La sfida educativa
di Sergio Belardinelli
Per le società del passato l’educazione ha sempre rappresentato un
compito; per la nostra sta diventando soprattutto una sfida. Se
fino a ieri sembrava quasi scontato che una generazione dovesse
farsi carico dell’educazione dei “nuovi venuti”, secondo la
tradizione ereditata dai padri, oggi, chi più chi meno, tutti
constatiamo la dissoluzione di questa sorta di automatismo. La
parola “tradizione” E' diventata non a caso sospetta, sinonimo
quasi di vecchiezza e di incapacità di far fronte ai nuovi
problemi; una parola, insomma, di quelle che suscitano reazioni
emotive sfavorevoli. Quanto alla scuola, dopo la sua fase di
politicizzazione più estrema e più devastante proprio nei riguardi
della tradizione culturale, essa sembra aver accantonato qualsiasi
pretesa di essere un luogo educativo al servizio dei valori
fondamentali della comunità e galleggia ormai affannosamente in un
mare di incertezze. Se poi consideriamo la crisi analoga che
attanaglia anche la famiglia, credo che si chiarisca in che senso
dicevo che l’educazione sta diventando oggi, a tutti i livelli,
una sfida, un compito sempre più difficile.
Dal momento che viviamo in una società “ipotetica”, orgogliosa
della propria “debolezza” normativa e intellettuale, le nostre
istituzioni educative, in particolare la scuola, finiscono
necessariamente per navigare a vista; non hanno una rotta precisa,
né un obbiettivo sociale da raggiungere; si sono fatte sempre più
autoreferenziali, sempre più invischiate in problemi che sono esse
stesse a creare, in una sorta di continuo cortocircuito con la
realtà. Vengono moltiplicate le discipline di studio e,
contemporaneamente, si registra una diffusa perdita di senso dello
studio stesso; si dice che i ragazzi, studiando, debbono
soprattutto divertirsi, e poi ci si sorprende che essi, alla
scuola, preferiscano altri divertimenti; si parla tanto, e
giustamente, di una sorta di orgia dell’informazione nella quale
tutti saremmo immersi, ma la scuola, anziché fornire gli strumenti
adatti a districarsi in quest’orgia, sembra farsene semplice cassa
di risonanza; in nome di un malinteso pluralismo si eludono le
questioni sostanziali collegate ai valori, alle convinzioni, alle
tradizioni culturali dei popoli e poi ci si sorprende che i
giovani non diventano per questo più aperti all’ “altro”, ma
semplicemente più spaesati, più sradicati e quindi più esposti al
rischio di nuovi fanatismi.
La scuola, si dice, deve servire a introdurre i giovani nel mondo
del lavoro; ma poi, almeno in Italia, dobbiamo registrare
un’incomprensibile avversione per le cosiddette “scuole
professionali”; l’introduzione delle nuove tecnologie multimediali
viene presentata sovente come la nuova frontiera dell’educazione,
ma in realtà sembra accentuare soltanto il disorientamento che
pervade i nostri sistemi educativi, sempre più improntati a una
preoccupante superficialità. Per farla breve, tutto sembra
configurarsi come una sorta di alibi per eludere la questione
cruciale: che cosa significa educare?
"Educare l’uomo – così recita uno dei tanti aforismi fulminanti di
Nicolàs Gòmes Devila – E' impedirgli la libera espressione della
sua personalità". Ecco una bella provocazione per gran parte della
pedagogia contemporanea. Lasciati a loro stessi, come aveva ben
intuito Durkheim, gli uomini sono destinati a cadere vittime dei
loro desideri senza fine. Proprio per questo ci vuole l’educazione
e ci vogliono maestri capaci di insegnare. Ma E' difficile avere
l’una e gli altri se non c’E' una tradizione ritenuta degna di
essere tramandata, per la quale, essendo considerata appunto un
“bene”, E' giusto esigere rigore, fatica, disciplina e,
incredibile dictu, fiducia nel futuro. Proprio così: fiducia nel
futuro. Il principio vitale della tradizione, infatti, come E'
stato recentemente richiamato in modo assai incisivo da Marcello
Veneziani, non E' tanto e non E' solo il passato, la memoria, ma
la capacità di assicurare continuità alle nostre vite,
predisponendole al futuro. Invece, disamorati come siamo della
nostra tradizione, sempre più sfiduciati nel nostro futuro, ci
siamo ormai assuefatti all’idea che a scuola non si debba mai
chiedere a qualcuno di imparare qualcosa di difficile.
