La mia Italia, moderna e popolare
intervista a Silvio Berlusconi di Luciano Lanna


"Non siamo quello che siamo ma quello che vogliamo diventare". Silvio Berlusconi ha un'idea dinamica dell'identità nazionale: un patrimonio di memorie ma anche un progetto da realizzare, un passato da valorizzare ma anche un futuro da costruire. Da anni il tema dell'identità italiana è centrale nel dibattito culturale del paese, segno di un profondo bisogno di ridefinizione della tavola dei valori che uniscono una comunità politica. Dalle aule universitarie e dalle pagine dei giornali, la questione ha finito per investire anche il mondo politico e istituzionale. Nell'agenda delle forze politiche l'interrogativo sul senso di appartenenza all'Italia è divenuto strategico: difficilmente, anche alla luce dei recenti cambiamenti intervenuti sulla scena politico-culturale internazionale, si può ambire a un ruolo politicamente egemone e incisivo senza avere "una certa idea dell'Italia". Quello dell'identità italiana è allora il grande tema della cultura politica del nostro paese. Ecco quel che ne pensa il presidente del Consiglio e leader di Forza Italia.

"Io sono italiano". Cosa suscita in lei questa semplice espressione?

Prima di tutto un lontano ricordo di scuola: Platone che ringrazia gli dèi per averlo fatto nascere greco. Io sono contento di essere nato italiano, ma il mio non è un amore cieco. Vedo bene che siamo un popolo che ha molti difetti; anche se questi difetti, sommati alle tantissime qualità, formano il nostro specifico carattere nazionale. Senza noi italiani, il mondo sarebbe cosa ben diversa. Certamente non migliore. Personalmente, credo che gli uomini possano realizzarsi, al meglio delle proprie possibilità, a condizione di avere una patria e di essere radicati in una tradizione. Così è anche per me. Per tutto ciò che ho realizzato, e che ha dato un senso alla mia esistenza, sento di essere in debito verso la mia terra. E' per ripagarlo che sono entrato in politica. Come ho scritto nell'annuncio della mia "discesa in campo", il 26 gennaio 1994: "L'Italia è il paese che amo, qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore. Qui ho appreso la passione per la libertà". Sentimentalismo? Beh, il mio sentimento è appunto questo. Gli elettori l'hanno compreso e hanno dimostrato fin qui di condividerlo.

Ma c'è oggi spazio per una nuova forma di patriottismo?

Senza spirito di squadra non si affronta nessuna gara. Così come senza patriottismo non si va da nessuna parte. Oggi più di ieri. Nella competizione mondiale tra i paesi, il senso di appartenenza a una comunità serve allo sforzo collettivo richiesto per conservare e accrescere i livelli di benessere raggiunti. E qui bisogna intendersi. Noi italiani siamo un autentico rompicapo per gli amici stranieri. Da sempre, gli indicatori della nostra situazione autorizzano previsioni catastrofiche. Ma, alla prova dei fatti, le profezie di sciagura si ribaltano con il raggiungimento di brillanti risultati. Dopo la fine della guerra, nell'Inghilterra vincitrice, vigeva il razionamento e si tirava la cinghia; mentre, nella povera Italia della disfatta, l'economia ripartiva alla grande e la gente dava l'impressione di passarsela piuttosto bene. Qualche anno fa, quando scalammo il quinto posto nella graduatoria delle potenze industrializzate, all'estero rimasero stupefatti come dinanzi a un gioco di prestigio. Gli stranieri osservano i fatti nostri e annotano una serie di difetti accanto alla lista delle buone qualità che sono disposti a riconoscerci. Come certe virtù esteriori: la cordialità, la spontaneità. Ma anche la laboriosità, il gusto artistico, lo spirito umanitario. Molti i lati negativi che ci attribuiscono: l'indisciplina, la superficialità, la disorganizzazione, il debole civismo. Perfino il senso della famiglia, che è un'eccellente qualità italiana, è stato rovesciato in un "familismo amorale" e iscritto dai censori tra i nostri "peccati capitali". Considerata la gravità di questi nostri "peccati", ci si è sempre aspettati che ne fossimo trascinati in basso: rivoluzioni, sfracelli economici. Invece, siamo sempre usciti dalle nostre crisi, e, sempre, più forti di prima. Molti esperti dei fatti nostri, i più spassionati, hanno finito per prendere nota delle smentite che provengono dalla realtà e arrendersi al mistero italiano. Così i nostri successi economici sono stati rubricati tra le cose inesplicabili, insieme con il volo del calabrone e l'incrollabile pendenza della torre di Pisa. E la tenuta della nostra convivenza civile, rispetto a lacerazioni e spinte centrifughe, ha dato luogo a ingegnose congetture sociologiche sull'esistenza di un'armonia di fondo, dietro gli eterni conflitti di una società "senza stato". Gli stranieri nostri simpatizzanti ci considerano una "anarchia che funziona". Mentre i detrattori persistono nel loro catastrofismo, sempre smentito dai fatti eppure sempre ritornante. In quel guizzo imprevisto, che ci fa riguadagnare il centro del ring ogni volta che siamo messi all'angolo, molti vedono il riflesso fortunato del famoso stellone d'Italia. Io sono convinto, invece, di vederci il patriottismo degli italiani di buona volontà. Se non fosse per loro, pronti a rimboccarsi le maniche quando serve, saremmo andati al tappeto chissà quante volte.

