I vini del Franco Bevitore. Tutta la verità sul Dolcetto
di Franco Ziliani


Oggi si pensano, si scrivono - e purtroppo ci tocca leggere - molte scempiaggini sul Dolcetto, che testimoniano una patente incapacità di accettare questo vitigno e questo vino, elementi fondanti della civiltà vitivinicola piemontese di sempre, per quelli che sono. Così, per un wine writer serio, come Alessandro Masnaghetti, che giudiziosamente, in una sua recente “Bottiglia” sull’Espresso (27 settembre), rivolgendosi idealmente ad una produttrice “new wave” come Nicoletta Bocca, figlia di Giorgio, ricorda di avere sul Dolcetto “un atteggiamento più che positivo, a meno che non se voglia fare un Nebbiolo o un Cabernet Sauvignon”, molti altri, non si sa bene se per ignoranza, stupidità, per tornaconto personale o che altro, si ostinano a voler sognare e propagandare una trasformazione del Dolcetto in qualcosa che non sarà mai e non dovrà mai essere. Un surrogato del Barolo, del Barbaresco, del Roero Superiore, dei Langhe Nebbiolo e dei Langhe rosso.

Per questo motivo non possiamo fare a meno di ricordare il nostro punto di vista sul Dolcetto. Soprattutto dopo aver assaggiato, negli ultimi tempi, una serie di Dogliani e Alba e Diano d’Alba strepitosamente veri, che, siamo pronti a scommetterlo, non otterranno i massimi riconoscimenti delle varie guide, tutte, indifferentemente, impegnate a lodare i Super Dolcetto muscolari nouvelle vague. I vini, dal prezzo vigorosamente in ascesa, più vicino alle venti che alle diecimila lire, curati da enologi à la page, in terra di Langa, vini che, come annota Daniel Thomases sulla guida Veronelli 2001, descrivendo uno dei più noti, fanno rischiare a chi li beve “di slogarsi la mascella”… Non sappiamo bene se per la concentrazione, i tannini allappanti o la difficoltà a masticare e mandare giù quel magnifico nettare…

A nostro avviso il Dolcetto, targato Alba, Dogliani, Diano d’Alba, poco importa, deve continuare ad essere un vino piacevolissimo, succoso, fruttato, carnoso (fleshy, come direbbero gli anglosassoni), ma immediato, di pronta beva, facile da capire. Un vino che può essere apprezzato giovane, d’annata, ma che grazie alla sua ricca tessitura, alla sua costruzione, tutt’altro che disprezzabile, può reggere senza problemi, ed essere apprezzato appieno, anche dopo alcuni anni di affinamento in bottiglia. Di vini del genere - realizzati à l’ancienne, con vinificazione in acciaio o al massimo una breve sosta in grandi fusti di legno, ed immuni dall’imbastardimento e dallo stravolgimento che procura immancabilmente ad un Dolcetto la permanenza in piccoli fusti di rovere francese - ne conosciamo, da anni, una sequela. Vini come il Briccolero ed il San Luigi di Quinto Chionetti, il Cascina Francia di Giacomo Conterno, il Bricco ed il Santo Stefano di Giuseppe Mascarello, il Gavarini Vigna dei Grassi di Elio Grasso, il Priavino di Roberto Voerzio, il Monte Aribaldo dei Marchesi di Gresy, il Lazzarito di Vietti, il Cursalet ed il Vigneto Maestra di Gillardi, il Vigna la Volta di Cabutto, il Campo Re del Punset, il San Lorenzo di Brezza, i Diano d’Alba Garabei e Söri Crava di Paola e Giovanni Abrigo, e molti altri.

Sono convinto, pienamente convinto, di quest’evidenza, ma quando, sfogliando il Wine Spectator del 15 ottobre, m’imbatto in un articolo dove si sposa, senza eccepire alcunché, la folle tendenza di alcuni produttori di applicare al Dolcetto “ i metodi di vinificazione normalmente riservati al Nebbiolo e a varietà internazionali come Merlot e Cabernet Sauvignon”, capisco che la battaglia per la verità, contro le mistificazioni, è ancora lunga. E che occorre dire che affermazioni del genere sono fanfaluche pericolose e che il vero Dolcetto deve essere protetto da simili tragici fraintendimenti, da interpretazioni assurde. Ma non incavoliamoci più di tanto, che non ne vale la pena, e manteniamo i nervi saldi. Il Dolcetto, quello vero, saprà resistere all’offensiva dei “talebani” della moderna viticoltura albese e langhetta, quelli che pretendono di incarnare la Verità enologica. Finché ci saranno Dolcetti come quelli sopra citati, e come il Coste & Fossati di Aldo Vajra, c’è vita e c’è speranza.

Contrassegnato da una retroetichetta che sin dal suo esordio, (“Coste & Fossati è un puro dolcetto che nasce dai vigneti di proprietà Coste e Fossati, in località Vergne, Comune di Barolo”) la dice chiaramente sullo stile, l’umanità e l’onestà di Aldo Vaira, il più “lucido” dei barolisti, e della sua dolcissima consorte Milena, questo Dolcetto d’Alba, che non ha mai avuto, né pensiamo riceverà mai i “tre bicchieri” (troppo serio Aldo, e tutto d’un pezzo, e rispettoso di se stesso, del proprio lavoro, della propria dignità, per piacere ai capataz di Bra…), forma davvero, con i vini di Quinto Chionetti, il paradigma di quel che un grande e vero Dolcetto può essere. Senza camuffamenti, furbate, scorciatoie.

Da un vigneto posto a circa 450 metri di altezza, esposto a sud-sud/est, posto su terreni argillosi-sabbiosi, che godono di un microclima temperato e dove la produzione è stata drasticamente ridotta, a qualcosa come una bottiglia per pianta, i Vaira tirano fuori un Dolcetto di 14 gradi, assolutamente fragrante, melodioso, avvolgente per la sua dolcezza, dall’intensità, la tessitura, la personalità di un grande rosso, che vuole però rimanere tenacemente Dolcetto e non trasformarsi in chissà quale ibrido. Colore rosso rubino intenso, con brillantezza e vivacità vinosa violacea nell’unghia, tira fuori subito un bouquet che se non si é storditi del tutto non può che conquistare e affascinare d’imperio, un mannello fitto di aromi floreali - viola soprattutto - di note terrose di sottobosco, di terra bagnata, di grafite, mandorla, e delle nebbie invernali che avvolgono, come un mantello, la Langa.

Al gusto il Coste & Fossati offre tutto quello che vorresti da un Dolcetto super, anzi di più, una pienezza vellutata, un intenso calore, una costruzione saldissima, e poi sapidità, nerbo, incisività, sovrana eleganza, una struttura tannica pronunciata, polverosa, avvolgente, ma anche la piacevolezza e la fragranza dell’uva ben matura, l’immediatezza del vino grande, che sa essere complesso, pluridimensionale, ma non rinuncia mai, in nessun momento, a comunicare, a farsi capire, a parlare schiettamente e non in codice. Sono proprio questi, egregi espertologi, formato casalingo o da esportazione, i veri Dolcetto (d’Alba, di Dogliani, di Diano d’Alba), quelli che fanno e faranno sempre la grandezza di quest’autentico vino piemontese.

1 novembre 2001

Azienda agricola GD Vajra, via delle Viole 25, 12060 Barolo. Tel. 0173 56257 fax 0173 56345. Lire 13.000

 

 

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