Senso comune e luogo comune
di Eugenia Roccella
Quand’è stato che la sinistra ha perso l’egemonia culturale, e
come è accaduto il fatto? Sarebbe interessante chiarire se l’ha
smarrita come capita con un oggetto d’uso, accorgendosene solo al
momento del bisogno, o ha condotto una lunga battaglia, difendendo
strenuamente difficili posizioni di trincea; se si è trattato di
un processo consapevole o inconsapevole, di una perdita imputabile
a cause di forza maggiore o soltanto a colpevole sciatteria. Le
domande che ci poniamo non sono oziose, soprattutto adesso che il
centrodestra è al governo, e una politica culturale la deve
inventare e costruire, mentre il fantasma, ancora attivo,
dell’egemonia gramsciana è in grado di provocare anxiety of
influence. Negli anni Cinquanta l’egemonia era un progetto già
avviato e sostanzialmente strutturato, ma il paese non ne
risentiva granché. L’Italia rimaneva, nei suoi usi e costumi,
felicemente paesana, più fedele, nel suo complesso, alle
descrizioni sanguigne e provinciali di Guareschi che a quelle
algide e metropolitane di Moravia. Dagli attici dei nuovi
quartieri urbani più esclusivi, come racconta Carlo Emilio Gadda,
si potevano ancora udire le donne di servizio che ciabattavano sul
terrazzo condominiale stendendo i panni, e cantando a voce
spiegata, con accenti dialettali, “Domenica è sempre domenica”. La
distanza tra la massa degli italiani e il mondo intellettuale, con
i suoi salotti buoni, i suoi circoli selettivi, le sue personalità
di spicco, era enorme.
La cultura era affare di pochi, assai rispettata ma di difficile
accesso, intrisa di educazione classica, spesso confinante con
l’erudizione. Persino il romanzo, che fin dalla sua nascita ha
funzionato da ponte tra élite culturali e masse, nonostante fosse
proteso verso il mondo popolare fino all’estremo tentativo di
mimesi linguistica e di identificazione sociale, rimaneva ad alto
tasso di letterarietà e a basso tasso di diffusione. Insomma, il
paese cantava, ascoltava la radio, cominciava a imparare
l’italiano dalla televisione, e degli intellettuali egemoni non si
accorgeva poi tanto. Questo non vuol dire che l’egemonia non
venisse esercitata, anche crudelmente, che le tenzoni giocate e
vinte nel campo ristretto della cultura alta non contassero e non
avessero conseguenze pesanti. Vuol dire soltanto che la società di
massa italiana, ancora sul nascere, era in gran parte intoccata
dalle questioni che si dibattevano nei circoli intellettuali, e
restava ancorata a una cultura antropologica e identitaria molto
forte. Il sapere medio era modulato più sui testi e racconti
ottocenteschi che su quelli della modernità; il patrimonio
culturale condiviso manteneva una sua compattezza unitaria
nonostante le abissali differenze regionali e le disuguaglianze
economiche e sociali.
E’ stato il ’68 lo spartiacque generazionale che ha indicato con
plateale evidenza che qualcosa era cambiato per sempre, che nel
corpo sociale era in atto uno sbriciolamento, e che l’Italia era
entrata in un’altra epoca. Pasolini alzava il suo solitario
lamento contro l’omologazione culturale, la morte dei dialetti e
la scomparsa delle lucciole, mentre nessuno parlava ancora, sui
giornali, di globalizzazione; ma è a quegli anni che risalgono
tutte le generalizzazioni sociologiche che sottolineano la perdita
del primato della produzione industriale, come la definizione di
società dei consumi, o l’elaborazione del concetto di
postmodernità. Nel nuovo quadro che si stava configurando,
l’egemonia gramsciana, così come era stata teorizzata, diventava
di colpo obsoleta; un concetto inapplicabile a una società
stratificata e complessa, in cui il ceto medio diventava un’unica,
enorme nebulosa sociale, distinta, al suo interno, da una
molteplicità di stili di vita diversi, mentre la cultura si
confondeva in una massa indiscriminata di informazioni provenienti
da mille luoghi e mille fonti.
L’egemonia vera e propria è morta da tempo, si è esaurita con la
cultura elitaria e minoritaria che esprimeva, con la
sproporzionata considerazione che avvolgeva la figura
dell’intellettuale. E’ morta precocemente, nell’uovo: prima di
affacciarsi davvero al mondo, prima di confrontarsi con la società
di massa, in un paradossale gioco rovesciato. Perché erano gli
intellettuali “egemoni” a inseguire le masse, a imitarne la lingua
e gli interessi, a blandire la classe operaia o a proporre
pedagogie. Il paese, invece, manteneva intatto un altro
linguaggio, che gli intellettuali comunisti, nonostante gli
sforzi, non riuscivano a intercettare: quello del senso comune.
Fuori dall’ambito dell’indottrinamento di partito, della
comunicazione interna, le “verità” del Pci non riuscivano ad
essere recepite come tali. E’ stato il senso comune, per esempio,
a salvarci nelle elezioni del ’48. Una vittoria che giustamente
Leo Longanesi attribuiva alle “vecchie zie”, perché del senso
comune sono portatrici in primo luogo le donne, legate a una
cultura della concretezza, al rispetto della tradizione, e poco
disposte a subire il fascino della concettualizzazione astratta.