Come ci vedono gli stranieri lo ha detto. Ma cos'è l'Italia per lei?

Quello che è sempre stata: un sogno. Prima, per secoli, il sogno dell'Italia che non c'era. Poi, con la rinascita dopo l'Unità, il sogno dell'Italia che si voleva costruire. Siamo il paese che storicamente ha dato un contributo tra i più alti alla civiltà. Ma l'eredità del passato non fissa la nostra identità nazionale una volta per tutte. L'Italia è un cantiere di lavori in corso. A differenza degli altri popoli, non siamo quello che siamo ma quello che vogliamo diventare. Non ripiegati nel passato, o adagiati sul presente, ma proiettati nel futuro. E' una dimostrazione di vitalità che comporta, però, un prezzo da pagare: il senso d'insoddisfazione che ci accompagna da secoli. Chi ha sempre un traguardo più avanzato da raggiungere non può essere soddisfatto della sua condizione presente. Mai contenti, ed è meglio così. Serve da pungolo per andare avanti. Ma se, per un momento, ci voltiamo indietro possiamo vedere l'enorme cammino fatto dalla nazione. Il processo di modernizzazione non si è mai arrestato, pur tra deviazioni e disastri, fino a toccare il traguardo storico dell'aggancio al plotone di testa dei paesi più progrediti. Il mio governo è impegnato fortemente per continuare a farne parte. Non è solo una questione di prestigio internazionale. E' in gioco la conservazione e la crescita dei livelli di benessere conquistati dal nostro popolo. Nonostante la persistenza di sacche di povertà e di ingiustizia sociale, sulle quali il governo sta intervenendo con provvedimenti concreti e non con le solite chiacchiere della sinistra, la maggioranza degli italiani sta molto meglio di quanto la precedente generazione non osasse neppure immaginare. Ma bisogna continuare a crescere, per non tornare indietro. Addormentarsi sugli allori prepara brutti risvegli.

Il presidente della Repubblica insiste molto sul tasto dell'unità nazionale: a lei sembra in pericolo?

