Cultura e impresa. l'attualità di Adriano Olivetti
di Antonio d’Atri


Uno dei fili conduttori di questa rivista è, da tempo, quello di mettere in contatto il pensiero e l’azione liberale con la necessità di riscoprire una dimensione comunitaria che provenga spontaneamente dalla società e non sia delegata all’intervento dello stato. In questo quadro è opportuno riscoprire con il dovuto approfondimento il “messaggio” di Adriano Olivetti che, da grande uomo d’impresa qual era, ha dimostrato come visione del mondo e comportamento imprenditoriale possano intimamente relazionarsi. E’ però di fondamentale importanza inserire il pensiero e l’azione di Adriano Olivetti nella materia economica. E uno dei motivi dello scarso peso che l’esperienza di Adriano ha avuto sull’economia e sul pensiero economico italiano è dovuto al fatto che ci si è sempre riferiti alla sua figura per discutere di religione, di arte, di architettura e mai di economia e/o di impresa. Adriano Olivetti dimostrò profonda conoscenza dell’economia e grandi capacità imprenditoriali. La conferma giunge da una inconfutabile osservazione: ancora oggi, i manager e i consulenti che provengono dalla “cultura” olivettiana si distinguono per cultura, capacità operative e apertura all’ambiente.

La visione del mondo

Nella seconda metà dell’Ottocento le “scienze” assursero al ruolo di metodo autentico della reale conoscenza umana. I criteri della razionalità furono applicati in ogni campo della conoscenza e dell’azione umana. Le scienze sociali giunsero a considerare tutti i fenomeni come soggetti a leggi naturali ed invariabili. Ovvio che, in tale contesto, nacque un urto piuttosto rilevante tra materialismo economico e inquietudine spirituale. E’ proprio in quel periodo che l’economia fu messa in dubbio in quanto scienza; si cominciò a prendere in considerazione l’idea che non fosse possibile ricorrere agli schemi della meccanica razionale per spiegare i fenomeni economici e che l’economia fosse meglio compresa se trattata come Scienza dello Spirito. “La tecnica industriale, e in questo egli [Adriano n.d.r.] era rimasto positivista, aveva pur redento l’uomo dalla fame millenaria, gli aveva dato una casa ben riscaldata, un asilo per i figli, una pensione per i vecchi, una buona assistenza sanitaria. E non era cosa da poco! La scienza, almeno in parte, aveva vinto le cause di dolore dell’uomo ma ahimè non quelle della sofferenza”.

Ancora oggi è diffusa nella scienza l’abitudine a ritenere le cause e gli effetti in natura conseguenza di leggi impersonali. La curiosità “mistica” di Adriano derivava invece da un approccio kantiano con la natura: quest’ultima è ritenuta organizzata finalisticamente e ordinata da un senso intelligente. Il contrario di quel conflitto persistente che oggi sembrano far intravedere il disordine come l’unico paradigma epistemologico possibile. In questo approccio, l’aspetto più interessante della figura di Olivetti fu la sua straordinaria capacità di gestire l’ambiguità e il paradosso, di operare sintesi dinamiche tra quelle contraddizioni che paralizzano la vita delle imprese non eccellenti: lavoro-capitale, teoria-prassi, cultura tecnica-cultura umanistica, ambiente interno-esterno. Oggi si usa spesso il termine complessità per indicare, il più delle volte, da un lato l’impossibilità di comprendere l’evoluzione del mondo e dall’altro la descrizione delle caratteristiche della ricerca scientifica che è, appunto, complessa in quanto non consiste più nell’enucleazione di principi eternamente validi. Governare la complessità mantenendo la libertà fu preoccupazione costante di Olivetti e costituisce ancora oggi un imperativo che non deriva da astrattezza ma da un consapevole impegno alla riaffermazione dell’umano. Olivetti fu un precursore anche dal punto di vista scientifico: egli tradusse in pratica operativa principi filosofici, economico-aziendali, sociologici, psicologici, idee di architettura, arte, design, in una sintesi che tentò di fondere diverse discipline senza mai confonderle, rispettando in pieno le loro singole specificità. Egli, in realtà, era ben conscio di quello che soltanto oggi la dottrina aziendale sta cercando di formalizzare e cioè dell’esistenza di un habitat economico conflittuale e competitivo in cui vi è l’assoluta imprevedibilità del cambiamento.

