge: “Signore, risparmiaci una vecchiaia fatta di povertà e freddo. Il destino al quale siamo stati consegnati in cosi tanti, tanti […]”. In un altro poema in prosa intitolato Vergogna, Solzenicyn continua il commento politico. Scrive di “essersi vergognato” di una Patria guidata da una classe politica corrotta e astuta, che permette a così tanti concittadini di ridursi “nella miseria e nella rovina più profonda”. Questo anticomunista prova disprezzo per la nuova classe dirigente, per la mancanza di coraggio pubblico e di rispetto per se stessa, che caratterizza un’oligarchia o cleptocrazia che infama l’onore della propria terra. Tale classe ha tradito la causa della ricostruzione post-comunista e ha infangato il nome della “democrazia”. Solzenicyn appartiene al partito patriottico e coraggioso che inequivocabilmente rifiuta una falsa nostalgia per il totalitarismo comunista, mentre nega l’acquiescenza all’irresponsabile criminalità delle nuove élite russe.

Politica e coscienza

Solzenicyn ha rappresentato la coscienza del suo paese, sia durante il periodo dell’egemonia bolscevica, sia durante il nuovo “periodo critico” aperto dal collasso del regime sovietico nel 1991. E’ stato lui a mostrare al mondo la menzogna ideologica. E’ stato lui a stabilire incontestabilmente che gli enormi crimini del regime comunista non potevano essere ridotti a “culto della personalità”, agli eccessi di un tiranno paranoico. In Arcipelago Gulag, ha pagato tributo alla memoria dei milioni di cittadini, caduti in balia del terrore sovietico. Ha spostato l’obiettivo dal “1937”, quando la rivoluzione “ha ferocemente divorato i propri figli”. Ha vissuto come uomo libero nel regime della menzogna, e ha chiesto che altri, per mezzo di un elementare rispetto di se stessi e di un senso di umanità, rifiutassero anch’essi di “vivere di menzogne”. Ha dunque contribuito smisuratamente alla sconfitta di un regime che è dipeso dalla presunzione incondizionata che il partito rappresentasse la causa della Storia, di un’Umanità in marcia verso “sommità raggianti”. Dal momento in cui il comunismo va in crisi, egli ha continuato a parlare in difesa dei normali cittadini che sono diventati le vittime di un nuovo insieme di astrazioni, questa volta incentrate sugli imperativi della “riforma”. E’ stato un difensore del governo onesto, di una vera economia di mercato e delle istituzioni dell’autogoverno locale che possono ben indirizzare le iniziative sociali e insegnare ai russi la responsabilità civica. Ha anche insistito su un aperto riconoscimento dei crimini del periodo comunista, un argomento che ha conquistato i suoi pochi amici nella nuova Russia. I suoi appelli ragionevoli per la giustizia e la responsabilità civica sono stati licenziati come effusioni naïf di un moralista slavofilo senza alcun contatto con la civiltà moderna. Tuttavia, egli continua a dire la verità, non disturbato dalle false affermazioni dei difensori del postmoderno.

Qual è la fonte del coraggio morale e della notevole forza caratteriale di Solzenicyn? nel suo poema in prosa del 1997, Lampi, Solzenicyn descrive vividamente la visione di un lampo che squarcia in due un albero di cedro, dietro la sua casa a Mosca, durante una tempesta in pieno giorno. Si chiede perché “tra tutti questi pini svettanti, la luce aveva scelto un albero di cedro – e non il più alto, tra l’altro?”. Solzenicyn procede a descrivere un parallelo tra la potenza del lampo e la voce della coscienza umana: “quando la coscienza scaglia la propria freccia punitiva, essa ci colpisce nella nostra intimità e fino alla fine dei nostri giorni. E dopo tale disgrazia non c’è nessuno in grado di dirci chi di noi riemergerà temprato dalla tempesta”. Ma se l’albero resta diviso in due, con una metà “rovesciata per essere ben accetta tra le braccia di un’altra delle sue alte sorelle”, la tempesta, che è la coscienza, lascia i suoi destinatari puniti, ma più forti, volenterosi di difendere quella giustizia che “è stata patrimonio comune dell’umanità nel corso dei secoli”. Nella sua Lettera a tre studenti del 1967, nella quale ha affrontato tali questioni, Solzenicyn suggerisce che la giustizia è coscienza, “la coscienza dell’intera umanità”. Insiste che non può essere ritrovata in qualche Processo Storico, né licenziata dicendo che “ognuno ha una sua giustizia”. Contro le ragioni del determinismo storico e del relativismo morale, Solzenicyn grida un intransigente “No!” E scrive: “loro possono urlare, prenderti per la gola, strapparti il cuore, ma le convinzioni basate sulla coscienza sono infallibili, come l’eterno ritmo del cuore (e si sa che nella vita privata è la voce della coscienza che si cerca sovente di sopprimere)”.