A me sembra soprattutto che il presidente della Repubblica adempia, con impegno ammirevole, al suo principale dovere costituzionale, che è appunto quello di rappresentare l'unità nazionale. Che non è soltanto l'unità politica nell'integrità territoriale della Repubblica. Sotto questo aspetto non corriamo rischi. Certamente non ne verranno nemmeno dal passaggio a una forma di federalismo, con il trasferimento di poteri di governo dal centro al sistema delle autonomie. Ma l'unità nazionale dev'essere un valore di riferimento anche negli altri aspetti della vita democratica. Come la competizione tra le forze politiche e la contrapposizione degli interessi sociali. Ci sono limiti che non devono essere superati, metodi distruttivi di protesta e di lotta che devono essere ripudiati. Il presidente Ciampi ricorda a partiti e parti sociali, che esiste fra tutti un minimo comun denominatore di cui tener conto nell'urto, anche aspro, degli interessi di parte. Di questo sforzo moderatore il governo gli è grato. Ben altre contraddizioni, rispetto al valore dell'unità nazionale, mi preoccupano. Il rappresentante di un'importante banca d'investimenti ha affermato che, per gli investitori, l'Italia esiste "da Firenze in su". Come se una specie di "linea gotica finanziaria" spaccasse in due la penisola. Dopo mezzo secolo di politiche meridionalistiche, con profusione di miliardi a centinaia di migliaia, la riunificazione economica del paese è ancora un problema in attesa di soluzione. Il governo si considera fortemente impegnato su questo punto. Se il Sud non è in buona salute, tutto il paese ne risente. Nord compreso. Questo non ha nulla a che vedere con la famosa frammentazione della società italiana. Siamo un popolo di individualisti, ma creativi e orientati d'istinto nella direzione giusta. Siamo anche il paese delle cento città e delle molte forme di vita. Ma non è una debolezza. Anzi, può diventare una forza, se il governo fa il suo dovere. Che è quello di armonizzare le diversità e di accompagnare il movimento spontaneo della società nel verso giusto. L'attaccamento al campanile e al proprio particolare non ci ha impedito di arrivare a sentirci tutti italiani. Si sentono italiani anche milioni di discendenti di emigrati, trapiantati all'estero da generazioni. Per questo il governo ha istituito il ministero per gli Italiani nel mondo. Il loro ammirevole senso di appartenenza nazionale troverà presto rispondenza nella possibilità di partecipare concretamente alla nostra vita democratica. Altra cosa è la persistenza della divaricazione tra Nord e Sud. Mi fa pensare a un "insuccesso di costruzione", come dicono gli architetti. Ricordo il crollo di un palazzo nella Milano del dopoguerra. Si scoprì che qualcuno aveva lasciato una scarpa in un pilastro di cemento armato. Dopo oltre centocinquanta anni si deve pur pensare che la questione meridionale abbia qualcosa a che fare con l'"insuccesso di costruzione" dello Stato centralizzato. Credo che nel federalismo sia la chiave della soluzione del problema.

L'immagine internazionale dell'Italia è come appannata nella crisi internazionale provocata dall'offensiva del terrorismo "islamista", all'indomani dell'incontro del G8 a Genova. Perché, quando la parola passa alle armi, diventiamo afoni?

Non siamo affatto l'anello debole dell'Occidente, se è questo che intende. E' il residuo di una visione caricaturale e offensiva smentita dai fatti. Abbiamo migliaia di soldati impegnati con successo in missioni di pace all'estero. All'orrore dell'11 settembre il governo ha immediatamente reagito schierandosi contro i nuovi barbari, a fianco degli Stati Uniti. Alleati e amici. Alla luce di ciò che è successo risultano chiare le preoccupazioni che, a Genova, spinsero il governo a concentrare gli sforzi sulla sicurezza del G8. Ho ribadito al presidente Bush che l'Italia sta facendo la sua parte contro il terrorismo, e che siamo pronti a impegnarci ancor più a fondo in tutti i modi che saranno considerati utili per il successo della lotta ingaggiata in difesa della civiltà comune, in difesa della libertà. Un conto è il dissenso degli estremisti del pacifismo, una minoranza a cui non può certo essere negato il diritto costituzionale alla libertà di espressione nel rispetto della legge. Un altro è la determinazione del governo e della stragrande maggioranza degli italiani a partecipare allo sforzo di autodifesa del mondo civile. E' giusto aspettarsi che le società democratiche sappiano distinguere tra il dissenso di minoranze rumorose e la serietà del nostro contributo nazionale alla buona causa. Fa parte della serietà anche il rifiuto delle tentazioni del bluff. I nostri mezzi d'intervento sono quelli che decenni di scarsi investimenti nelle Forze Armate e di costante svalutazione dello strumento militare ci hanno messo a disposizione. Sono consapevole che il ruolo internazionale dell'Italia richiede una forza militare adeguata alla forza della sua economia, nonché alle esigenze di sicurezza imposte dalla pericolosa area geografica in cui siamo collocati. Sono altrettanto consapevole dei cambiamenti che questa crisi ha apportato alla scena mondiale, con l'imprevista rivalutazione del ruolo degli stati nazionali e il grande rimescolamento delle carte determinato dal coinvolgimento nella "Grande Coalizione" della Russia e della Cina. Il governo saprà dare risposte dignitose ed efficaci alle novità della situazione. Ma non sono cose che s'improvvisano.