La visione dell’economia

La comunità scientifica italiana che si occupa di economia in senso ampio dibatte, senza risultati apprezzabili, su come debba essere intesa questa scienza. E’ possibile basare la ricerca sul metodo deduttivo? La matematica è utile ad esplicitare modelli economici coerenti con la realtà osservata? Le materie aziendali possono assurgere a vita propria oppure non possono che costituire una tecnica dell’economia politica? Tali interrogativi non sono affatto avulsi dall’avere risvolti pratici perché influenzano scelte e comportamenti delle imprese. Non è un caso, ad esempio, che in questi ultimi anni il “peso” nelle scelte imprenditoriali degli economisti teorici, cioè di coloro che fanno previsioni attraverso modelli macroeconomici basati sulla matematica, è fortemente calato. Del resto, se pensiamo a uno scenario più vasto, mai come ai giorni nostri è apparso chiaro come la decisione di dirigere e programmare dal “centro” sia condannata a produrre inefficienze.

Ebbene Adriano Olivetti, da buon imprenditore, sapeva che l’economia, per essere utile alle imprese, non può inseguire la bellezza formale delle formule matematiche2 in quanto la sopravvivenza dell’impresa è funzione del grado di realismo che viene attuato nell’analisi. La bellezza appartiene all’uomo non all’economia. La scienza e la tecnica non devono dominare l’uomo, nel cui mondo hanno significato anche l’arte, la religione, la filosofia, la cultura. D’altra parte Adriano ha ben presente l’importanza della ricerca scientifica in quanto portatrice di sviluppo (la “sua” impresa fu, in effetti, un vero e proprio laboratorio scientifico permanente) così come il pericolo di rendere assoluta una conoscenza metafisica che voglia porsi al di fuori dell’indagine scientifica stessa. Egli non aveva però alcuna fede nella programmazione centrale. Il suo progetto di federalismo e lo sforzo di legare l’impresa al territorio dimostrano come la sua azione era dettata dalla convinzione che gli interventi di programmazione, pur tesi a contrastare le discriminazioni sociali, ottenevano risultati contrari alle intenzioni e soltanto l’iniziativa singola e spontanea, proveniente dalla società, poteva realizzare obiettivi sociali.

L’insegnamento è evidente: la materia economica non può isolarsi da quella che potrebbe diventare la novità della coscienza moderna: porre nuovamente la società al centro dell’attenzione e delle costruzioni individuali. A ben vedere, la “natura” stessa del mercato crea una energia creativa, una “tensione spirituale” che si evidenzia in tutta la sua essenza nell’attività imprenditoriale di Olivetti. Da un lato, infatti, egli fu ben conscio che le istituzioni di mercato, basate sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, conducono ad un livello di “intelligenza sociale” estremamente elevato attraverso l’incontro dell’insieme di conoscenze e di informazioni distribuite nelle menti di milioni di individui; d’altro lato la società capitalista che ne deriva è caratterizzata da scarsa coesione sociale e, quindi, da un sentimento di diffusa alienazione che riguarda gli individui i quali fanno parte di un “sistema combinatorio” - la società - in cui tutto si coordina progressivamente ma senza che gli “attori” del sistema (e cioè gli individui stessi) siano consapevoli dell’opera collettiva alla quale prendono parte.

Coloro che conoscono la storia della Olivetti sanno che l’esperienza e l’azione di Adriano, nonché di tutto il Movimento di Comunità, furono profondamente influenzate dal razionalismo e dalla convinzione che fosse necessario prevedere e progettare le trasformazioni della società. Adriano Olivetti studiò in America il taylorismo molto profondamente e imparò a rispettarne la logica razionale che ne era alla base e, tuttavia, non aderì mai al “materialismo”, sia esso di derivazione marxista sia liberal-utilitarista. Il suo rapporto problematico verso il razionalismo lo portò ad innovare sostanzialmente la logica taylorista: il “modello” di società si basava su una profonda attenzione al ruolo e all’evoluzione delle “istituzioni” (l’impresa, la famiglia, la scuola) piuttosto che alla fiducia sull’ente-stato e alla sua presunta capacità di progettare razionalmente l’organizzazione della società e il futuro degli uomini. Il suo “umanesimo” lo portava a far convivere la fiducia nella razionalità umana con il rifiuto del principio dell’homo oeconomicus e gli permetteva di coniugare l’impresa con la cultura urbanistica, con l’interesse per la diffusione dell’istruzione e della cultura. Egli fu un imprenditore dotato di una componente artistica, di fantasia, di grandi capacità intuitive. Come ha scritto Valerio Castronovo “[...] il modello di società industriale che Olivetti proponeva non era fondato né sull’etica del profitto fine a se stesso, senza finalità di interesse collettivo e di avanzamento sociale, né su un solidarismo statalista, anticamera dell’assistenzialismo pubblico e del parassitismo. [...] I suoi progetti di pianificazione s’identificavano non tanto con un interventismo dirigistico [...] sia pur ispirato da motivazioni illuministiche, quanto piuttosto con un’azione riformatrice che avrebbe dovuto trarre forza e legittimazione da organismi decentrati di autogoverno e di democrazia integrata, a livello comunitario. E il sistema di fabbrica che egli concepiva avrebbe dovuto essere [...] laboratorio sperimentale di nuovi valori culturali e scientifici, di nuovi progetti e non [...] una tecnostruttura burocratizzata”.

