Saggistica. Galli della Loggia, ricordi del passato
di Antonio Carioti


Nel 1976 bolla il centrismo come l’epoca “del più ripugnante (anche perché più noto) malgoverno che il paese avesse mai conosciuto”. Nel 1997 riconosce a De Gasperi il “grandissimo merito storico” di aver assorbito il moderatismo italiano nel processo di costruzione della nostra democrazia. In vent’anni Ernesto Galli della Loggia ne ha fatta di strada, come riconosce francamente nella prefazione a questa ricca raccolta di scritti, assai variegati per argomento e dimensioni. Ciò che nel suo approccio ai problemi della vita pubblica non è cambiato, tuttavia, è quella che chiama “impazienza”, cioè l’attitudine fortemente critica verso una classe dirigente (intellettuali compresi) che gli appare del tutto inadeguata al proprio compito, in primo luogo sotto il profilo culturale. In prevalenza le sue polemiche sono rivolte contro la sinistra, nella quale si riconosceva molti anni fa, benché non manchino nel libro giudizi severi sul conto dello schieramento di centrodestra. L’ipocrisia dell’universo progressista e la sua intolleranza verso chi propone temi scomodi - dai difetti dell’attuale Costituzione alla comparabilità tra Urss e Terzo Reich - sono però i bersagli principali presi di mira nella prefazione del volume. Eppure la parabola di Galli della Loggia non è affatto riducibile a quella tipica dell’intellettuale che, partendo da sponde tendenzialmente filocomuniste, approda al liberalismo per via delle dure repliche della storia.

Forse ancora più importante e certamente più originale, nel suo percorso evolutivo, è l’interrogarsi inquieto sulla debolezza strutturale del sistema democratico, non solo italiano, sempre meno capace di promuovere valori che non siano il benessere materiale e i diritti individuali. Tutto ciò, ammonisce Galli della Loggia, non è sufficiente a fondare un ordine politico capace di reggere alle sfide insidiose della globalizzazione e della società multietnica: l’appello alla ragione utilitaristica non basta ad alimentare le virtù civili e la libertà senza responsabilità rischia di ridursi a pura licenza, con effetti disgregativi potenzialmente devastanti. E’ almeno dal 1988, dal fondo della Stampa intitolato “Mea culpa di un laico”, che l’autore pone alla cultura liberale, ma forse in primo luogo a se stesso, questi intricati nodi problematici. Da qui scaturisce la sua ricerca sulla crisi dell’identità nazionale, espressa in forma organica nel contestatissimo “La morte della patria”. Da qui la sua progressiva rivalutazione non solo del “retaggio giudaico-cristiano”, ma anche “della fede e dei suoi custodi storici”, malgrado la sua condizione personale rimanga quella di “non credente”.

Fa una certa impressione leggere, nell’ultimo brano incluso nel libro, che un nuovo liberalismo deve esprimere “una tensione veritativa” per recuperare il suo contenuto etico. Oppure che in politica è indispensabile utilizzare anche “la materia di cui sono fatti i sogni”. Per certi versi si potrebbe rimproverare a Galli della Loggia di nutrire verso la democrazia occidentale così com’è, certo non entusiasmante, la medesima insofferenza moralistica che lui stesso ha più volte criticato negli intellettuali progressisti. Ma sarebbe un modo troppo comodo di cavarsela di fronte ai temi scabrosi sollevati dall’editorialista del Corriere. Sono molti i segnali d’allarme intorno a noi, rispetto ai quali nessuno mostra di avere rimedi pronti. Le indicazioni di Galli della Loggia possono apparire poco convincenti, ma bisogna riconoscergli l’ostinato coraggio di uscire allo scoperto, senza temere di fare scandalo. Quando il mondo cambia così velocemente di fronte ai nostri occhi, l’“impazienza” che spinge a non accontentarsi delle formule già collaudate è comunque un atteggiamento salutare.

19 ottobre 2001

Ernesto Galli della Loggia, Vent’anni d’impazienza, Liberal Libri, Firenze, 2001, pp. 423. Lire 38.000.


 

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