L’alibi della “parte migliore”
di Pierluigi Battista


Molto spesso si incorre nell’errore, ragionando sulla politica e sulla cultura della prima repubblica, di adoperare indifferentemente i termini “sinistra” e Partito comunista, e di dare per presupposto che i due termini fossero, e restino, perfettamente sovrapponibili. Non è vero: le sinistre sono state (e restano) tante. Norberto Bobbio non è mai stato comunista, ma è stato un esponente prestigioso della cultura di sinistra. E’ stato di sinistra il revisionismo socialista, che in Italia ha ritrovato se stesso proprio sulla scia della rottura con i comunisti dopo i fatti d’Ungheria. A partire dal ’68, la fucina della cultura della nuova sinistra ha forgiato i propri strumenti sovente in polemica con le Botteghe Oscure. Perciò non ha tutti i torti chi, in contrasto esplicito con quanti sostengono che l’Italia repubblicana ha conosciuto per decenni la presenza di una forte e ramificata “egemonia culturale della sinistra”, invita a distinguere, a non gettare libri, autori, testi di “sinistra” in un unico calderone comunista, come se l’ombra di Palmiro Togliatti avesse steso il suo mantello totalitario su tutte le sinistre che hanno abitato il nostro paese dalla fine della guerra in poi. E’ giusto distinguere. A patto tuttavia di considerare con la dovuta attenzione i due fattori principali che hanno consentito e tuttora consentono di confondere così facilmente “sinistra” e Pci. E di individuare il tratto comune che costitutivamente ha unito la “sinistra” e il Pci nella definizione del rapporto tra politica e cultura. Il primo fattore è il programmatico “filo-comunismo” che ha contrassegnato gran parte di una cultura non comunista della sinistra italiana, disposta sì a polemizzare con i comunisti ma mai a pervenire a una rottura con essi per non venir meno al dogma dell’antifascismo come base di legittimazione del discorso politico-culturale “democratico”.

Il passaggio dal non comunismo o a-comunismo all’anticomunismo di sinistra sarebbe apparso come inammissibile “tradimento”, sfondamento e disintegrazione di quella linea di demarcazione a destra, di quella frontiera vissuta e ideologizzata come le colonne d’Ercole destinate a delimitare e presidiare il campo democratico e a confinare nel regno totalmente altro del barbarico e della minaccia antidemocratica tutto ciò che fuoriusciva dai binari del “paradigma antifascista”. Essenziale per una cultura di sinistra non comunista o a-comunista era il dogma secondo il quale i comunisti andavano considerati tutt’al più come “compagni che sbagliano”, animati da ideali nobili e condivisibili (il riscatto salvifico dal Male “borghese” e l’ingresso trionfale nel “regno dell’eguaglianza”) sebbene problematicamente realizzati nel corso del loro inveramento storico. Per gran parte della cultura di sinistra (specialmente di matrice azionista e “azionista torinese” in particolare) la comune partecipazione all’epopea antifascista rappresentava un cemento infrangibile per l’unità tra forze diverse ma che non avrebbero mai potuto sviluppare la loro diversità in un rapporto antagonistico o antinomico.

Essenziale era la riattualizzazione simbolica di un momento mitico di “unità” che rivelava una base comune molto più forte di ogni divisione e polemica ideologica. Restava fondamentale la distinzione tra un Male assoluto, il “nazi-fascismo”, le cui nefandezze erano già tutte inscritte nel patrimonio genetico di un progetto nella sua essenza negativo e foriero di sviluppi esclusivamente criminali, e un male relativo e revocabile di un progetto originariamente “buono” (la giustizia) seppure macchiatosi di errori (la mancanza di libertà) comunque riscattabili nella sintesi superiore di “giustizia e libertà” che gli intellettuali della sinistra non comunista ma non anticomunista instancabilmente stavano allestendo, protetti dal dogma dell’“unità della sinistra”. Il risultato di questo incontro è stato il comune imbarazzo delle due sinistre, di quella comunista e di quella a-comunista ma non anticomunista, nel fare i conti con il tema del totalitarismo e nell’aprirsi a una rappresentazione non omertosa del comunismo storicamente realizzato. Del resto, è in ultima analisi nella reticenza “riduzionista” o addirittura “negazionista”, culturalmente indulgente e benevola nei confronti dei crimini del comunismo, che si è propriamente realizzata l’“egemonia culturale” della sinistra di cui oggi si discute. La giustamente deplorata confusione-identificazione tra sinistra e Pci trova in questo equivoco di fondo la sua matrice originaria.

La seconda fonte di equivoco consiste, a mio avviso, nel modo del tutto peculiare con cui la sinistra comunista italiana è uscita dalla crisi mortale da cui era stata investita ben prima del crollo del muro di Berlino e di quella fine storica dell’Unione Sovietica che ha rappresentato simbolicamente il funerale di un’ideologia oramai destinata a consumare ogni sua traccia vitale. Mancano ancora studi approfonditi su come la crisi del marxismo abbia consegnato una cultura così spasmodicamente attenta a ogni movimento “strutturale” della società alla fascinazione tutta “sovrastrutturale” dell’eticità e della politica ridotta a etica o interamente risolta a testimonianza “morale”. Resta il fatto simbolicamente eloquente che l’ultimo atto dell’ultimo autentico leader comunista dell’Italia repubblicana, Enrico Berlinguer, è stato l’agitazione della “questione morale” come residuo di una immarcescibile diversità che dal terreno spigoloso della politica si è trasferito in quello, impalpabile, dell’etica. Anziché riconciliarsi con la socialdemocrazia scissionisticamente ripudiata nel ’21 sull’onda del mito rivoluzionario dell’Ottobre, la sinistra comunista è semmai scivolata in un recupero integrale e senza residui di un giacobinismo etico che, se ha consentito la fuoriuscita psicologica dal campo comunista, ha permesso alla sua cultura di preservare intatta un’alterità “rivoluzionaria” incapace di adeguarsi senza disagio nella “normalità” di una politica fondata su basi gradualiste e anti-rivoluzionarie.

Questa è la radice della persistente ambiguità culturale di una sinistra post-comunista politicamente “riformista” ma culturalmente ed esistenzialmente incapace di rinunciare alla retorica rivoluzionaria della “diversità”. Da qui la pretesa di essere i “migliori”, la parte “giusta” della società, il deposito delle risorse etiche della nazione. Da qui l’invincibile propensione alla squalifica morale dell’avversario, la certezza che nel campo nemico non possono che trovare rifugio il disvalore etico e la disonestà degli interessi sordi al richiamo moralmente puro e incontaminato dei valori. Da qui una incancellabile inclinazione della cultura della sinistra alla pratica della scomunica e dell’anatema: non più nel nome di un’avanguardia pretenziosamente certa di conoscere e incarnare le Leggi della Storia, ma quelle dell’Etica e della Morale. E’ in questa pretesa di superiorità etica (come è stata puntualmente descritta nell’introduzione di Ernesto Galli della Loggia al suo Vent’anni di impazienza pubblicato da Liberal Libri) che si delinea una continuità con il passato non smentita o contraddetta da più o meno recenti “abiure” ma anche una integrale fusione di due culture, quella della sinistra genericamente intesa e quella specifica del Pci, che per decenni si sono presentate contigue ma mai, come accade in questi anni, fino al punto di compenetrarsi senza residui.

26 ottobre 2001

(da Ideazione 5-2001 settembre-ottobre)
 


 

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