In questo quadro il pensiero e l’azione di Adriano Olivetti possono, senza dubbio, essere nuovamente oggetto di riconsiderazione in chiave attuale. Particolare rilievo assume il suo tentativo di coniugare le esigenze scaturenti dai difetti dell’applicazione della dottrina dell’utilitarismo con la difesa dall’invadenza dello stato mediante il pieno esplicitarsi della funzione delle istituzioni. Il punto di partenza del contributo di Adriano Olivetti alla scienza manageriale fu certamente il riferimento ai princìpi dell’organizzazione scientifica di provenienza americana. Per Taylor, Fayol, Mayo - sia pur in maniera diversa e con diverse sottolineature dell’importanza della risorsa umana - la direzione d’impresa non è vista più come semplice arte, pura intuizione, bensì come scienza: dirigere vuol dire avere ben chiara la necessità di formalizzare le procedure. Da ciò è scaturita l’applicazione dei modelli razionali di direzione dell’impresa sintetizzabili nella sequenza delle fasi di pianificazione, esecuzione e controllo. La sua sostanziale adesione all’organizzazione tayloristica del lavoro non deve far credere a un vecchio modo di guardare l’organizzazione d’impresa: la gerarchia era da lui vista come la necessità di una regolamentazione del sistema ma era già superata dalla necessità di giungere a strumenti organizzativi più aggiornati e a competenze professionali di più alto livello. E’ di grande interesse il fatto che Olivetti considerasse la direzione, il management, non una scienza “teorica” di natura sostanzialmente “deduttiva” quanto piuttosto l’attuazione quotidiana del patrimonio tecnico-scientifico e organizzativo nella gestione degli uomini e delle cose sulla base di un piano strategico consensualmente delineato dal management. Il pensiero, almeno in questo campo, sorgeva dal bisogno umano di chiarirsi un problema pratico.

Evidente era, nell’approccio all’impresa di Olivetti, la consapevolezza delle difficoltà sempre maggiori di rendere coerenti, di coniugare, le decisioni di breve periodo con il lungo periodo. Eppure che l’impresa costituisca luogo di potenziali conflitti e contraddizioni dovrebbe essere, oggi, un dato acquisito: ad esempio è noto che più aumenta il grado di turbolenza e di complessità ambientale più si riduce il tempo disponibile per prendere decisioni ma, d’altra parte, in tale ambiente una decisione adeguata è possibile solo se colui che deve porla in essere ha tempo disponibile per la riflessione. La previsione degli eventi, o di parte di essi, è possibile solo riflettendo sul risultato di azioni future; proprio grazie alla riflessione, infatti, l’uomo passa dalla fase di sperimentazione del mondo a quella di riflessione sul mondo. L’uomo impara anche, ma non solo, dalle conseguenze dei propri errori. Ancora, l’esigenza nell’impresa di sottomettere gli interessi dei singoli all’interesse “del tutto” è in forte contraddizione con l’individualismo utilitaristico.