Per tanti anni in Italia si è parlato sempre di "paese" e mai di patria o di identità nazionale. Sembrava politicamente sconveniente ricorrere a un lessico che altrove è invece del tutto normale e con il quale si indica il senso di appartenenza alla propria comunità politica. Poi, qualcosa è cambiato. Lo dimostra la sua stessa esperienza: quando ha fondato un partito chiamandolo Forza Italia, più volte ha fatto riferimento alla necessità di "ridare speranza all'Italia". "Una storia italiana" si intitolava il testo inviato agli elettori nell'ultima campagna elettorale. Cosa è successo in questi ultimi tempi?

Sono accaduti talmente tanti fatti nella seconda metà del secolo che la scala dei valori riconosciuti non poteva certo rimanere quella di prima. Perché l'idea di patria sia in vetta a questa graduatoria occorre che l'appartenenza nazionale sia sentita come motivo di orgoglio. Non era ragionevole aspettarselo da un popolo ancora prostrato dalla disfatta militare. Tanto più che i partiti politici maggiormente rappresentativi avevano altrove il proprio baricentro ideologico. L'eredità del Risorgimento nazionale non poteva certo essere rivendicata dall'internazionalismo comunista o dall'universalismo cattolico. Anche se ricordo che le uniche parole di esortazione ad andare orgogliosi di avere l'Italia per patria, "questa più grande famiglia donataci da Dio", ascoltate in quegli anni, furono pronunciate proprio da un Papa, Pio XII. Eppoi la nazione ha esistenza storica. Così come è nata può morire. Nell'età della Guerra Fredda, con l'evidente incapacità dei singoli paesi di provvedere alla propria sicurezza, e con la formazione dei grandi blocchi militari, che erano anche aree d'integrazione economica e politica, lo stato nazionale sembrò avviato sul viale del tramonto. Lo stato a cui in Italia si guardava con speranza era piuttosto quello europeo, in lenta formazione. In compenso, se l'esistenza politica dell'Italia si andava affievolendo, il senso dell'appartenenza nazionale riprendeva forza sull'onda del successo dell'economia e del prestigio internazionale dello stile italiano. Forza Italia è nata per dare risposta a un popolo in cerca di una espressione politica. Il nostro progetto corrisponde a una precisa "idea dell'Italia". Che non è certo quella di un grande museo di affascinanti testimonianze di altre età, a disposizione delle vacanze intelligenti degli stranieri. Semplicemente, vogliamo riorganizzare l'Italia per assicurarle un futuro degno del suo passato. Una presenza dignitosa sulla scena dell'Europa e del mondo. Quale che sia il destino a cui ci avvia il vento di cambiamenti che già annuncia un tornante della storia.

Dunque, il suo progetto politico è diretto a dare espressione alla "Italia profonda". Quella popolare, che affronta la sfida del cambiamento con la volontà di preservare le ragioni dell'esistenza collettiva. "Gente dalle molte vite", sì, ma sempre gente italiana. E' così?

Esiste, negli strati profondi della società, un sentimento dell'identità nazionale che ha resistito a ogni contraria suggestione ideologica. Come ho già detto, Forza Italia è nata per dare espressione a questo sentimento popolare, rimasto orfano di rappresentanza politica. E' stata una giusta iniziativa, come dimostrato dalla vastità del consenso raccolto. Solo un inguaribile snobismo può indurre la nostra sinistra da salotto a cucirmi addosso l'etichetta di nazional-popolare. Se credono di squalificarmi si sbagliano, si sbagliano di grosso. Non fanno altro che rafforzare le ragioni del mio patto con gli italiani. Quello stesso patto che la sinistra ha inutilmente cercato di stringere per cinquant'anni di seguito. Triste destino, quello di una minoranza che si pretende popolare senza esserlo e che, quando cerca di farsi maggioranza, è costretta a mettersi in maschera. Quella di Garibaldi che, nel '48, nascondeva Togliatti; quella di Rutelli che ha coperto D'Alema nelle ultime elezioni. C'è più intelligenza politica nel nostro popolo che in tutti i salotti della sinistra radical-chic.