Il senso comune, come scrive Raffaele La Capria nel suo “La mosca
nella bottiglia”, non va identificato con il buon senso, volto
sempre al pratico, e nemmeno con il conformismo; vuol dire,
piuttosto, “sentirsi parte di un mondo naturale e spirituale per
quanto è possibile largamente condiviso, ma non preso a prestito o
imitato e tantomeno imposto. [...] Vuol dire rivolgersi ai più,
non soltanto ai concettualmente attrezzati. Vuol dire, infine,
senso della misura e del limite, che dopotutto sono prerogative
della civiltà cui appartengo”. La prevalenza del senso comune ha
alimentato per anni una sorda e tenace resistenza alla
divulgazione di miti bugiardi, alle infatuazioni per leader
ambigui e rivoluzioni lontane che occupavano il cuore (e
offuscavano la mente) di tanti intellettuali. Il senso comune ha
permesso e permette il confronto delle opinioni, crea quel terreno
di valori condivisi, di giudizi e sentimenti diffusi che sono il
sale e il pepe della democrazia.
Tuttavia, proprio negli anni in cui il progetto egemonico mostrava
la sua inadeguatezza, la generazione del ’68 compì il miracolo,
fornendo alla sinistra un aiuto sostanziale per imboccare la
direzione giusta. Se era impossibile, per motivi strutturali,
annettersi il senso comune, era possibile però creare
un’alternativa che ne copiasse gli schemi di diffusione,
sostituendone o inquinando i contenuti. In quegli anni sono state
gettate le basi del “luogocomunismo”, la nuova forma, più subdola
e meno ingenua, di egemonia. I meccanismi dell’informazione e
della divulgazione di massa sembravano perfetti per accogliere il
trionfo del Luogo Comune, quello con le maiuscole, prodotto,
giustificato, propagandato dai “poteri forti” dell’intellettualità
di sinistra. Le prove generali sono state fatte negli anni d’oro
del movimento studentesco: le colpe del capitalismo occidentale,
l’idea di “sistema”, il complottismo, il rifiuto della selezione
meritocratica, il mito egualitario, sono concetti passati
direttamente in una sorta di racconto globale diffuso in modo
capillare e distruttivo. Il grande centro di smistamento di questo
racconto è stata la scuola, grazie anche all’ingresso massiccio
degli ex studenti della contestazione nei ranghi
dell’insegnamento; ma la congiuntura favorevole che si è creata
intorno al Luogo Comune è dovuta a numerosi fattori.
Innanzitutto, la rete di potere, soprattutto
giornalistico-accademica, creata dagli intellettuali che
gravitavano nell’orbita del Pci, e che rappresenta la vera eredità
dell’egemonia gramsciana: un gioco di squadra che intimorisce chi
non vi appartiene, perché esalta le appartenenze ideologiche e di
clan, facendo sentire debole e isolato chi non “danza nel cerchio”
(la definizione è di Milan Kundera). Come ha messo in evidenza
Pierluigi Battista (nel recente Il partito degli intellettuali.
Cultura e ideologie nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari,
pp. 145, lire 18.000) gli intellettuali non allineati sono stati
in realtà moltissimi, e certo fra i più significativi del panorama
italiano, ma la loro valorizzazione, o in qualche caso il loro
recupero, è stato spesso postumo e sempre cauto; coloro che invece
parlano dall’interno del cerchio possono permettersi di farlo con
l’arroganza, talora sfacciata, di chi ha le spalle coperte. Ha
agito poi la asfissiante cultura del politically correct, un
boomerang partito dall’Europa e tornato di rimbalzo, in forma
americanizzata e notevolmente aggravata. E soprattutto, ha inciso
la trasformazione del tessuto sociale, la delegittimazione della
famiglia come luogo di inculturazione, la disgregazione delle
comunità. Alla piazza reale, ancora centro vitale dei paesi e
delle piccole città d’Italia, si è sostituita la piazza mediatica,
non necessariamente peggiore come luogo di formazione delle
opinioni, ma più fragile, più delicata nei suoi meccanismi di
regolazione democratica.
Eppure, il Luogo Comune, benché bestia trionfante, non ha del
tutto sconfitto l’antico senso comune. Lo tiene però sotto scacco,
ne inficia la capacità di esprimersi, la legittimità a circolare.
I detentori delle verità del Luogo Comune sono ormai i soli a
godere di autorevolezza comunicativa, avendo fatto piazza pulita
di ogni fonte alternativa. Ma, sottotraccia, il senso comune
resiste, come un sordo brontolìo che non si sa se annunci il
temporale, o sia invece lì lì per spegnersi dolcemente. Ne
rilevano l’esistenza, snidandolo e riportandolo alla luce, i
sondaggi. Per esempio, quelli sui fatti di Genova, che, nonostante
l’insistenza frenetica dei media sulla versione corretta
(anti-global tutti buoni, black bloc e polizia cattivi), mostrano
come la maggioranza del paese stia dalla parte delle forze
dell’ordine. Il senso comune intuisce che la polizia italiana è,
probabilmente, sempre la stessa, non proprio fatta di gentlemen
garantisti, ma sa anche che nonviolenti erano i radicali che
adottavano la resistenza passiva e si sdraiavano per terra
lasciandosi portare via e magari caricare, non le tute bianche che
vanno all’assalto delle reti metalliche con le spranghe.
La vera lotta che si combatte oggi, sul piano dell’opinione
pubblica e della formazione del consenso, è tutta qui: riuscirà il
nostro eroe (il senso comune) solo e accerchiato da ogni parte, a
sconfiggere il pericoloso nemico, il potente Luogo Comune? Saranno
sufficienti gli strumenti arcaici di cui dispone, a fronte del
temibile armamentario tecnologicamente all’avanguardia del suo
avversario? Ce la farà il centrodestra a disarmare, almeno in
parte, il Luogo Comune e ad aprire qualche breccia nel compatto
gioco di squadra che lo sostiene?
26 ottobre 2001
(da Ideazione 5-2001 settembre-ottobre)
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