Uno studioso del calibro di Henry Mintzberg, dopo aver affermato che “con buona pace della letteratura tradizionale, la carica di manager non si addice a personaggi dediti alla riflessione: il manager è un individuo che reagisce agli stimoli in tempo reale, che è portato dal proprio lavoro a preferire una decisione immediata ad un rinvio”, sottolinea tuttavia quanto la riflessione sia importante perché senza di essa si rischierebbe di trattare eventi, accadimenti, opportunità tutte allo stesso modo, senza capirne la reale ricaduta in termini di efficacia dell’azione imprenditoriale. Tutto ciò riporta alla luce una questione sulla quale oggi occorrerebbe riflettere seriamente e che tuttavia risulta essere ignorata dalla maggior parte della riflessione teorica: l’andamento dell’impresa, i suoi successi, la propria sopravvivenza nel tempo dipendono non solo dalle conoscenze tecnico-scientifiche ma anche dalle capacità proprie dei soggetti che la dirigono. Ma l’esperienza di Adriano Olivetti insegna anche altro alla scienza del management. Da qualche tempo, infatti, l’osservazione della realtà sembra indicare che le regole dei linguaggi scientifici non siano rigide e immutabili ma cambino in funzione della cultura del tempo. Il progresso scientifico avviene non solo in base a categorie concettuali del linguaggio interno alle diverse discipline ma anche attraverso categorie “esterne” che ne descrivono le interazioni con la società, tentando di spiegarne gli effetti.

Proprio per questo, nell’impresa moderna è necessario che il management, nell’attività di direzione, si ispiri a quanto insegnato da Adriano Olivetti sull’importanza della “focalizzazione sul sistema di valori condiviso”. Ciò è fondamentale per risolvere le contraddizioni che le imprese devono affrontare e risolvere nel momento in cui l’integrazione multidisciplinare è divenuta una realtà imprescindibile: favorire il lavoro di gruppo senza penalizzare i singoli individui. “Nella struttura d’impresa disegnata da Olivetti, il conflitto non era considerato come un fattore ad essa costituzionalmente estraneo o, peggio ancora, patologico; al contrario ne era perfettamente riconosciuta la natura fisiologica […]. Per Olivetti, come per Valletta, […] la funzione decisiva e centrale nel meccanismo complesso della grande impresa era costituita dal governo della forza-lavoro. La politica del personale assolveva quindi a un compito prioritario, giacché il lavoro non poteva più essere ridotto a semplice “fattore” della produzione.

Ma se per Valletta si trattava di far aderire totalmente il lavoratore alle esigenze della produzione, assicurandosi la sua subordinazione attraverso un’occhiuta e incessante opera di polizia di fabbrica, per Olivetti il problema della gestione del personale non poteva essere risolto con l’imposizione di un rigido schema tecnico-organizzativo sulla forza lavoro. […] Perciò, il sistema aziendale olivettiano metteva in conto, in via di principio, un grado elevato di discrasia tra le linee della politica del personale seguita e le istanze tecniche di regolazione del processo produttivo. Il conflitto di poteri e di competenze tra la direzione del personale e la direzione tecnica dell’impresa nasceva, insomma, già istituzionalizzato”. L’organizzazione olivettiana non era caratterizzata da una gerarchia rigida ma da una rigorosità e serietà determinate da parte dei singoli dirigenti e “capi operai” e la disciplina dura era garantita da “uno spiccato senso delle responsabilità di cui si sentivano investiti”. Le risorse umane, come è ormai noto nella scienza del management, esprimono inclinazioni diverse e diverse professionalità che bisogna rispettare ed organizzare in modo da poter ottenere efficienza e produttività nella maggior armonia possibile: “Per assicurare lo sviluppo in estensione e l’aumento in efficienza generale di una data industria, è necessario che l’attività complessiva individuale del gruppo dei dirigenti principali sia superiore per capacità e per numero alle esigenze immediate dell’industria, in modo che la loro attività non sia assorbita completamente dall’esplicazione delle attività normali, ma sia reso possibile lo studio, la preparazione e la realizzazione di esigenze nuove”.

L’equilibrio tecnico-organizzativo di un’impresa è fondato sulla “qualità” di tutta l’organizzazione: qualità di processo, di prodotto, di rapporti con clienti e fornitori, di organizzazione del lavoro. Proprio in questo senso Adriano Olivetti non riteneva affatto che “accuratezza” e “precisione” fossero di esclusiva pertinenza della perfezione delle operazioni meccaniche bensì, con tali termini, egli intendeva riferirsi all’intero processo produttivo: ad ogni azione tecnica, commerciale, amministrativa, organizzativa, del lavoro quotidiano. Del resto l’impresa oggi non si identifica più solo con la produzione e la commercializzazione di beni, ma diventa soggetto attivo destinatario di aspettative da parte di una serie di stakeholder: ciò comporta per i lavoratori nuovi investimenti emotivi nel proprio lavoro dal quale si aspettano non solo una remunerazione economica ma anche e soprattutto un mezzo di costruzione di identità personale. Olivetti, negli anni ’50, fu un anticipatore di tale concezione, anticipando una visione dell’impresa assolutamente non condivisa dall’establishment industriale-finanziario del tempo. Fu soprattutto un “capitano d’industria” che comprese, prima degli altri, la natura dell’impresa come “sistema vivente” e le conseguenze che tale visione avrebbe comportato nella realtà. La psicologia, dentro l’impresa, rappresentò per Adriano un elemento importante per via delle motivazioni delle persone al lavoro. Una psicologia che non può consistere in una completa astrazione dai dati empirici in quanto l’educazione alla volontà si realizza non mediante teorie, definizioni o cultura storica bensì insegnando a volere come si insegna a pensare, fortificando cioè le naturali predisposizioni degli individui.