Potrebbe tracciare un identikit di quella parte del paese - maggioritaria, ma pur sempre una parte - che ha dato fiducia a Forza Italia e si sente rappresentata da lei?

Io guido un governo che si sente investito della responsabilità di rappresentare l'intera nazione, con tutte le sue energie e tutta la sua storia. E anche con tutte le sue contraddizioni. Non rappresento solo la maggioranza che mi ha dato fiducia, ma anche la minoranza che mi ha votato contro. Non è solo il mio dovere, ma anche il mio sentimento. Ciò premesso, sono naturalmente in piena sintonia con molti italiani che lavorano, risparmiano, rischiano e tirano su la famiglia con l'impegno di ogni giorno. Merito loro se questo paese è inaffondabile e progredisce nonostante le difficoltà. Qualsiasi altro popolo si vanterebbe di poter fare assegnamento su tanti cittadini capaci e di buona volontà. Purtroppo non è quello che succede da noi: ce lo impedisce il gusto perverso di esasperare i nostri difetti e quasi di compiacercene. Un amico straniero mi ha detto che l'autodenigrazione è il nostro peggior difetto. Difficile separare con un taglio netto qualità e difetti. Spesso sono le due facce della stessa medaglia. Poiché siamo dotati di un vigile spirito critico, non possiamo non essere autocritici. E se amputati del nostro famoso individualismo, al limite dell'anarchia, potremmo conservare la creatività che alimenta il successo del made in Italy nel mondo? Sospetto di no. Probabilmente, abbiamo i difetti delle nostre buone qualità. Ovvero le buone qualità dei nostri difetti. Comunque, le une e gli altri strettamente intrecciati. Penso anche a un altro difetto italiano che è sul punto di volgersi in una virtù: il tanto discusso campanilismo. C'è in noi un atavico attaccamento alla "piccola patria" che è stato lungamente vituperato come un intralcio alla "grande Italia" in cammino. Beh, si dà il caso che la dimensione ottimale della nuova economia produttiva sia proprio quella decentralizzata. Così il localismo diventa una risorsa secondo lo spirito del tempo. Il federalismo, scaturito dalla nostra storia, coniuga dimensione locale e dimensione nazionale, in funzione dell'efficienza produttiva. Non è più un difetto, se mai lo sia stato.

Lei crede nell'idea di "morte della patria" sostenuta da alcuni studiosi?

I grandi popoli soffrono ma non muoiono. E la vita di un grande popolo è inseparabile da quella della sua patria, la terra dei padri. Nella tragedia dell'8 settembre 1943 è morto un certo sentimento della patria, figlio di un ciclo storico bruciato nel fuoco di due guerre mondiali. L'Italia ha dato l'addio a smodati sogni di grandezza - nazionale prima, imperiale poi - nel trauma della disfatta. Altre nazioni europee hanno celebrato il proprio malinconico "addio al passato" dopo la vittoria. Con la seconda guerra mondiale la storia ha voltato pagina. La patria italiana ha realizzato, nella libertà e nella pace, quegli obiettivi di modernizzazione e di benessere che si era creduto di poter raggiungere con le armi e la scorciatoia autoritaria. Dieci anni fa, lo sfascio del sistema comunista ha abbattuto non completamente l'ultimo muro tra gli italiani, quello ideologico. Una parte del paese, infatti, non ha ancora accettato, in modo compiuto, la lezione della storia, e resta aggrappata a prassi e atteggiamenti mutuati dalla tradizione comunista. Fino a quando la sinistra non avrà fatto tutti i conti con i propri errori e misfatti, l'Italia non potrà essere quel "paese normale" che pure la stessa sinistra, a parole, reclama. Lascio agli storici di sviscerare il tema della "morte della patria" nella lunga notte del '43. Personalmente, credo preferibile inquadrare il trauma dell'8 settembre nella lontananza della prospettiva storica. Non bisogna dimenticare che il paradigma sul quale si basò il compromesso che diede vita alla Costituzione fu quello antifascista, e che, per molto tempo, l'antifascismo si sovrappose a uno spirito patriottico inevitabilmente affievolito. Ora, invece, sono stati fatti importanti passi avanti nella pacificazione nazionale, e gli appelli del presidente Ciampi all'unità del paese cadono su un terreno fertile. Registrano un'evoluzione dello spirito pubblico. La stessa che ha dato il governo del paese a una maggioranza di centrodestra, a una delle più solide maggioranze nella storia repubblicana. Dissolte le ombre del passato, la parola "patria" non è più tabù. Ce lo ha ricordato, in queste settimane, il valoroso popolo americano che, dinanzi al crollo delle due Torri Gemelle e alla parziale distruzione del Pentagono, si è stretto attorno a quel simbolo di libertà e di unità che è la bandiera a stelle e strisce.