Qualsiasi proposta educativa incentrata sulla “qualità” viene, non
a caso, liquidata come intrinsecamente “elitaria”. Ma in questo
modo, come ha denunciato Christopher Lasch, ci allontaniamo sempre
di più dal senso stesso dell’educazione. Anziché indirizzare
l’attenzione dello studente verso quello che all’inizio egli può
forse faticare a capire, ma il cui fascino potrebbe anche
afferrarlo, si preferisce ricorrere, tranne in rarissimi casi
privilegiati, alla semplificazione, al livellamento,
all’annacquamento, ossia ad atteggiamenti che George Steiner, in
una pagina memorabile della sua autobiografia intellettuale,
definisce non a caso “criminali” e dietro i quali vede nascondersi
una “condiscendenza volgare” verso gli studenti stessi, giudicati
a priori incapaci di migliorarsi. Sembra, insomma, non esserci più
posto per una vera e propria "formazione” (la famosa Bildung),
cioE' per quel processo attraverso il quale, con impegno e rigore,
l’individuo assimila criticamente un determinato universo di
valori non soltanto direttamente in certe discipline specifiche,
poniamo la filosofia o la religione, ma anche indirettamente in
tutte le altre discipline: dall’aritmetica alla grammatica, dalla
storia alla geografia e, perfino, in quelle che una volta si
chiamavano “applicazioni tecniche”.
Per dirla ancora con le parole di Christopher Lasch, qualsiasi
tentativo di avvicinare qualcuno a un determinato orizzonte di
valori rischia oggi di venire considerato come un “attentato alla
sua libertà di scelta". Ma proprio se abbiamo a cuore questa
libertà occorre invertire la rotta. Essa non si conquista infatti
con la “neutralità etica”, né rinunciando alla formazione a
vantaggio della semplice comunicazione di saperi. La Bildung E'
molto di più che un “sapere”. Meno che mai essa può essere ridotta
a informazione. Direi, anzi, che oggi uno dei suoi compiti
principali sia proprio quello di salvarci dall’informazione, di
aiutarci a resistere all’enorme flusso di informazioni dal quale
siamo sopraffatti. Ma per far questo, per svolgere questa
fondamentale funzione al servizio della libertà e della
irripetibile unicità di ciascun individuo, la Bildung ha bisogno
di tornare a radicarsi saldamente sulla tradizione cristiana e
illuministica dell’Occidente; ha bisogno di tornare a essere
veramente una “relazione educativa”. E tutto ciò, sia ben chiaro,
non per rendere l’individuo un buon credente o un buon cittadino,
ma, semplicemente, per aiutarlo a essere se stesso.
Questo lavoro di Paolo Terenzi ha il merito indiscusso di farci
toccare quasi con mano il significato e la rilevanza che può avere
oggi parlare di “relazione educativa”. Per di più lo fa guidandoci
sapientemente nei meandri di un sistema educativo, quello
italiano, attraversato da lacerazioni e problemi per molti versi
emblematici, i quali interessano certo il suo ordinamento
giuridico, la cosiddetta libertà d’istruzione o la carenza di
strutture scolastiche, ma soprattutto interessano i suoi
“paradigmi pedagogici”. E' un libro utilissimo per tutti coloro
che hanno a cuore il rilancio della qualità nel sistema educativo
del nostro paese. Ne sostiene la possibilità purché si rinforzi
con vigore il senso stesso della “relazione educativa”.
15 febbraio 2002
(dall'introduzione al libro di Paolo Terenzi, "Per una scuola di
qualità. Educazione e società in Italia", Quaderni della
Fondazione Ideazione, 2002)
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