“Il segreto del nostro futuro è fondato, adunque, sul dinamismo dell’organizzazione commerciale e del suo rendimento economico, sul sistema dei prezzi, sulla modernità dei macchinari e dei metodi, ma soprattutto sulla partecipazione operosa e consapevole di tutti ai fini dell’azienda. Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica? Possiamo rispondere: c’è un fine nella nostra azione di tutti i giorni, a Ivrea come a Pozzuoli. E senza la prima consapevolezza di questo fine è vano sperare il successo dell’opera che abbiamo intrapresa”. Ecco la necessità della disponibilità dell’impresa al “dono”, la possibilità economica che il reddito d’impresa non sia destinato all’accumulo di immensi patrimoni, alla smania di denaro, bensì ad essere donato e consumato, sacrificato alla cultura, alle opere d’arte.

L’idea del riparto del reddito secondo la produttività di ciascuno non riguarda un problema di razionalità economica bensì attiene alle relazioni tra gli uomini; non allo scambio mercantile ma al consumo della ricchezza prodotta. La disponibilità del reddito d’impresa al dono non diviene solo un’astuzia imprenditoriale bensì una concreta possibilità economica. L’evoluzione dell’impresa si lega, dunque, alla cultura che essa è capace di esprimere attraverso gli individui che la compongono. Il legame tra impresa e cultura è, quindi, molto stretto e non costituisce un generico slogan: “Il segreto del nostro successo, così nel passato come per l’avvenire, era racchiuso nel codice morale da cui, è ormai mezzo secolo, questa fabbrica era nata: esso era fondato sul rigore scientifico della ricerca e della progettazione, sul dinamismo dell’organizzazione commerciale e sul suo rendimento economico, sul sistema dei prezzi, sulla modernità dei macchinari e dei metodi, sulla partecipazione operosa e consapevole di tutti ai fini dell’azienda”.

L’esperienza che ci ha lasciato Adriano Olivetti è particolarmente tesa ad enfatizzare la visione dell’impresa come istituzione. L’istituzione può essere analizzata sia nella prospettiva dei rapporti esistenti tra l’impresa, lo stato e la società politica sia in relazione ai gruppi sociali che operano per l’impresa e nell’impresa. La funzione sociale (termine che in Adriano Olivetti assume, in certa misura, la caratteristica di essere avalutativo) passa attraverso un adeguamento dei fini dell’impresa: certamente essa persegue il profitto ma è pure un’associazione di uomini uniti da rapporti contrattuali e di status. E’ logico che l’analisi dell’impresa e sull’impresa deve porsi in una logica non riduzionistica. Lo studio dell’impresa non può limitarsi allo studio interno di relazioni sociali in quanto essa agisce come centro decisionale in rapporto negoziale con altri soggetti.

L’attualità di Adriano Olivetti non deriva da nostalgici riferimenti densi di retorica bensì da alcuni insegnamenti che egli ci ha lasciato e che assumono piena rilevanza ai nostri giorni. In altri termini, una ricerca in campo economico-aziendale sulla Olivetti di Adriano non dovrebbe partire dall’ipotesi che sia possibile o augurabile riproporre una identica esperienza oggi ma, appunto, fuori da ogni retorica dovrebbe soffermarsi su temi che sono di piena attualità nella stessa comunità scientifica italiana ed internazionale e cioè: a) il ruolo e la funzione delle istituzioni, in particolare dell’impresa; b) il rapporto teoria/pratica nella ricerca scientifica; c) il significato sulla portata dei princìpi della qualità totale in azienda, troppo semplicisticamente appiattiti su improponibili modelli giapponesi; d) i sistemi informativi come strumenti di comunicazione aziendale.

14 dicembre 2001

(da Ideazione 5-2001 settembre-ottobre)





 


 
 

 

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