Anche sulle pagine dei giornali il tema dell'identità nazionale viene sempre più dibattuto…

Mi ha colpito l'articolo-fiume di Oriana Fallaci sul Corriere della Sera. Milioni di italiani lo hanno letto e ne hanno discusso appassionatamente. Un vero terremoto emotivo, registrato con disagio nel dibattito culturale, ossessionato dal politically correct. Non c'è dubbio che le reazioni della grande scrittrice all'orrore dell'11 settembre, espresse con il massimo di efficacia consentito da una viscerale franchezza, abbiano toccato corde profonde. Personalmente sono rimasto colpito dalla rivendicazione, con parole emozionate e orgogliose, della sua italianità. Sì, qualcosa è cambiato in questo nostro paese, negli ultimi dieci o quindici anni. A quanto pare, gli italiani hanno smesso di credere che sia bon ton dissimulare l'orgoglio della loro nazionalità. Credo che anche il successo del mio movimento, Forza Italia, debba molto all'esplicito richiamo alla patria, al tricolore. Non si tratta di un ritorno di fiamma del nazionalismo. Le passioni delle precedenti generazioni appartengono a una storia finita, senza possibilità di ritorno almeno nella nostra parte di mondo. A nessuno verrebbe in mente di alimentare il proprio amor di patria col disprezzo delle patrie altrui. Sarebbe un'assurdità. Diceva già Papa Pacelli: "Come se il desiderio naturale di vedere la propria patria bella, prospera all'interno e rispettata all'estero dovesse essere inevitabilmente causa di avversione verso gli altri popoli". Certo, la competizione tra le nazioni esiste, specie all'interno della medesima area di civilizzazione. Guai se non esistesse: proprio la competizione è la molla del progresso. Ma è la competizione delle gare olimpiche, in cui l'asprezza non esclude il rispetto per gli altri concorrenti in pista. Identificarsi con il proprio sistema di valori non significa disprezzare le identità diverse. Anzi, credo che proprio la certezza della propria identità culturale sia la condizione necessaria per muoversi con apertura mentale nel nostro mondo delle diversità. Ci si confronta utilmente solo sulla base delle rispettive identità.

L'Italia sta diventando un paese multiculturale…

Credo che una società multietnica sia nell'ordine delle cose. La gente si muove da un continente all'altro, per bisogno ma anche per lavoro e per gusto. Là dove trova quello che cerca fissa la sua nuova patria. Quella del cuore, che non sempre coincide con quella dei padri. Ma l'idea che una società multietnica debba necessariamente essere anche una società multiculturale mi convince molto meno. Direi che è una questione di misura, più che di principio. A tutti piace il sale nella minestra, ma se ce n'è troppo la minestra diventa immangiabile. La civilizzazione francese, per esempio, è sempre stata aperta all'afflusso di genti delle più svariate provenienze, unite dal vincolo della cittadinanza, e quindi dall'adesione a determinati valori universali: libertà, uguaglianza, fraternità. E' naturale che i nuovi cittadini portino con sé il bagaglio dei propri usi e costumi, se non offendono le leggi o i sentimenti della società di cui entrano a far parte. Altrettanto naturale che col tempo e il fluire delle generazioni, quel bagaglio culturale si stemperi nella cultura dominante della società ospite, fino a diventare un sentimento della memoria. E' quel che è accaduto negli Stati Uniti col successo del melting pot e della politica di assimilazione. Ci sono milioni di italo-americani sentimentalmente attaccati alle loro radici, ma orgogliosi di essere cittadini degli Stati Uniti. I guai cominciano se una società multietnica prende la piega sbagliata. Come accade quando la formazione di enclaves culturali da parte dei nuovi arrivati non è una tappa verso l'integrazione (come il quartiere di Little Italy a New York), ma corrisponde a una scelta di arroccamento e di incomunicabilità culturale. Una nazione non può, senza pericolo, diventare un mosaico di autoghettizzazioni. Viva la diversità, ma anche il buonsenso vuole la sua parte. Mi sembra che la sinistra radical-chic cavalchi con troppa leggerezza la questione del multiculturalismo.