Solzenicyn è riemerso temprato e rinforzato dalla tempesta della guerra, dal Gulag, dal carcere, dalle difficoltà politiche e dall’esilio. Il suo evidente orgoglio e la sua fiducia in se stesso sono radicati e temprati da un profondo senso del dovere verso la coscienza comune, o ciò che chiama nella sua Lettera a tre studenti, il dovere umano “di vivere per la verità” (un argomento più tardi ripreso da Václav Havel e da Papa Giovanni Paolo II). Alcuni tra coloro che hanno riconosciuto la profondità della visione morale di Solzenicyn lo hanno dipinto come un profeta dell’era moderna. Ma io sostengo che sia insufficiente caratterizzarlo come un profeta, almeno finché tale termine suggerisce un oracolo che si appella agli dei e ai valori che non hanno validità razionale o universale. Attraverso la cruda esperienza ed una lunga riflessione, questo scrittore contemplativo è stato spinto a riaffermare la verità cristiana classica della visione dell’uomo e del mondo. Le sue conclusioni antropologiche lo hanno condotto verso la verità del cristianesimo, anziché spingerlo nel senso opposto. Il realismo cristiano di Solzenicyn, una posizione filosofica che è senz’altro originale, è ben descritto da Aurel Kolnai, il grande filosofo politico e morale e pensatore antitotalitario ungherese. Kolnai scrive: “l’uomo in realtà è imperfetto ma è capace di pensieri e azioni che tendono alla perfezione, attratto dal male, ma amante del bene, dotato di un senso morale, che tuttavia sfugge facilmente al suo controllo”. Queste parole esprimono perfettamente la visione della condizione umana di Solzenicyn. Sia Kolnai che Solzenicyn espongono lo sforzo ideologico ed utopistico “di superare o nascondere a qualunque costo le fratture classiche che caratterizzano l’essere umano”. Al fine di stabilire un ordine sociale perfetto, sia mediante la volontà rivoluzionaria dell’avanguardia dell’umanità, sia per mezzo dell’inesorabile Necessità Storica, gli ideologi totalitari mirano a negare la scelta morale, così come ciò che è contingente e possibile. Nonostante gli appelli dei rivoluzionari alla giustizia per i deboli e gli oppressi, tali ideologie sono definite da un assoluta negazione della coscienza. Mirando a mettere “fine alla storia”, esse attentano alle reali precondizioni della responsabilità politica e morale.

Per via delle sue affermazioni concernenti il carattere imperfetto del cuore umano e delle sue riaffermazioni della realtà empirica del “peccato originale”, Solzenicyn ha contribuito in maniera significativa al compito di restituire un posto lodevole alla coscienza ed all’avvedutezza nel novero delle caratteristiche umane. Il lavoro di Solzenicyn è un rammento salutare delle convergenze e della mutua dipendenza tra valore e realtà, politica e coscienza. Ci ricorda pertanto che nessun atto volontario e nessuna rivelazione della provvidenza storica, può sostituire il compito difficile di coltivare le nostre anime o di combattere con i nostri cuori imperfetti. Marx era tremendamente in errore quando concludeva che “la storia ci guiderà verso la giustizia senza l’aiuto di Dio”. Il pensiero del filosofo tedesco era deformato da un ottimismo progressivo in cui la fede per la Storia sostituisce quella per il Dio Vivente. Le conseguenze di un tale storicismo non sono altro che “la riduzione in schiavitù dell’uomo sull’uomo”. Solzenicyn sostiene con fermezza la sua visione alternativa, nella conclusione del discorso del Liechtenstein: “può esserci solo un vero Progresso: la somma totale dei progressi spirituali degli individui, il grado di crescita individuale nel corso delle loro vite”. Per Solzenicyn, l’ascensione dall’ideologia in ultima istanza implica l’ascensione dalla modernità filosofica, almeno fin quando la modernità escluda l’anima nel nome della digressione o della costruzione di strutture sociali ideali che in qualche modo cercheranno di rendere superflua la responsabilità morale.

1 marzo 2002

(da Ideazione 1-2002, gennaio-febbraio. Traduzione dall’inglese di Luigi Di Gregorio)
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