Italia no. E' solo un revival formale
di Carlo Stagnaro


Qualunque cosa se ne pensi, ci sono almeno due Italie. Una è quella dei media, dei politici, degli intellettuali. L'altra è invece quella vissuta dalla gente comune, che la mattina si sveglia e va a fare la spesa, che riceve ogni mese uno stipendio defalcato dalle tasse e che subisce l'invadenza del fisco con insofferenza e astio. La prima è generalmente festosa e felice, ben pasciuta; balla e danza al suon dell'Inno di Mameli e indossa soltanto casacche tricolori. La seconda è un po' più grigia, non scatta in piedi con la mano sul petto all'echeggiar di "Fratelli d'Italia" e, non di rado, percepisce le istituzioni pubbliche come estranee o addirittura aggressive.

Il recente revival bianco-rosso-verde cui siamo stati sottoposti dalle gerarchie politiche e dai mezzi di informazione non deve ingannare. Non è sufficiente gridare "Viva Garibaldi!" perché le Giubbe rosse siano amate, e - se qualcuno mormora "Dio conservi" - si riferisce al vecchio Impero asburgico, piuttosto che alla sgangherata Repubblica con capitale a Roma. Più che allo stellone del "sale e tabacchi", il loro pensiero corre languido all'Aquila bicipite. Qualunque tentativo di rintracciare una storia o un sentimento comune nella Penisola è destinato al fallimento (almeno se ha la pretesa di uscire dagli stadi di calcio). E' pur vero che molti manifestano un tiepido attaccamento ai simboli patriottici, ma si tratta nella larga maggioranza dei casi di mera ostentazione formale; un simbolo non può trasmettere nulla, se ciò che esso rappresenta non sa destare altri istinti che quello di portare la mano al portafoglio. L'Italia, piaccia o no, ha per la maggior parte dei cittadini il volto arcigno del finanziere o quello assonnato del burocrate; per molti, ha quello arrossato di sangue del nonno morto in guerra, o del parente perso sul Carso per "liberare" popolazioni di cui solo una minima parte desiderava essere "liberata".

Anche il fatto di rintracciare una storia comune a tutti i popoli italiani, però, non sarebbe sufficiente a giustificare l'esistenza di uno stato unitario - a meno che non sia presente ed esplicita la loro volontà. "Le volontà umane cambiano - osservava Ernest Renan nel 1882 - ma cosa c'è che non cambia quaggiù? Le nazioni non sono qualcosa di eterno. Esse hanno avuto un inizio, avranno una fine". Inoltre, ammoniva lo scrittore francese, i cosiddetti dati oggettivi spingono, ma non forzano le popolazioni a unirsi. Focalizzare interamente l'attenzione sull'aspetto culturale (sebbene anche su questo vi sarebbe molto da ridire) significa rinunciare a un lato fondamentale della questione. Ammesso e non concesso che l'Italia sia una "nazione" (almeno secondo il vocabolario ottocentesco: "una d'arme, di lingua, d'altare / di memoria, di sangue, di cor"), gli individui che la abitano hanno anche comuni interessi? Porsi questa domanda, d'altra parte, significa anche indagare le ragioni dello stravolgente successo delle leghe al Nord durante tutti gli anni Novanta.

Come osserva Gianfranco Miglio, "Spesso nella politica sono gli interessi stessi a costituire le identità, e non viceversa. E' difficile rintracciare delle identità che non abbiano nulla a che vedere con (i presunti) interessi comuni… Noi stiamo vivendo un periodo storico nel quale le identità vengono ridisegnate costantemente. La Padania è un caso classico in cui una comunità identitaria potrebbe essere messa in discussione, ma esistono due percezioni che costituiscono un idem sentire padano: la prima è quella di far parte della terra più ricca e laboriosa d'Europa e la seconda è quella di essere gli schiavi fiscali di altre popolazioni". Eludere questi punti significa condannare l'analisi all'incompletezza. Sarebbe ingenuo, inoltre, ritenere che al Nord non vi siano più indipendentisti solo perché la formazione politica che essi avevano eletto a rappresentarli pascola ora nei medesimi campi dei partiti nazionali e addirittura nazionalisti. Solo pochi anni fa un sondaggio rilevava che un quarto dei padani si definiva secessionista, e altrettanti definivano la secessione una prospettiva auspicabile ma difficilmente percorribile; non vi è ragione alcuna di ritenere scomparse le cause che determinavano questo diffuso disagio. Di conseguenza, sarebbe errato pensare che gli indipendentisti siano scomparsi.

Il fatto che si torni a parlare di patria, dunque, è forse la dimostrazione dell'estremo rigetto, da parte delle istituzioni pubbliche, della contestazione subita negli anni passati; ma è anche indice della paura che esse hanno di possibili sviluppi futuri. E' sbagliato, però, sovrapporre la ritrovata unità del "paese politico" a una inesistente compattezza del "paese reale". Se i politici sventolano tricolori, non significa che il loro gesto sia gradito. Il fatto che alcuni sindaci o presidenti di provincia si siano presi la briga di regalare la bandiera nazionale ai loro cittadini non implica che questi ultimi abbiano apprezzato il dono. L'idea di "patria" ha determinato la morte di molti per il benessere di pochi. In Italia, poi, essa richiama non solo un passato truce, ma anche le attuali ruberie, tasse e regolamenti. Tale parola, soprattutto nelle regioni settentrionali, ha un suono di cattivo auspicio. In Padania sono ancora molti coloro che vedono nelle istituzioni italiane una minaccia costante alla loro libertà e al loro benessere; parlar loro di "spirito nazionale" sarebbe come parlare di "ritorno del figliol prodigo" al vitello grasso.

23 novembre 2001

cstagnaro@libero.it

 

 

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