La sua irruzione sulla scena politica italiana - sono passati ormai quasi dieci anni - è stata interpretata nei modi più disparati. Qualcuno l'ha dipinta come un pericolo per la democrazia, qualcun altro ha visto in lei quasi un salvatore. Quel che è certo è che la nascita di Forza Italia ha rappresentato una rottura e un'innovazione rispetto alla precedente tradizione politico-partitica nazionale. La sua stessa personalità sembra avere poco in comune con il modo di fare tipico dei politici italiani della Prima Repubblica. Eppure ci saranno elementi che, a suo giudizio, consentono di stabilire una qualche continuità ideale e culturale tra la sua vicenda e la storia politica del nostro paese.

Per quanto mi sia sforzato, in tutti questi anni, di comprendere le ragioni delle critiche rivolte alla scelta di impegnarmi in politica francamente non sono mai riuscito a immaginarmi nelle vesti di un marziano capitato per sbaglio sul pianeta Italia a fare un mestiere che non è il suo. Sono un imprenditore che si è sempre imposto di tenere alto il nome del proprio paese. La scelta di impegnarmi in politica - maturata nel quadro di una congiuntura assolutamente straordinaria - ha risposto al mio desiderio di vedere difesi valori e principi che considero patrimonio inalienabile della nostra storia repubblicana: la democrazia, la libertà economica e politica, il rispetto dei diritti individuali, la difesa della famiglia, il benessere, lo sviluppo sociale e civile. Sono i valori per i quali si sono battuti i grandi protagonisti della politica italiana del dopoguerra: Alcide De Gasperi, don Luigi Sturzo, Luigi Einaudi, Gaetano Martino, Ugo La Malfa, Randolfo Pacciardi, Giuseppe Saragat, Bettino Craxi. La mia è stata la scelta di una persona, di un imprenditore educatosi alla scuola della tradizione liberal-democratica, cattolica ma non confessionale, moderata ma non conservatrice, laica ma non laicista. Una tradizione che ha contato moltissimo nella storia dell'Italia repubblicana, che sul finire degli anni Ottanta si era andata offuscando e che Forza Italia ha avuto il merito storico di rilanciare e di porre nuovamente al centro della vita pubblica del paese.

Oggi lei è alla guida del paese nella veste di presidente del Consiglio. Come immagina il futuro dell'Italia?

Non nascondo di essere animato da uno spirito costruttivo, da nuove frontiere. Lo dimostra d'altronde la mia storia imprenditoriale. Più che al passato, ho sempre avuto lo sguardo rivolto al futuro, la qual cosa spiega perché a suo tempo mi sia impegnato con tutte le mie forze in un'avventura come quella televisiva, che è stata entusiasmante dal punto di vista personale e che ha contribuito alla crescita culturale del paese. Nonostante ciò che dicono certi fautori del pauperismo o i nostalgici dell'Italia in bianco e nero. Ovviamente, questo spirito l'ho trasferito nella politica. Sono un creativo, non un utopista. Non ho mai pensato di dover realizzare sul corpo del paese strani esperimenti di ingegneria sociale. L'utopismo politico si è sempre tradotto in grandi tragedie. Ma guardare al futuro, immaginare scenari di cambiamento, fare progetti di lungo periodo, questo lo ritengo per un politico quasi un dovere, e, per un politico nell'Italia di oggi, addirittura una necessità. Tradotto sul piano dell'azione di governo, ciò significa non limitarsi all'amministrazione dell'esistente, a una visione puramente contabile e gestionale della politica. L'Italia ha certo bisogno di una classe dirigente che agisca con rigore, competenza e onestà soprattutto alla luce degli impegni, delle scadenze e degli obblighi fissati dall'Unione Europea. Ma ha anche bisogno di una élite in grado di guardare lontano, oltre la contingenza, che sia appunto guidata da una precisa visione del paese, da un'idea di sviluppo, in grado di immaginare che cosa sarà dell'Italia non fra due o tre anni, ma fra uno o due decenni. Da questo punto di vista ci aspettano tempi impegnativi, durante i quali - nell'interesse delle generazioni a venire - dovremo prendere decisioni di grande valore strategico. Faccio un esempio: in Italia si è diffusa l'illusione che utilizzare quotidianamente la Rete o navigare su Internet rappresenti un fattore di grande modernità. In realtà, utilizzare le tecnologie, anche quelle all'apparenza più sofisticate, richiede uno sforzo relativo. La capacità competitiva di un paese si misura non dall'uso terminale delle tecnologie, ma dalla capacità di progettarle e di renderle economicamente fruibili. Ci sono settori - penso per esempio all'industria aerospaziale, al comparto energetico, alla farmaceutica, alle biotecnologie, all'industria della sicurezza - nei quali il nostro paese si trova in grave ritardo rispetto agli altri partner europei. Ogni volta che si parla di grandi opere o di potenziamento infrastrutturale, poi, ci si imbatte contro un pesante fuoco di sbarramento. Se l'Italia non deciderà di investire in questi settori, se non si trova il modo di potenziare la ricerca in aree strategiche come quelle appena indicate, finiremo per diventare un paese dal futuro incerto, costretto ad andare al traino di chi invece ha avuto il coraggio delle scelte. Questo è esattamente ciò che il mio governo vuol fare. Al termine della mia avventura politica - quando sarà - mi piacerebbe vedere l'Italia incamminata lungo la strada di un reale e profondo processo di trasformazione, all'altezza delle sue potenzialità e, aggiungo, delle sue stesse necessità. Con i conti, naturalmente, in ordine. Non possiamo rivendicare solo il primato nel settore della moda e dell'alimentazione. E' poco rispetto a un mondo che si sta profondamente trasformando. La mia visione dell'Italia è, dunque, quella di un paese in grado di tenere il passo con la modernità.

A questo proposito, si è parlato del suo programma di governo come di un progetto di "Italia globale". E' così?

La parola proprio non mi piace. Ma se significa una strategia tesa a proiettare il nostro paese nella globalizzazione tenendo conto delle sue reali specificità, sono d'accordo. Siamo consapevoli che l'Italia proprio per le sue caratteristiche locali - policentricità, economie diversificate, collocazione nel Mediterraneo - è un paese più attrezzato e più pronto di altri alla sfida globale. La nostra posizione geografica, la compresenza sul nostro territorio di più culture e più vocazioni, hanno costituito fin dal passato le chiavi di una spiccata vocazione marittima e mercantile. Nel mare gli italiani non hanno mai visto un limite ma una via di comunicazione globale. Su questa vocazione punta il governo per sviluppare e dare senso al ruolo dell'Italia in Europa, nel Mediterraneo e più in generale nell'intera scena internazionale. Si dice che il paese avrebbe bisogno di più Occidente, ma è anche vero il contrario, cioè che l'Occidente ha bisogno di più Italia. Ha bisogno del nostro contributo attivo in termini di presenza, di proposta, di capacità di sintesi. L'Italia ha già smesso di sottrarsi alle sfide della storia, trincerandosi dietro gli alibi del pacifismo, a ogni costo. E lo ha dimostrato con la partecipazione delle sue forze armate alle missioni di pace all'estero. Molto resta da fare: migliore coesione sociale e più modernizzazione. A cominciare dalla modernizzazione delle nostre istituzioni, così inadeguate rispetto all'esigenza di prendere decisioni efficaci in tempi ragionevoli.

16 novembre 2001

lucianolanna@hotmail.com

(da Ideazione 6-2001, novembre-dicembre)

 


 

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